venerdì 2 dicembre 2011

Achiropita e l'amore scritto sull'acqua - (carte estratte: 17 4 19 - tiraggio di Antonella D. G.)



Tirare un sasso in acqua genera dei bei tondi, che crescon sino a perdersi all'orizzonte, e se avete la pazienza di attendere il giusto, trovata l'altra sponda quel medesimo tondo ancor più grande torna indietro a raccontarvi di altri luoghi.
C'era una lavandaia che poverina, amava un uomo che viveva molto lontano. A dire il vero né l'aveva mai visto né sapeva se esistesse, ma sentiva di amarlo per tutte le cose che ella gli aveva scritto.
Lei non aveva monete tali da potergli mandare lettere, né tantomeno vi erano messaggeri disposti a farsi carico delle sue parole, ma si sa che l'ingegno di chi ha poco può smuovere il mondo.
Così Achiropita, tale era il nome della donna, costretta a stare china buona parte del giorno sulla riva del fiume, gli venne in mente di affidar le sue lettere d'amore all'acqua e immergendovi un dito scriveva sulla superficie.
"A m o r e".
Amore prendeva il largo, lasciandosi dietro di se la punta del dito. Si allungava un pochino e cominciava a spumare, si gonfiava così tanto in un'ansa che la "o" diventava "O". Scendeva per rapide cascatelle, dove perdeva la "a" mentre si infrangeva su una roccia che divideva il fiume.
Le mOre galleggiavano perché erano leggere, finivano in un mulinello che le girava tutte e ne uscivano delle Orme che rincorrevano la "a" che avevan perso. Veloce quella le raggiungeva, vi si scontrava, le mandava tutte in diverse direzioni "O r a m e" e le recuperava lentamente, dove il fiume diventava calmo, un pò rimescolate.
"r e m a" si avvicinavano. Rema nelle acque calme.
Ma dov'era finita quella grande O?
Larga là intorno. Le lettere vi erano finite nel mezzo, come se quel cerchietto adesso così largo fosse il bordo della loro imbarcazione.
Un pesce vi saltava dentro a mò di bersaglio e di nuovo gambe all'aria si riperdevano, si rimescolavano, prendevano le rapide di fretta; perché a rincorrer di nuovo quella "O" gli veniva voglia di vedere il "m a r e".
Il mare era oltre la foce, e prima della foce c'era il suo amato, e prima del suo amato c'era il castello con il suo fossato.
Sotto al castello le acque si raccoglievano. Si raccoglieva l'intero "m a r e", e quella grande "O" tornava ad esser piccola, contenuta: amero'.
Una fogliolina vicina alla "o" diede ancora speranza di avercela quasi fatta a quella parola, di aver finalmente percorso tutta quella distanza senza aver perso niente di se, mantenendo il suo senso.
Un ultimo sforzo!
"A m o r e" si raccolse infine in amore, e i due fratelli sulla riva della foce, la raccolsero bevendo un sorso di acqua fresca a testa.
Com'è buono l'amore.

Achiropita viveva così, affidando al fiume tutti i suoi sentimenti, lasciando che le parole navigassero e non chiedendo mai nulla in cambio, perché la corrente va per un verso solo.
Ma arrivò il giorno in cui una "R" tornò indietro.
La lavandaia quel dì ne aveva scritte tante di parole dolci sul pelo dell'acqua, e come ogni sera si preparava con il cestino in testa a ripercorrere la via che la riportava a casa. Ma fatti pochi passi e dato un ultimo sguardo al "b a c i o" che prendeva il largo, si accorse di quella R che ripercorreva il fiume per verso inverso.
Il suo amato le stava rispondendo! Si chinò in fretta vicino al bordo, e mise le mani a conca per raccogliere quella R. Se le portò alla bocca e la bevve.
La R per sua natura pizzicava sulla lingua. Achiropita cercò di scorgere altre parole, ma non ne vide anche perché il buio avanzava.
In quella risposta in forma di singola lettera, c'eran tutte le sue speranze e decise così di rimanere al fiume; ma vuoi per la stanchezza, vuoi per il non scorger nient'altro in quel buio, la lavandaia cadde presto addormentata in riva al fiume, con una mano in ammollo nell'acqua.

La mattina successiva, con gli occhi ancora chiusi, Achiropita sentì qualcosa tirargli un dito. Si destò e quando aprì gli occhi, vide che alla mano che era rimasta a bagno si era impigliata una M.
Subito si levò in piedi, rendendosi conto solo allora di essersi addormentata e quando guardò il fiume nella sua interezza, si accorse che molte erano le lettere che risalivano la corrente.
Era una partitura di vocali e consonanti, che le riempirono il cuore di gioia e dicevano "t b o a r r m i" ma anche "e O g A m n o o". Tutte parole straordinarie, piene di amore e sentimento.
Forse il suo amato era un poeta. Forse un matematico che le rivelava le geometrie dell'amore. O forse un indovino che non indovinava le lettere giuste.
E lettera per lettera Achiropita cominciò a seguire il fiume verso valle.
Passò così anche lei, come la parola "a m o r e" a fare quel percorso verso la foce, camminò vicino all'ansa, poi oltrepassò le rapide cascatelle, giù fin dove la roccia in mezzo al fiume solitamente divideva le parole.
"G i v G d U s s s" e poi i mulinelli, arrivò dove il fiume diventava calmo e bisognava remare per uscirne. Poi le rapide e le lettere aumentavano, si raddoppiavano, si decuplicavano in "s U e v F h s H S v d V f" schiumando.
Giunta nei pressi del castello, vi eran più lettere che acqua che si accumulavano e rimbalzavano tornando indietro, e tutto cominciò ad avere un senso, quando Achiropita vide che canali e piccole dighe, deviavano parte delle acque del fiume verso i campi coltivati del castello.
Le lettere che non finivano nei canali perché ve ne erano troppe, rimbalzavano su quelle costruzioni e cominciavano a percorrere il fiume all'inverso, risalendo la corrente.
Ecco chi le aveva risposto.

I due fratelli che vivevano alla foce del fiume erano due giganti, che da molti anni trattenevano aperto quello sbocco sul mare.
Uno a destra e uno a sinistra tenevano spalancata la foce, che era come una bocca di pietre e fango, puntando i loro piedi a bagno e spingendo con le schiene. Se avessero lasciato il loro posto la foce si sarebbe richiusa, e per tutto quel tempo tenuti fermi dal loro mestiere, avevano ad un certo punto cominciato a ricevere tutte le parole di Achiropita.
Ah! Come divenne a quel tempo pieno il loro cuore, così gonfio da non sentir più la fatica, e vi sarà di sicuro chiaro anche a voi, che andarono in allarme, dopo più di una giornata, senza ricevere attenzioni. Cominciarono così a chiedersi cosa fosse successo alle loro beneamate parole.
Non staccarono mai gli occhi dalle acque e le schiene dalla roccia, ma nel fiume non vi era più né "amore", né "bacio", né "carezze".
Era ormai da tempo che avevan cominciato a ricevere le parole e questo li faceva sentire ben voluti e meno soli. Lì sulla foce avevano tenuto per loro tutti quei pensieri venuti da lontano, senza lasciare che neanche uno riuscisse a raggiungere mai il mare.
Quello dei due che era un pò più verso la foce cominciò a pensare che se fosse arrivata una nuova parola, l'avrebbe però scorta prima quello più a monte, e in questo momento di carestia forse gliel'avrebbe rubata. Era per questo che a lui non giungevano? Così si andò a spostare appena un pò più in su, facendo diventare l'altro quello più a valle.
Ma adesso per posizioni invertite, fu il secondo fratello a sentirsi più distante e pensando che le parole le ricevesse l'altro, si spostò un pò più in alto, lasciando il fratello più in basso.
E prima l'uno e poi l'altro a fare il gioco della cavallina, cominciarono così a risalire il fiume, mentre la foce cominciò a chiudersi piano, man mano che ve ne si allontanavano.

La sala principale del castello aveva due entrate, e se quella alle spalle del trono dava su un frutteto, da quella principale entrò Achiropita.
L'imperatore appena la vide così bella se ne innamorò.
La lavandaia giunta al centro del salone chiese la parola.
- Io sto cercando colui a cui le mie parole d'amore son rivolte. - disse inginocchiandosi - Egli mi ha risposto, ma non ne capisco le intenzioni tra tutte quelle lettere alla rinfusa.
L'imperatore, capendo che era lei la fautrice delle parole d'amore che navigavano sul fiume, si levò in piedi e scendendo i tre scalini che separavano il trono dalla lavandaia, vi si inginocchiò di fronte e disse.
- Vorrei Potervi dire di essere io quella singola persona. Vorrei pensare che quelle parole le abbiate rivolte a noi. Ma anche se son state catturate per errore, il vostro innamorato qui ora è tutto il popolo. - poi la prese per mano e alzandosi le disse - Venite con me e vi spiegherò tutto.
L'imperatore portò Achiropita nel frutteto e staccata una mela dal ramo, la porse alla lavandaia. Lei incuriosita e senza esitazione se la portò alla bocca e ne staccò un pezzo con un morso.
La mela aveva il gusto di "amore", le pesche di "bacio", le arance di "carezze", perché l'acqua del fiume deviata dal suo corso per irrigare i campi, aveva portato il trasporto amoroso di Acheropita in tutti quei frutti.
L'imperatore disse:
- Due giorni fa abbiamo completato le chiuse e le dighe sul fiume, e appena le acque deviate nei canali hanno bagnato i nostri alberi da frutto, che pativan per la siccità, questi hanno ripreso vita grazie alle vostre parole. Il vostro amore è così tanto, che non tutto riesce ad entrare nei canali, alcune lettere hanno ripreso il loro viaggio a ritroso sul fiume, dopo esser state respinte dalle nostre costruzioni. La gente ora mangia questi frutti dai sapori deliziosi e cibandosi d'amore amano anche voi. Si sentono toccate dal vostro sentimento puro, e oggi non trovate un solo amante ma un intero popolo.
Bel problema pensò Achiropita, con tutti questi pretendenti chi avrebbe dovuto scegliere?
E se in quel castello non dimorava il suo amante a cui per tanto tempo ella aveva dedicato i suoi versi, dov'era adesso quel gentiluomo?

Rrrrrrrrr… Boom!
Il castello tremò tutto d'un tratto, e gli alberi da frutto si piegarono per poi tornare al loro posto.
Rrrrrrr…rrrrr… Boom!
Le mura erano scosse da enormi macigni, e le dighe cominciarono a cedere, i due giganti trovato il motivo della cessazione delle parole volevano riprendersele e sollevando e scagliando enormi massi facevano grandi brecce nelle difese del palazzo.
Le loro parole erano tenute in ostaggio da questo popolo ostile, e a loro interessavano solo quelle. Se le sarebbero riprese senza chiedere a nessuno.
L'imperatore corse per proteggere Achiropita e la cinse a se proprio nello stesso istante in cui le dighe cedettero e dal fiume si riversarono tutte le parole d'amore che si erano accumulate, andando per furia a spazzar via ogni cosa, portandosi via i due giganti, che ricevettero tutto quell'amore in un sol colpo.
Abbracciati a tutte quelle L, b, A, s, t, E ed R, ridevano mentre venivano portati via dalla corrente, non preoccupandosi di chi quelle le avesse scritte.
La foce del fiume, che ormai era chiusa senza il mestiere di quei due, non riuscì a restituire al mare tutte quelle acque, finendo così per far da tappo.
Tutta la pianura fu inondata, ogni cosa fu sommersa tra vocali e consonanti che si spargevano ovunque.
L'onda di riflesso stava tornando gonfia al castello, minacciando di farlo sparire insieme all'imperatore e al suo popolo, e ad Achiropita venne lo stimolo di poter salvare la situazione.
E di stimolo vero e proprio si trattò.
Vi ricordate che la dolce lavandaia, quando gli ritornò indietro la prima "R" la bevve facendosi pizzicare la lingua?
Bene, quella "R" per tutto questo tempo, dalla lingua alle viscere aveva percorso l'interno di Achiropita, come se lei stessa fosse un fiume tortuoso. Ora dopo tanta strada, anche quella "R" poverina era giunta alla sua foce, diventando sempre più grande e sempre più forte dentro di lei.
Acheropita sollevata la gonna fece pipì con la "R", che dopo tutti quei giri uscì fuori come un "RRRRuggito", così forte e sicura di sé che squarciò le acque che non toccarono nè il popolo nè il castello. Anzi le rimandò indietro sino ad aprire nuovamente la foce, che non ebbe più bisogno di esser tenuta dai due giganti, che aggrappati alle lettere giunsero finalmente al mare.

Il mare, al di là della foce è uno spettacolo meraviglioso. Sterminato a tal punto che pare poter contenere tutte le parole, quelle vecchie e quelle nuove, quelle vere e quelle inventate.
Il mare può esser calmo o agitato, e anch'esso se si ha molta e molta pazienza, può ingigantire tutto e restituirvi un'avventura straordinaria raccontandovi di altri luoghi.

sabato 26 novembre 2011

Il dilemma delle tre gabbie - (carte estratte: 13 4 15 - tiraggio di Stefano M.)



- Cip cip!
Il barone aveva un vizio: spremeva i canarini come fossero limoni.
Non che in questa cosa vi fosse un fine discernimento, ma egli per comprovare che teneva il pugno di ferro, li strizzava per benino in fronte a chi gli veniva a chiedere qualche concessione su questioni di moneta.
Aveva una bella gabbia d'argento nel suo studiolo, con dentro tutte quelle ali che frullavano, e man mano che ne strizzava uno, questi veniva rimpiazzato con un altro, così che il numero fosse sempre uguale.
Saverio era piccolino e sapeva bene l'abitudine del padre, e sensibile com'era ogni volta che un canarino veniva strizzato, sentiva come se il barone stringesse tra le dita il medesimo suo cuore. Così un giorno il figliuolo decise che avrebbe salvato da compressione se stesso e tutti quelli.
Ora per farvi capire nel profondo quanto per lui la cosa fosse urgente, vi dovrei raccontar per bene la procedura di stritolamento, così da farvi patire il dolore che provava il piccolo nel vederla. Ma mi riservo dal fare ciò solo perché le parole non renderebbero bene tutti i crick e crack, degli ossicini tra le dita.
Saverio che ci perdeva le giornate ad osservare l'allegro volo dei limoni in gabbia, si chiese come poter fare a salvar ben tredici canarini senza perderne la grazia?
E se per ogni volta che il padre aveva stretto tra le dite uno di quelli, il suo cuore vi si era stretto assieme, pensò che gli allegri potessero al contrario gonfiargli il petto. Così uno per volta li raccattò dalla gabbia e se lo infilò nella camicia, curandosi di chiudere per bene l'ultimo bottone una volta che il tredicesimo fu dentro.
Fu una strana quanto piacevole sensazione, perché quelli frullando tra maniche, schiena e petto, gonfiavano e sgonfiavan la camicia manco fosse un mantice.
- Cip, cip… cip… cip, cip, cip.
Per nascondere al padre il suo gesto, Saverio cominciò a parlare così, aprendo e chiudendo la bocca senza dar fiato, ogni qualvolta un canarino cantava.
Di fronte alla gabbia vuota, il barone rimase piegato ad angolo a pensare per giorni, non riuscendo a capire quale fosse la soluzione al dilemma della gabbia.
Prese a controllare le sbarre, la porticina, il fondo. Passò alla finestra, alla porta, e alle tasche dei servitori.
Niente! Non comprese mai che fine avessero fatto i suoi amati limoni.
Passarono ben dieci anni, e tutti nel paese avevano meraviglia di Saverio, il giovane che aveva il dono del canto tanto soave che pareva un usignolo. Io avrei detto un carino avendo l'orecchio più fino, ma la gente diceva così.
- Cip, cip, ciiip… cip… ciiiiiip…
Cantava Saverio alla messa, per rendere grazie al signore, mentre gli frullava la camicia che pareva avesse in corpo un così gran cuore da scoppiargli da un momento all'altro, e non passò molto tempo che gli venne chiesto di intraprendere il mestiere di cantore nei più grandi teatri dell'europa.
Saverio oltre a cantar come un usignolo - Pardon! - un canarino, passava anche per eccentrico. Per anni per non far scoprire i limoni che gli svolazzavan nella camicia, commentava firmando contratti con dei bei…
- Cip… cip… ciiiiip, cip…
- Sono artisti, hanno in corpo qualcosa che li rende speciali.
Dicevano intorno a lui, aumentandone ancor di più il prestigio.
E dall'ambasciatore, tra le cosce della bella prosperosa, e addirittura davanti al papa, Saverio cinguettava che era una gioia sentirlo. Mai neanche una parola per non farsi scoprire, ma tanto i discorsi dell'arte li capivano oltremodo tutti.
Non vi fu giorno che Saverio non ringraziasse i suoi tredici compagni di viaggio, facendo scendere semi, bacche, acqua e quant'altro giù per le maniche. Aveva preso pur l'abitudine di salire sui rami più bassi degli alberi per far balzi giù, sperando che forse quei tredici lo avrebbero persino portato in volo, ma ogni volta tornava per terra e andava in teatro.
Il giovane cantante fece una carriera strepitosa, senza che gli mancasse niente, né a lui né ai suoi compagni, e quando divenne curvo come il padre tornò a vivere nella casa dove c'era la gabbia d'argento. Tornò dove suo padre era rimasto per anni piegato a fissare la gabbia senza risolverne mai il dilemma fino a che la morte non gli aprì la finestra.
Un giorno mentre stava al davanzale, Saverio scorse su un albero lì di fronte, proprio sulla cima, un enorme nido vuoto che sarà stato di una cicogna o di un qualche uccello bello grande.
I canarini, nonostante l'improbabile età frullavano cinguettando più che mai, come se volessero dirgli qualcosa. Così Saverio, che intendeva ormai il linguaggio degli uccelli, decise di fare a loro il più grande dono: il nido più bello e spazioso che egli avesse mai scorto in vita sua.
Cominciò così la scalata verso la cima e ramo dopo ramo, passato un pomeriggio intero, fu sulla punta. Uno per uno Saverio adagiò i vecchietti nel nido e appena il tredicesimo fu giù, tutti insieme senza né un cip né un cip cip se ne volarono via.
Saverio, rimase li appeso in bilico, senza poter neanche fargli un saluto con la mano, non capendo bene dove quelli fossero andati.
Rimase in bilico li sopra per anni non afferrando quella scortesia.
E a volte mi ritrovo a pensare, che solo un canarino può comprender bene quale sia la soluzione al dilemma delle tre gabbie.

sabato 12 novembre 2011

I due pastori che erano uno - (carte estratte: 12 8 18 - tiraggio di Marzio V. V.)



- 1… 2… 3… 7… 8… 14… 16… 18. Le pecore ci sono tutte!
Maurilio faceva il pastore, e aveva diciotto pecore, né una di più né una di meno. Per contarle annodava ogni volta su una corda diciotto nodi. Di questo numero ne aveva fatto un vanto, tant'è che per ogni pecora che prima o poi veniva a mancargli, bell'è pronta ne recuperava un'altra.
Quella mattina che era venerdì e come ogni venerdì doveva fare, prima di andare al pascolo, aveva messo in bisaccia un mezzo pecorino di quelli che aveva a stagionare. E non vi farò la lista ma sappiate che era molto scrupoloso su certe cose, su alcune quantità, su come ne dovesse mangiare, su che giorno fosse e sugli orari da rispettare.
Perché sapeva che uscir anche solo poco dal suo seminato, gli avrebbe fatto perder tutto. E se vi dico tutto, intendo proprio tutto.

- 1… 2… 3… 7… 8… 14… 16… 18. Le pecore ci sono tutte!
Vittorio faceva il pastore, e aveva diciotto pecore, né una di più né una di meno. Per contarle annodava ogni volta su una corda diciotto nodi. Di questo numero ne aveva fatto un vanto, tant'è che per ogni pecora che prima o poi veniva a mancargli, bell'è pronta ne recuperava un'altra.
Quella mattina che era venerdì e come ogni venerdì doveva fare, prima di andare al pascolo, aveva messo in bisaccia un mezzo pecorino di quelli che aveva a stagionare. E non vi farò la lista ma sappiate che era molto scrupoloso su certe cose, su alcune quantità, su come ne dovesse mangiare, su che giorno fosse e sugli orari da rispettare.
Perché sapeva che uscir anche solo poco dal suo seminato, gli avrebbe fatto perder tutto. E se vi dico tutto, intendo proprio tutto.

Ma ritorniamo a Maurilio, dove lo avevo lasciato?
Ah si! Era arrivato al pascolo.
Un pò sopra al grande prato, vi era una roccia piatta sotto ad un bell'albero di Acacia. Il cappello dell'albero faceva da riparo al sole, e i rami di color dell'oro erano così belli a vedersi che erano una gioia per gli occhi. La posizione dava vantaggio per riuscir a vedere tutto il verde, senza il pericolo di perdere una sola pecora, né di farsi sfuggire dove andasse l'altro.
Maurilio arrivò li e si sedette un pò impaziente. Qualcosa non andava. Non lo vedeva arrivare neanche da lontano.
Guardò meglio. Finalmente eccolo! Lo aveva proprio fatto stare in ansia.

Ma ritorniamo a Vittorio, dove lo avevo lasciato?
Ah si! Stava arrivando al pascolo, cercando di fare più in fretta del solito, perché oggi era un pò in ritardo.
Sperava che l'altro non se ne fosse accorto.
Non so se ve lo avevo già detto, ma un pò sopra al grande prato, vi era una roccia piatta sotto ad un bell'albero di Acacia. Il cappello dell'albero faceva da riparo al sole, e i rami di color dell'oro erano così belli a vedersi che erano una gioia per gli occhi. La posizione dava vantaggio per riuscir a vedere tutto il verde, senza il pericolo di perdere una sola pecora, e con il vantaggio di farsi scorgere da lontano.
Vittorio si sedette tutto trafelato vicino a Maurilio, che era li da un pò.
- Ho avuto paura che non giungessi. - disse Maurilio - nonostante tu abbia nozione che è cosa assai importante, lo fai sempre. Un giorno è il pecorino. Un giorno è un morso in più. Quell'altro non si sa più il perché arrivi che io son già arrivato.
Vittorio annuiva come a volersi scusare, come se quella lezione fosse l'ultima che Maurilio gli avrebbe dato, perché da adesso non ce ne sarebbe più stato bisogno.
Dovevano essere uguali, se volevano continuare a vivere.
- 1… 2… 3… Vediamo almeno se ci sono tutte… 7… 8… perché un'altra sorpresa oggi non la reggo… 14… 16… 17… Cos'è quella? 18… E' nera!

Va bene ora mi fermo. Lo devo fare perché vi vedo lì tutti a ganasce spalancate, che non capite cosa stia succedendo; e a dir la verità neanche io bene li capisco quei due con la loro strana idea.
Maurilio e Vittorio in realtà erano la stessa persona, però non una ma due distinte.
All'inizio si chiamava Maurilio Vittorio, poi un giorno mentre giocherellava a tirarsi le dita per farsele schioccare, si tirò l'indice così forte che sbalestrò Vittorio fuori da se stesso.
E patatrac, adesso ce n'erano due di lui.
Avere due di sé permette di vivere due vite, poter vedere il mondo il doppio delle volte, e magari scoprire che è più bello con gli occhi dell'altro te.
Ma a Maurilio, che in quell'istante pieno di entusiasmo si accorse che avrebbe potuto avere una seconda vita, venne il dubbio sin da subito che come quello era uscito, prima o poi sarebbe potuto rientrare.
Che il destino poi alla fine le cose se le va a riprendere.
Forse facendo passar sotto silenzio la cosa, magari il fato non ci avrebbe badato.
Quindi si stipulò il patto.
- Per non far accorgere la vita della nostra situazione, ogni nostra azione, decisione e visione del mondo dovrà essere la medesima. Mangeremo ogni giorno lo stesso cibo, daremo il medesimo numero di morsi al pecorino, impegneremo la giornata con lo stesso mestiere e il nostro bestiame sarà di 18 belle pecore candide, che daranno una lana bianca come la neve.
Questo spiega un pò di cose, e per Maurilio vedere la diciottesima pecora nera come la notte fu come esser colto da improvvisa malattia, perché adesso l'ago della bilancia pendeva più da un lato che dall'altro.
Vittorio che dei due era quello un pò più per l'appunto sbalestrato, cercò di metterci un arrangio alla questione, e cominciò a spiegare.
- La povera mia diciottesima pecora, che la chiamavamo nerina per gli occhi troppo scuri, ieri al rientro è finita giù nel fosso. - piagnucolava Vittorio - Che io gliel'ho spiegato che i passi son contati, che la strada doveva essere la solita battuta. E per l'appunto a far di testa sua è finita giù dritta nel burrone. Così ne ho preso un'altra dal mio buon vicino, quella che mi pareva la migliore, pagandola così a peso d'oro che adesso la cinta ce la dobbiamo stringere di almeno otto fori.
Maurilio non credeva a quelle parole, non riusciva a capire perché l'egli stesso sbalestrato fosse così allocco da non intuire la gravità del fatto.
- Ma quella è nera! Mio caro Vittorio.
- Ma l'ho chiamata bianchina per riequilibrare!

Ed eccolo li tutto insieme Maurilio Vittorio, che benché fossero due si ostinava ad esser solo. Il danno era fatto.
Ora qual'è la soluzione se hai trentacinque pecore bianche e una nera, e non vuoi darlo a vedere al destino?
Ai due lì per lì non venne nulla in mente, poi l'illuminazione e Maurilio disse:
- Le tosiamo tutte anche se siamo fuori stagione! Così la pelle bianca di ogni pecora si confonderà con quella dell'altra, tornando ad esser tutte come fiocchi di neve.
I due si misero di gran carriera sulla via del ritorno e giunti alle loro abitazioni attigue, presero le cesoie e cominciarono a darci di mestiere, prima che la vita si accorgesse di quell'arrangiar la situazione.
E una, due, tre, sedici, venti, trenta e trentacinque la nera, tutte quelle le andarono a spogliare.
Ma ogni pecora ha la pelle come la sua lana, scura come la notte o candida come la neve.
Maurilio rimase con un palmo di naso, continuando a pensare che per guadagnarsi una seconda esistenza, avrebbe dovuto riarrangiare i danni di Vittorio il se stesso sbalestrato. Senza purtroppo considerare che ogni fiocco di neve che da lontano sembra uguale, visto da vicino svela la sua natura particolare.

sabato 5 novembre 2011

Adorno duca di Villa Due Pani - (carte estratte: 12 13 9 - tiraggio di Mauro G.)



Io, me medesimo Adorno duca di Villa Due Pani, nella mia persona più intima, rivendico esser impiccato secondo le norme che moderano da tradizione specifica gli atti di morte svolti da ogni singolo membro della mia famiglia.
Poiché la mia persona discende da genia di consapevoli appesi, incasso con questa che formalmente vengano effettuate le singolari procedure, acciocché la mia dipartita accada in guisa conforme a costume.
La corda alla quale affiderò il sottile mio collo dovrà essere di canapa e lino in proporzioni eque. Intrecciati a mano i trefoli, dovranno essere in numero pari. Nove saranno i giri dei correnti attorno ai dormienti, per evitar condizioni a scorrimento fallace.
Non saranno le mura del castello né il dirupo a sostenere il mio carcame com'è d'uso, ma reclamo ch'io venga affisso a ramo di albero di quercia; che la forza e robustezza che ha rinfrancato il mio intero essere, mi sia di appiglio nell'istante del mio ultimo fiato.
Ho realizzato per l'intera mia esistenza un nutrimento puntuale e morigerato, sicché venga evitata la decapitazione da tensione estemporanea, ma si possano rompere in sequenza la seconda, terza, quarta e quinta vertebra cervicale.
Sottoscrivo come ultima mia volontà questa, poiché in me vive la sicurezza che chi ha saputo viver correttamente ha nel diritto di saper dipartire.



Fu così che Adorno duca di Villa Due Pani decise di andarsene. Non che avesse commesso nulla da meritarsi cotal fine, fu solo che così decise.
Per linea familiare egli faceva parte di una casata molto lodevole nel prender coscienza dell'ultimo respiro, e pertanto gli vennero concessi tutti quelli che ai più, potevano sembrare solo cavilli.
La cerimonia fu solenne, con corda di canapa e lino in proporzioni eque, trefoli pari lavorati a mano, giri e quercia tutti a puntino e anche la decapitazione fu evitata; ma vi si presentò un solo errore, perché benché seconda, quarta e quinta vertebra cervicale si sbriciolarono all'istante, quando la corda si tese fu risparmiata la terza.
Ora a dire il vero chiunque in quella condizione si sarebbe arreso comunque alla morte, ma il duca Adorno era così cocciuto da non morire.
Con la testa a penzoloni dal cappio che gli cingeva il collo, egli cominciò a sbraitare contro i valletti che avevan preparato la cerimonia.
- Ma come diamine può esser successo! Ho passato notti e giorni dinnanzi a calcoli e statistiche.
I valletti provarono a farlo calare dal ramo, ma egli si rifiutò con decisione.
- Non se ne parla neanche! Ho un buon nome da far rispettare, e la morte deve sopraggiungere secondo tradizione. Rimarrò qui appeso sino a quando anche la terza vertebra non si sarà decisa a seguire le sorelle sue.
Adorno quindi rimase lì penzoloni per almeno nove lune, ma nulla accadde, perché sembrava che la terza vertebra fosse più cocciuta del padrone; e in questo tira e molla con in mezzo una corda, pareva non vi fosse vincitore.
Chi passava dalle parti della quercia ormai si era abituato a veder quel tizio ciondolante come un prosciutto a stagionare, che lanciava grida a tutto spiano inveendo contro quel solo osso che non lo voleva lasciar andare. Si dondolava, si dava slancio, tirava e solo Dio sa come riusciva anche a saltellare, ma sembrava non esserci rimedio a quella lunga attesa.
Il ramo a cui era stato impiccato Adorno dimostrò così di essere il più robusto della quercia, come egli e la sua vertebra cervicale; e proprio quel singolo braccio di legno divenne ben presto il problema, perché le offerte per comprare il solido bastone dell'albero dell'appeso cominciarono a salire.
Si, perché al di là di qualsivoglia attesa, quella quercia aveva un padrone che dal legno si pagava il vitto, e quando si trovò a dover far coricare l'albero per farne materiale da costruzione, al duca non andò proprio giù di veder infranto il suo sogno di morir da impiccato nella regola dei suoi avi.
- Qui non vi è rispetto neanche per un moribondo con il collo ripiegato! Ma giammai taglierete la corda che mi tiene maledettamente appeso alla vita.
E così infatti fu.
L'albero, come da suo destino, fu abbattuto per poi esser tagliato in blocchi, assi e tavole.
Con quel ramo ci venne costruita l'anima di un bell'aratro per lavorare i campi, con attaccato ancora il duca Adorno di Villa Due Pani.
Al nobile non parve vero di aver in realtà migliorato così tanto la sua condizione. Eh si, perché ora forse ce la poteva fare a farsi sbriciolare quella vertebra, visto che i buoi che tiravano l'attrezzo erano così forti, che di sicuro non ne sarebbe uscito vivo.
Per ben tre stagioni intere, Adorno solcò la terra attaccato a quell'affare, aggrappandosi alle pietre più pesanti che riusciva a raggiungere, per aumentare a dismisura la tensione della corda.
Cercava di dosare le forze per evitare la decapitazione, che di sicuro lo avrebbe portato al creatore, ma l'avrebbe fatto uscire fuori da ciò che si era proposto di fare.
L'aratro per il tanto lavoro si consumò rapidamente e dopo altrettante stagioni fu dismesso, e destinato a diventare qualcos'altro.
Del pezzo a cui egli era appeso ne fecero il bastone di un vecchio.
Quale sventura fu quella, molto peggio di non esser morto, perché quel raggrinzito, camminava così piano che chissà quanto tempo e vigore gli ci sarebbe invece voluto per tirare bene il collo di Adorno trascinandolo in così pacata maniera. Che se neanche i buoi c'erano riusciti!
- E muoviti cariatide! Che qui c'è del lavoro da fare, non è guardando le farfalle che mi si sbriciolerà la terza vertebra cervicale.
- Mio caro duca, io ci metto dell'impegno invero, che non ci sarebbe cosa che più mi renderebbe felice al mondo saperla morta perché io gli ho tirato dabbene il collo. - disse il vecchio - Potessero queste braccia avere il vigore di un tempo, lo farei tosto. Io ho vissuto l'intera vita per dare una mano al prossimo.
E passo dopo passo, anche se per ognuno ci volevan ore, il vecchio vi si impegnava davvero a provare a tirar definitivamente il bavero al signore.
- Ma chiedo venia caro duca, perché proprio da appeso avete deciso di lasciar questo mondo? Non si poteva far in modo migliore?
- Io son appeso per linea familiare. - rispose il duca che cominciò ad elencare - Mio padre morì appeso per scelta sulla forca nella piazza principale. Il mio nonno buon anima si fece attaccare al pennone della caserma militare. Bisnonno e trisavolo un sul castello e l'altro appeso alla cattedrale.
E continuò così per almeno altre tredici generazioni all'incontrario.
- Vedi vecchio, morire da impiccato è ciò che definisce chi io sia.
- Ora mi è chiaro. - disse il vecchio - e se è ciò che veramente volete, so come farlo accadere.
Il duca accettò all'istante, così finalmente si sarebbe potuto realizzare.
Il vecchio prese un coltello e cominciò ad intagliare il suo bastone, dove ancora vi era appeso il duca adorno di Villa Due Pani, e con le industri mani trasformò quel semplice pezzo di legno che prima era stato aratro, che prima era stato ramo, che prima era stato albero, che prima era stato seme caduto da un'altra quercia, in un flauto.
Ora il duca era appeso ad un bel flauto di legno di quercia, e appena il vecchio soffiò nello strumento ed una nota prese il volo, la terza vertebra cervicale con uno schiocco si sbriciolò all'istante, lasciando lì il cocciuto Adorno con un sorriso.


Io, me medesimo, ramo dell'albero di quercia, nella mia lignea persona più intima, rivendico di andarmene da questo mondo in una forma che non sia quella del nonno del padre di mio padre; poiché io possa trasformarmi in vento e suono, così che anch'io infine mi possa davvero realizzare.

domenica 30 ottobre 2011

Tutte le parole dei sogni - (carte estratte: 13 18 5)



Seduta su una sedia accanto al focolare, stava una vecchina con in grembo un pargoletto.
Poiché l'innocente, turbato da latrati lontani non riusciva a prender sonno, ella cominciò a raccontargli una novella.
Conosci tutte le parole dette nei sogni?
La morte se ne guarda bene dal raccontartele, poichè solo lei vuol sembrare la padrona della notte. Ella conosce tutte le parole che nei sogni vengon dette, e se la mattina al risveglio ci fai caso, hai solo un vago ricordo smozzicato dei luoghi al di là degli occhi chiusi.
La signora del trapasso è anche però una gran chiaccherona, e facendo fatica a tener per se cotal segreto, decise di condividere il fardello con il popolo dei lupi, che a quel tempo eran capaci di ascoltare e parlare. Questi però, per aver sentito troppo, furon condannati al silenzio in modo alquanto singolare: la morte per tener ben cacciate le parole in fondo alla gola degli animali, li costrinse a cibarsi solo delle mani dei morti, così che quelle falangi tenessero ben salde le loro ganasce impedendogli di rivelare.
Chi conosce tutte le parole dei sogni, può vivere nel mondo dei riflessi, e la morte continuava a voler esser solo lei quell'unica.
Da quel momento si diede così un bel da fare a staccar mani a noi poveri mortali. Fino a che il lupo, sempre più si abituò a quel sapore cominciando ben presto a prendere il vizio di cacciar l'uomo.
Ma tra i lupi alcuni erano convinti che il segreto dovesse esser condiviso, e questi divennero cani, per poter stare vicino all'uomo senza impadronirsi però delle sue mani.
Da noi le uniche che ricevono, sono talvolta quelle delle carezze e del dar loro da mangiare; per alcuni invece sono quelle delle botte.
Ma ai portatori del segreto non importava, e per protegger l'uomo dalla caccia della morte, decisero di perdere da soli la facoltà di parlare.
La vecchina diede dei piccoli morsi alle mani del piccolo che ormai aveva chiusi gli occhi.
E se di notte senti un cane abbaiare alla luna, sappi che in quel preciso istante sta gridando nella sua lingua particolare tutte le parole dei sogni; sapendo così di non rischiare. Perché ormai l'uomo, a discapito di quel sacrificio, ha smesso di comprender le parole che non sono le sue proprie.

sabato 22 ottobre 2011

I bottoni del sant'uomo di Villafranca - (carte estratte: 1 5 10 - tiraggio di Ilaria B.)



Si dice che la storia capitata nella piccola chiesa di Villafranca, ebbe a sovvertire per cinque giorni ogni ordine naturale delle cose; tanto che chi era di spirito curioso e poco religioso si recò puntuale alla messa e chi era solito trovar conforto nelle parole del curato, in quei giorni vi si tenne invece piuttosto alla larga.
Bizzarra considerazione rimane, che anche se qui siamo in odor di santità tutto ebbe inizio nella bottega di un sarto un pò maldestro, che di ago e filo stava cominciando appena a capirne i principi. Ad egli, che si chiamava Innocente, era stato dato in opera di dover confezionare una bella casula verde che sarebbe andata indosso al curato per la messa del giorno a venire.
Innocente che come dicevo era poco più che un giovinetto inesperto, a forza di dar battaglia alla sua professione, si ritrovò di lì a poco a combinare un bello strappo proprio sul collo della veste. Cosa fare, che tutte le stoffe aveva finite, ed era senza neanche una moneta in eccesso per comprare della valida fettuccia?
Gli venne così la brillante idea di arrangiar quella situazione con un bottone bello in vista, proprio al centro del collare, che facesse un pò da spilla e un pò da minuzia ornamentale; che se vuoi nascondere un errore per bene, non v'è cosa migliore di mostrarlo come un vanto o un gioiello.
Scontato è che io ammetta che l'idea fosse bella, ma il sarto era così mal pagato e povero, che di bottoni nel cassettino dei bottoni non v'era rimasto più neanche l'odore.
Decise così che per metter rammendo a quella lacerata situazione si privasse egli stesso di uno dei bottoni che teneva indosso.
Staccò allora un orfano a penzoloni dalla sua camicia leggera e lo mise proprio dove lo voleva mettere. E quanti complimenti gli fece il curato per quel singolo in bella mostra, che di casule così particolari non ne aveva mai viste e data una misera moneta al sarto se ne tornò alle sue pecorelle smarrite.
Ora il curato, proprio nel bel mezzo della sua liturgia, quando stava per celebrare la mensa del Corpo di Cristo con vino ed ostie sull'altare, cominciò all'improvviso a farle fuori per bocca una dopo l'altra manco fossero fette di buon salame. E ci diede dentro con tale gusto, che più di un buon sorso di vino del calice sacro lo aiutò a mandar giù; e tra il clamore generale dei fedeli, il curato noncurante continuò a prodigarsi in parole e apprezzamenti su quanto fosse buono quel pane, andando avanti così tanto che finite le ostie, a pancia piena concluse con un bel rutto. Tanto fragoroso fu l'apprezzare che il bottone dal collare volò via fino a giungere oltre l'ultima fila di fedeli.
Cominciò così un altro giro per riparare la Casula verde che di bottoni adesso ne aveva uno in meno. Il sarto sentita quella storia arrivare alla sua bottega prima del curato in persona, si preoccupò ben bene di far sparire la moneta che gli era stata data, per non rischiar così di perderla per le ire del sant'uomo.
Ma di astio non ve ne fu, tanto che pareva che sul curato neanche fosse rimasta un ombra di quello che era successo.
Innocente si accordò così per il rammendo e diede appuntamento all'uomo per la sera.
Ora visto che della moneta non ne voleva perder neanche un grammo, decise di usar un'altro bottone dei suoi per porre rimedio allo strappo, e gira che ti rigira, fini a usare il bottone che gli reggeva i calzoni.
Il giorno dopo, alla messa c'era già la fila lunga davanti al portone, che tutti i curiosi seppur privi di un Dio volevano vedere il curato pien di umana passione.
E come voi forse avete già intuito, che se il primo bottone che era sulla pancia aveva dato gran voce all'appetito del curato, quello del secondo giorno si occupò di soddisfare ben altri appetiti, mettendo in gola e poi tra le parole del santo ciò che di più un uomo di chiesa dovrebbe disdegnare. E nel momento più alto di un orgasmo, quando come Dio ti puoi permetter di creare, il secondo bottone saltò via con un balzo finendo ben lontano dall'altare.
- Ah! Ma come veste bene questa Casula verde col bottone! Peccato solo che si debba sempre far riparare, ma voi sarto che siete uomo di buon mestiere, so di per certo che mi riuscirete a soddisfare.
E Innocente incredulo, senza considerare bene quanto un sol bottone potesse spostare l'asse del mondo, mise sulla casula quello che soleva abbottonare sul taschino vicino al cuore. Il terzo giorno il curato ebbe solo parole d'amore, ma di un amore che andava al di la delle pagine dei suoi testi.
Perché furono parole di passione che se tennero definitivamente lontani i fedeli da quei luoghi sacri, seppero incendiare le valvole cardiache di tutti quelli che si erano riuniti dai paesi in cui era giunta questa storia.
Va da se che anche alla fine della terza funzione il bottone saltò via.
Il sarto che nel mentre aveva imparato il riproporsi consueto della questione, già dietro all'altare stava ormai pronto con il quarto bottone, che l'aveva recuperato da un asola del cappello.
Fu così che il giorno seguente, il curato fece di quei ragionamenti fini e popolari che definitivamente scatenò le ire del suo ordine, che venuti a sapere della questione della chiesa di Villafranca, si decisero a mandare un loro padre per verificare e porre fine alla questione.
Io a dire il vero non so dove Innocente il sarto prese il quinto bottone, ma quello che si dice e che quando l'uomo dell'ordine giunse il quinto giorno a varcar la soglia del portone, si ritrovò di fronte un uomo santo che aveva imparato a parlare a tutte le persone.
E se è vero che al sarto ormai cascavano braghette, camicie, cappelli e borsettine; è altresì vero che il quinto bottone prese dimora fissa sul collare della casula del curato della chiesa di Villafranca.

sabato 8 ottobre 2011

Le parole del maestro - (carte estratte: 19 13 5 - tiraggio di Nadia S.)



Tra tutte le novelle vi posso assicurar che questa è quella più vera del vero, perché non si tratta di metter in scena personaggi nati solo da mia fantasia, ma di riportar ciò che ho visto ieri con questi mie occhi.
Vi era un uomo santo che parlava attraverso ciò che diceva la gente, dalla sua bocca non usciva mai una singola parola, ma era solito dire sempre il vero.
Egli era un moro dalla pelle d'ebano, vestito di rosso, che chiedeva una moneta per dar risposta a tutte le domande che gli venivan fatte.
Attorno alla sua santità si era detta ormai ogni parola conosciuta e molti dubitavano che ciò fosse vero, eppure ogni singola persona che aveva avuto modo di toccare con mano la sua profonda saggezza, ne era venuta fuori cambiata e nuova di pacca.
Stavano all'alba due fratelli sulla riva di un fiume, che per abitudine e carattere si davan sempre contro, e se uno diceva che il mattino ha l'oro in bocca, l'altra - che era femmina - gli rispediva indietro uno sbadiglio, per dimostrare che dalla sua cavità non cascavano monete.
Anche a loro erano giunti i racconti di chi aveva visto all'opera il santo, e se lei mossa da curiosa reverenza lo voleva veder arrangiare l'alma di un qualche poveretto, al fratello di contraltare faceva sorridere solo l'idea di vederlo cascar per terra.
Decisero quindi che quel giorno sarebbero andati a cercare il santo, per vedere se aveva da snocciolare qualche risposta anche a loro.
Nella piazza principale, un pò in disparte era seduto il moro. Non stava su una sedia gestatoria, ma su una pietra piatta accostata alla fontana più grande del paese. Le persone gli si accostavano e si sedevano, attendendo che egli finito di contemplare il mercato da quella posizione, si alzasse al momento buono per condurre chi aveva bisogno di risposte alla verità.
Un uomo magro magro sino all'osso, si avvicinò e si sedette tra gli atri. Il santo allora si alzò, camminò sino al poveretto e gli tese la mano per avere la moneta, poi fece segno a quello di seguirlo.
I due si avviarono verso il mercato.
- Santo! Signore voi siete santo! Io ho un male che non può essere guarito, un male che mi porta ad una morte certa, subitanea, spietata. Mi dia la vita! Come devo fare per guarire ora, adesso.
Io ve lo avevo detto che il santo parlava attraverso la gente, e non diede nessuna risposta a quella domanda, continuò solo a camminare, andando là dove vi era un groviglio di corpi che si accalcavano per tirare il prezzo migliore sulle merci.
- Venghino, venghino signori, che questo è il posto giusto per trovare ogni cosa.
Non si capiva nulla in tutta quella confusione, che il povero malato dovette cominciare a urlare nell'orecchio del santo per sovrastare tutte quelle grida.
- Messo di fronte a morte certa, non so più chi sono, cosa devo fare?
Ma li era tutto un'intreccio di frasi sconclusionate
- … 12 anni fa…
- Mamma andiamo a vedere…
- ... di trovare un rimedio che mi arrangi del denaro…
- Mezza strega, come fai?
- Non mangi niente!
Avete presente quando siete immersi nella folla? Sembra quasi che vi sia un'unica armonica melodia che viene salmodiata sotto forma di brusio, e come un canto ha a volte degli accenti dove qualche parola si fa strada da sola. Un mozzicone di frase. Un racconto masticato.
- Io devo sapere come poter fare! Voi che siete santissimo tra tutti, voi sapete il vero, ed io devo sapere, voglio sapere! Ve ne prego, guardatemi non vi faccio pena?
Fratello e sorella che avevano assistito sin dall'inizio a questo soliloquio da dietro le spalle dei due, tendevano l'orecchio per sentire quali parole diceva o non diceva il santo, spintonandosi a vicenda per dare ragione ognuno alla propria posizione.
- Voi scegliete quello che vi piace di più signora…
- Ne ho di tutti i colori…
- Al mercato ci vengo solo per curiosare un pò!
Il povero malato, cominciò ad incalzare per avere la risposta per cui aveva pagato il peso di una moneta.
- Santo, ditemi come fate? Come riuscite a conoscere sempre la verità?
- Signori! Signori non spingete, ce n'è per tutti se avete pazienza…
- Santo uomo siete voi! Ma non capisco, non dite niente? Io credevo che mi avreste aiutato!
- Se mi date le vostre misure, posso tagliarvi un vestito con la stoffa verde che avete scelto.
- Parlate maledizione! Voi non siete un santo! Voi credete di poter piegare la volontà delle persone! Approfittatore!
- Mia cara dama, se passavate poc'anzi, vi avrei potuto soddisfare. Purtroppo di quella mercanzia ora non ne ho più per voi.
I fratelli che avevan continuato a porgere l'orecchio per tutto il tempo, per pena vollero difendere il malato, e contro quel falso santo che non aveva invero tutte le risposte, gridarono all'unisono:
- Voi siete solo un impostore!
E come tante volte accade con perfetto tempismo, che quando a tavola nel brusio generale tutte le voci dei commensali per un istante si chetano all'unisono, quella singola frase si erse nel silenzio.
Il moro si voltò, e con grande calma, porse le mani ai due, consegnando una moneta per ciascheduno.
Poi si allontanò con andatura lenta, lasciando dietro a se il povero malato, che quasi come se si fosse fatto pietra, ad occhi spalancati non distolse lo sguardo dai due fratelli, poi disse:
- Me ne vergogno di aver finto malattia, ma speravo che per pena mi dicesse quale fosse il suo segreto di conoscer sempre il vero.
E così tutti ebbero la loro risposta.

sabato 1 ottobre 2011

Tutti i mali del mondo - (carte estratte: 16 15 13 - tiraggio di Federico F.)



Sono le pieghe delle lenzuola la causa dell'insonnia, che se invece di sentire quell'orlo premer contro pancia e coscia potessi semplicemente scivolar per superficie liscia in un sonno calmo, ci sarebbe tanto da guadagnare.
Ma il problema rimane proprio quello e tu per quanto tiri da ogni lato, non trovi scampo alla situazione, con risultato di aver trasformato quel lenzuolo in carta straccia.
Così tante erano le pieghe che Ferdinando aveva impresso nel suo letto, cha da ben sedici giorni non chiudeva occhio. Ma quando finalmente l'orbita si era fatta così pesante che gli sembrò di cadere giù dal letto, un "toc toc toc" lo rimise in piedi.
Ferdinando infilate le babbucce, con la candela in mano andò a vedere chi fosse all'uscio, quando solo due rintocchi aveva suonato la campana.
Oh per misericordia!
All'uscio si parò dinnanzi il diavolo, che appena l'uomo scostò di poco la porta quegli ci infilò le unghie rapido ed entrò in casa come il soffio freddo della notte.
- Buonasera Ferdinando.
- Buonasera signor Diavolo, data l'ora immagino sia cosa importante e improrogabile.
Ferdinando era sempre gentile, conosciuto tra tutti per i suoi buoni modi.
- Ah certo! L'importanza è presto detta, fatemi prego cortesia con la sola vostra presenza, sempre se non disturbo.
- Ci mancherebbe, prego si accomodi al mio tavolo. Le posso preparare una tisana calda per darle maggior conforto?
E in questa situazione, Ferdinando dovette rinunciare al letto, collezionando in altro modo una nuova notte con gli occhi a palla.
E mentre il diavolaccio gliela raccontava bella e lunga, il nostro pover'uomo schiacciava ventotto erbe in tisana.
- Si, caro Ferdinando, perché pensavo che a volte anche io dovrei seguire il vostro esempio: voi vi comportate bene con la vita, avete buone maniere, siete figlio rispettoso, di grattacapi non ne avete da smaltire.
E mentre il diavolo continuava a raccontargliela in lungo e in largo, come fosse norma, con la calda tisana di Ferdinando ci si lavava il culo e il fallo. Non gli si poteva dar torto del resto: la tisana era davvero rinfrescante.
Arrivò così la mattina, e quando il gallo cominciò a cantare, il diavolo salutò il pover'uomo che neanche quella notte chiuse occhio.
Ma perlomeno il letto non era stropicciato non avendoci posato le membra stanche per nemmanco un'ora.
La notte successiva Ferdinando disse:
- Questa volta non mi faccio più fregare, se all'uscio vedo il diavolo non gli apro.
Tirò bene le coperte e per non farvi nemmeno una grinza, vi scivolò dentro piano piano e non si mosse se non solo per respirare.
Toc, toc, toc.
- Questa volta, lascio perdere, se è lui faccio finta di dormire.
Toc, toc, toc.
Ferdinando andò alla porta per vedere chi ci fosse di fuori, ma vide solo un uomo magro magro fino all'osso.
- Bene! Non è il diavolo.
Così aprì la porta.
- Buonasera Ferdinando, sono la morte. Mi spiace disturbarvi a quest'ora della notte, ma è cosa assai importante.
Ferdinando allora lì per lì, dispiacendogli di far torto a quella che stava li fuori al freddo mezza ignuda, la fece entrare.
La morte si accomodò per bene sul letto e vista quella coperta senza manco una piega, chiese a Ferdinando se la potesse usare.
- Sapete Ferdinando, quando uno è così magro come me per costituzione, gli viene sempre da patire il freddo.
- Non fate complimenti cara morte: riscaldatevi.
E il nostro, alzò la coperta sulle spalle di quella, che disse.
- Ero li che pensavo, ma il Ferdinando è proprio una brava persona, che mi dispiacerebbe incontrarlo solo il giorno in cui dovrò portargli via la vita.
Ferdinando non poté far altro che pensare, che anche in questa notte non avrebbe chiuso occhio, perché da come quella era partita a raccontare, pareva cosa lunga e assai complessa.
- Si, perché tutti pensano a me come una persona che quando arriva toglie solo, si porta via la vita, la gioia, i sogni e le speranze. Ma alla fine anche io son come loro, che la notte ho anche freddo, mi vien fame due volte al dì e non posseggo altro se non una falce e un paio di mutande. E poi sono espansiva, mi verrebbe voglia di chiacchierar con tutti per ore.
Oh santa pazienza che devi avere con la morte! E Ferdinando per scaldare quella magrezza incompresa e dargli corda, gli fece vedere come si faceva a preparare la tisana, proprio come quella che aveva fatto la sera prima: ventotto erbe in acqua calda.
La morte fu soddisfatta, sentendo come quella gli scaldava le membra, e la mattina dopo salutò Ferdinando che recuperata da terra la coperta stropicciata, uscì a sua volta di casa con il sonno addosso.
- Non si può proprio più dormire! Questa notte alla morte, mi dispiace non gli apro; che benché siano interessanti i suoi argomenti, quella parla tutta fino al alba senza smettere.
E infatti arrivata la notte Ferdinando non aprì alla morte, perché lo fregò di nuovo il diavolo.
Che se uno si è preparato bene a difendersi su un fronte, dall'altro rimane sguarnito e cade in confusione.
La notte seguente poi non aprì al diavolaccio, ma alla morte. ormai quelli sembrava si fossero dati appuntamento alterno, e un giorno l'uno e il successivo l'altro riuscivano sempre a tener sveglio quel pover'uomo con le loro questioni, e per ben quattro anni egli non chiuse più occhio.
Ma una sera del quarto anno, che era bisestile, si presentò all'uscio prima la morte e subito dopo il diavolaccio.
Questi due che erano andati in confusione per quell'anno particolare, al ventinove febbraio non sapevano bene cosa fare e se l'uno pensò di ritardare di una notte, quell'altro per non sbagliarsi ragionò di anticipare.
Ferdinando a quel punto non sapendo proprio cosa fare, li squadrò per un pò dalla finestra.
- Mannaggia! Che questa volta mi ero ben preparato a non aprir né all'uno né all'altro, ma che venissero insieme non lo avevo considerato.
E aprì anche quella notte.
Ma per abitudine ormai, quei due sapevano cosa fare, e se la morte aveva imparato a preparare e servire la tisana tenendosi la coperta sulle spalle, al diavolaccio bastava solo riceverla per lavarsi poi le chiappe.
Ferdinando se ne rimase li senza nulla da fare, così si sdraiò sul letto ormai di lenzuola e cominciò a russare.

giovedì 22 settembre 2011

Le maledettissime sette frecce - (carte estratte: 6 3 4 - tiraggio di Leandro B.)



Che cosa c'è di più perfetto se non l'amore, che crea equilibrio speciale tra occhio e cuore.
La incocco lì così come rima facile con quasi sbaglio, manco fosse la settima freccia di cupido.
Si, perché quello che voi forse non sapete è che al dio per eccellenza del sentimento sacro, poco gliene cale di dove va a finire quella punta in eccesso. Che mica si diverte a tirare, egli se ne vuole solo sbarazzare per mantenere l'equilibrio del suo numero: sei.
E si sa che dopo aver ricevuto in dono sul sedere uno di quegli spilli, a noi del razionale più nulla importa.
Mentre il povero Cupido ne fa questione grave perché di frecce nella faretra se ne ritrova sempre sette, tanto che ogni volta ne esce pazzo volendone possedere solo sei.
Sei è un numero bello, un doppio 3 che si guarda in viso. Assorto appunto come due amanti che si completan per sguardo, dove occhio verso occhio crea profondissima coscienza.
- Maledette ancora sette! Che di quella freccia in eccesso me ne ero appena liberato.
Ma niente da fare, e più sulla terra sbucan amanti e più a quello gli viene la bocca storta per disappunto.
Scaglia e amanti, lancia e amanti, getta e amanti…
Incocca infine un'altra settima per levarsela di mezzo. Poi le riconta tutte quante, ma sono ancora sette!
- Sette, sempre sette e solo sette! Questo amore mi trafigge sol la bile!
Sta quello tutto il giorno a gridare, cercando nuove natiche maldestramente da centrare.
Ma forse il trucco per davvero è da scovare altrove, che se chiedi ad un innamorato "tre per tre?" lui non ti risponderà di certo "nove".

domenica 18 settembre 2011

I quattordici strati - (carte estratte: 13 3 4 - tiraggio di Gianluca C.)



Nessuno nasce orfano.
Vi è invece un istante preciso in cui lo si diventa, che fa da lama tra un prima e un dopo.
E se è vero che ogni condizione può esser sovvertita, Geremia aveva trovato allora la sua leva.
Potrei adesso aprire la danza con un "C'era una volta", per poi capitombolare su "un bambino di nome Geremia, che aveva le mani così piccole da non riuscire a tenere quei due sassolini incrostati di fango, trovati tra le pietre tombali il giorno del funerale dei suoi genitori".
Ma cadrei in errore, perchè fu solo molti anni più tardi, che egli cominciò a dimostrare quanto fosse abile a dare forma alla terra.
Il primo strato che tosto Geremia stese, fu il giorno del tredicesimo anniversario. Era crudo ma riusciva a dare un'idea generale della fisionomia: le teste, le gambe, le braccia, i seni per lei, un busto fiero per lui.
Non passò molto, che grazie al secondo strato, colmò con più personalità entrambe le figure. Quando il fango tendeva a sfaldarsi su alcune pieghe, le abili dita di Geremia sapevano arrangiare sempre una soluzione.
Il terzo strato, definì senza ombra di dubbio facendoli fiorire, che si trattava di una donna e di un uomo; e dai cinquanta centimetri si passò nel giro di un paio di mesi, ai sessanta del quarto strato, che li rese stabili.
Il quinto strato fu più difficoltoso perchè si presentò il problema di far essiccare compattando bene la superficie. Il sole poteva aiutare, ma muovere le statue all'esterno richiedeva fatica e ingegno: il peso di quella massa la rendeva una norma assai tortuosa.
Geremia doveva così legarsi un corposo baule sulla schiena e chino sotto quel carico, prima la donna e poi l'uomo, li portava fuori dalla bottega per lasciarli qualche ora all'aria vegliando su di essi.
La superficie ormai pareva solida e le fattezze erano sempre più affini a quelle di veri esseri umani: con ogni vena, pelo e imprecisione della pelle fatti di fango.
Con il sesto strato, Geremia vi si potè cominciare a specchiare: lo stesso suo naso aveva l'uomo, così come l'attaccatura dei capelli; ma il taglio degli occhi era come quello della signora.
Al settimo strato portò in ammirazione per l'intero paese la sua opera, cominciando a girare tutto il giorno con ben due bauli legati alla schiena, non sopportando l'idea di separare i compagni.
La gente li squadrava senza crederci, domandandosi se quelli fossero davvero fatti di solo fango. Persino i colori erano quelli del reale.
Geremia aveva imparato che di terre di diverse sfumature ne è pieno il mondo, e che tutti quei colori che davano vita quasi vera alle sue statue, per differente consistenza schiacciavano col peso quel buon figliuolo. La conseguenza fu che prese ad andare sempre più lento.
L'ottavo strato si pose oltre ogni significato di perfezione e dimensione. Ma dovette rinunciare all'idea di andare in processione, che anche a trascinarsi con le mani, le statue avevano accumulato così tante incarnazioni da inchiodarlo al suolo.
Al nono strato di fango straordinario, quei due colossi presero posto in pianta stabile fuori dalla bottega, perchè i soffitti non avevano dimostrato rispetto né tantomeno vergogna di esser così volgarmente bassi.
- E se voi non capite l'importanza della dimensione, io vi priverò del farvi sentire utili ed amorevoli nei miei confronti.
Da quel momento andò a vivere al di fuori.
Il decimo strato fu quello che gli spaccò di più il cuore, perchè non riusciva a darsi pace per non avere abbastanza da donare alla sua creazione.
Dormiva la notte ai piedi delle statue, e di giorno faceva centinaia di prove per trovare il modo di dar strato robusto alle sue convinzioni, ma fu con l'undicesimo spessore che risolse l'equazione.
Duri come il granito, non avrebbero più dovuto temere nulla, neanche il fulmine.
Il dodicesimo strato eliminò il superfluo, levigando i lineamenti, cercando di trovare una linea essenziale, che esprimesse con un solo gesto tutto ciò che per lui era indispensabile.
Al tredicesimo strato cominciò a piovere.
Nulla avrebbe potuto preoccupare ormai Geremia: l'opera era indissolubile.
Ma continuò a piovere.
Passando le mani sulla superficie, un sottile strato gli rimase sui polpastrelli.
Altri furono i giorni, ma non smise di piovere.
L'ansia gli diede problemi a deglutire. Poi appoggiò le mani per verificare la compattezza dei colossi, ma queste affondarono fino ai gomiti e per il peso dei due Geremia vi rimase incastrato.
Continuò a piovere ed egli ad affondare, come quando stai fermo sul bagnasciuga sabbioso del mare e pian piano ti assorbe sempre più dal di sotto.
Geremia gradualmente faceva sempre più fatica a respirare, perchè compresso ormai nelle statue ci era finito quasi del tutto dentro.
Arrivò in modo naturale che con un filo di voce, tirandosi indietro disse:
- Perdonatemi, ma ora vi devo lasciare.
Con estremo dolore fece un passo indietro, poi un'altro, lasciando al posto del suo corpo un vuoto al negativo nelle statue.
Era il quattordicesimo strato.
Poco dopo, per quella mancanza i colossi si piegarono su loro stessi, non essendo più.
Geremia non si accorse subito di tenere stretti quei due sassolini trovati al cimitero, su cui aveva cominciato a stendere il primo strato.
Le sue mani erano molto più grandi di allora. Si portò poi i sassi al naso e li odorò ad occhi chiusi, perchè si ricordò di aver letto non si sa dove, che sono solo alcune pietre a conservare ancora un odore umano.
E finalmente Geremia fu solo Geremia.

venerdì 9 settembre 2011

I tiri mancini del giovane sovrano - (carte estratte: 4 20 1 - tiraggio di Valeria M.)



Cosa fa di un anziano sovrano, un anziano sovrano?
Il fatto di essere stanco di essere anziano.
Che se fosse sovrano senza essere anziano, raccoglierebbe per se molto più godimento da una vita di comando senza impedimento.
E come tutti anch'egli sapeva che è destino comune che tocca al povero come al ricco, che prima o poi ti annoi sin tanto che morte ti coglie per vizio.
Fatto sta' che se sei sovrano però, ti accade almeno una qualche piccola intercessione: che la tua posizione più alta degli altri, ti permette di esser meglio ascoltato dalle cerchie esterne del regno celeste.
Grazie a questa circostanza, già che le parole devon fare meno strada, il nostro sovrano annoiato si ritrovò a chieder ad un angelo di passaggio, di poter riporre nell'armadio la sua vecchierellezza.
L'angelo che per natura non si tira mai indietro da estendere indulgenze al di là del suo cielo, accordò al nostro anche questa concessione.
- Quando il sole ti sarà dinnanzi rimarrai sovrano annoiato, per impegno e allegrezza del tuo popolo; ma al calar di esso potrai rallegrar te stesso come fu un tempo.
La grazia era bell'e fatta.
Ed il sovrano per tutto il giorno rimase così allegro in attesa della sera, che quello sarebbe già bastato a non farlo sembrare così vecchio.
Poi quando anche l'ultimo raggio del padre sole si ritirò oltre i torrioni del castello, tutte le rughe e gli acciacchi si sciolsero in un giovinetto.
Il sovrano ritornato allegro e senza rughe cominciò così a correre per tutte le stanze del castello, finché il fiato glielo permetteva, e a far di quelle capriole che nemmanco una scimmia se le sarebbe mai immaginate, facendo sollevare come fosse egli stesso una girandola, tutte le sottane delle cortigiane del regno.
Mangiò di gusto dalla dispensa ogni ben di Dio, sfidò ogni singolo cavaliere in armatura facendolo capitombolare con la sua spada nuova di zecca, e andò avanti in questo modo fino al mattino.
Tra le lenzuola soffici, il sole porse i suoi omaggi all'anziano sovrano, che come destatosi da un sogno, si chiese se ciò che vagamente ricordava fosse davvero sepolto al di sotto delle sue stesse rughe.
Poi per tutta la giornata ne ebbe riprova, ricevendo elogi ed abbracci da tutti i cuochi che si complimentarono con lui per l'appetito dimostrato in quella notte; da tutti i cavalieri che con onore erano finiti gambe all'aria, e da tutte le cortigiane che tali girandole non ne avevano mai viste in una vita intera.
L'anziano seppur non ricordasse bene cosa fosse successo, si colmò l'alma di gioia e impaziente aspettò la notte successiva.
Non è però da me annoiarvi con troppi dettagli, fino a farvi diventare vecchi, e per restar nel succo vi dico, che per molti mesi quel giovinetto ebbe di che divertirsi notte dopo notte, ma poi si sa che giovinezza e vecchierellezza insieme non possono andar d'accordo per troppo tempo.
Il giovane cominciò a trovar troppo noioso quel vecchio che gli impediva di prolungare il proprio divertimento oltre i cancelli del mattino, e cominciò così a far dei bei tiri gobbi al pover'uomo, ridendosela della grossa.
Per prima cosa gli nascose i vestiti, che per tutto il giorno successivo, il sovrano fu costretto a rattopparsi di lenzuola e per il freddo gli duolse ogni osso che aveva in corpo.
La notte seguente firmò tutte le leggi al contrario, e all'anziano re non bastarono tutte le erbe del regno per farsi passare il mal di testa.
Poi passò tutta la notte a nuotar sotto le stelle, nel lago oltre le mura del castello, così che furono i reumatismi a far da morsa il giorno successivo.
Infine si stropicciò per tutta la notte la faccia, che le rughe del giorno dopo parevano scavate del doppio.
E fu così che dopo mesi di tiri mancini, il sovrano si addormentò per l'ultima volta; perché è esclusiva sola, di chi ha avuto un giovane in sé, di poter vivere almeno un giorno da re.

sabato 3 settembre 2011

I litiganti di Pietrabella - (carte estratte: 14 15 6 - tiraggio di Simone V.)



Se lui diceva sinistra, lei diceva destra e dove l'uno contava solo i numeri dispari, l'altro prediligeva i pari.
Così non si poteva più andare avanti, perché anche se Pietrabella era solo un piccolo borgo edificato ai margini della valle, meritava di sicuro qualcosa di meglio che due padroni in costante disaccordo.
La signora del borgo era bella, pareva quasi un angelo. I suoi pensieri erano delicati e per ogni singolo abitante avrebbe fatto qualsiasi cosa: dal dare monete d'oro a piene mani, a evitar per tutti di aver la schiena a pezzi per il troppo lavoro nei campi.
Il signore del borgo, che era il di lei marito, pareva invece non aver cuore alcuno, e chiamarlo diavolaccio era uso comune per gli abitanti di Pietrabella.
Quegli di dar oro a piene mani o sollevar da fatica la gente, proprio non ne aveva concezione e se poteva calcare la mano per aver miglior raccolto, non si faceva di certo troppo scrupolo.
E nel palazzo principale del borgo era tutto il tempo battaglia, e senza tregua potevi sentire sia di giorno che di notte, la fracassano canzone dei cocci rotti che si rincorreva da una stanza all'altra.
L'intera economia del borgo ruotava attorno ai cocci rotti, che fuori dal palazzo si poteva scorgere la fila dei carri dei mercanti di ceramica, dipanarsi neanche fosse un serpente fin giù alla base della valle.
Tirarsi piatti in testa l'un l'altro era ormai l'unico punto in comune che avevano i due amanti.
Ma per fortuna che ogni forte contrasto può essere calmato con il suo contrario, e se la storia di quei due sinora si era fatta troppo amara, due gocce del miele più dolce di Pietrabella potevano diventare la soluzione.
Fu così che un fidato consigliere di entrambi, provò a mettere in atto ciò che la saggezza popolare mista al buon senso gli venne a suggerire.
Approfittando della breve pausa creata dall'avanzar tra un carro e l'altro, egli fece scivolare una goccia di miele sul fiore che la signora portava tra i capelli, e una goccia invece dritta sul naso del signore.
La canzone dei cocci rotti riprese di li a poco, ma il miele cominciò a fare il suo gioco, e un'ape per ciascuno si posò sul vischioso elemento.
Il signore per vedere bene l'ape che gli si era posata sul naso, incrociò a tal punto gli occhi tra di loro, da non veder più null'altro che l'insetto che zampettava sulla sua protuberanza.
E altrettanto fece la signora, che levati gli occhi al cielo per scrutare il fiore che le impreziosiva la fronte, distolse lo sguardo da quella marea di ceramiche.
- Ho un'ape che mi cammina addosso.
Disse lui.
- Anch'io e chissà per quanto tempo lì ci vorrà stazionare.
Replicò lei tutta assorta e concentrata.
I due così presi dall'insetto, non si riconobbero più e cominciarono a conversare di quando entrambi erano sposati; ma adesso che il rispettivo compagno era sparito, si sentivano davvero soli.
Il signore cominciò a fare una corte spietata alla bella signora, che sembrava così simile a lui perché condivideva quel problema lì dell'ape, e la signora tutta emozionata per le attenzioni di un così valoroso pretendente, di volta in volta cedeva un pò di più le sue difese.
Finì così che si sposarono, perché finalmente avevan trovato l'anima gemella e a Pietrabella tutti furon da quel momento contenti perché al palazzo, la canzone dei cocci rotti aveva finalmente trovato un degno epilogo.
Zan zan!

venerdì 26 agosto 2011

Dante - (carte estratte: 18 8 20 - tiraggio di Davide S.)



Girando di piazza in piazza, devo dir la verità, di storie ne ho narrate tante e altrettante ne ho collezionate; ma tra tutte quante, quella che mi appresto a raccontarvi a breve, di sicuro può fregiarsi del titolo di questione assai complessa.
Ma vi avverto sin da adesso, seguitemi con attenzione tra tutte le parole, perché a chi farà errore vedrò cader la testa.
Dante era solito girar di villaggio in villaggio, perché era un cantastorie.
Con il suo strumento incantava ogni piazza in cui sfilacciava le sue trame, manco fossero il filo che spunta dal maglione, che se tirato a dovere ti lascia in mutande in una sola mossa.
Egli era così bravo con le parole, che prima o poi tutti li lasciava in mutande.
Dante faceva il contadino ed era felice così, passava le sue giornate a seminare, a raccogliere e a lavorare la terra.
Aveva anche un pollaio di cui andava molto fiero, tanto che il suo miglior gallo, alla festa di paese, di premi ne aveva vinti almeno uno per ogni piuma che portava sulla coda.
Per scherzo a quel gallo, Dante aveva messo nome Dante.
I polli di Dante erano i più buoni di tutta la contea ed egli li vendeva a caro prezzo ai mercanti.
Dante fra tutti i cuochi del regno era quello più appassionato e nella sua osteria non c'era mai silenzio, si mangiava e cantava, e il buon vino esaltava i sapori che lui con gran maestria sapeva mettere in fila.
Egli era convinto che la materia prima fosse tutto perché un buon piatto riuscisse bene, e aveva così a cuore l'onestà del macellaio che gli vendeva la carne, che a lui dava da mangiare senza mai chiedere nulla in cambio.
E poi sarà stato segno del destino, ma anche quest'altro si chiamava Dante e soleva dirgli:
- Ricordati Dante, che qui tra Danti ci si intende!
E i due ogni volta che pronunziavano questo scioglilingua, scoppiavano a ridere.
Dante sul banco della sua macelleria al mercato, vendeva solo i polli migliori della contea, certo gonfiava un pò i prezzi ma era sicuro di non fare torto a nessuno; che se ciò che è troppo buono "non ha prezzo", di sicuro a fare un prezzo, meno di quello che "non ha" egli faceva.
Dante per stare sul sicuro comprava i polli di Dante, che non so se ve lo avevo già detto, ma egli possedeva anche un gallo che aveva vinto tanti premi quante erano le piume della sua coda.
Al mercato quel giorno c'era un pò di agitazione, perché si era sparsa la voce che la sera ci sarebbe stato in piazza lo spettacolo di Dante, un talentuoso cantastorie.
Dante quando venne l'ora del pranzo decise di andare all'osteria, e guarda te la fortuna, vi ci trovò Dante che intanto accordava il suo strumento; che a suonar con la pancia piena è tutta un'altra storia, infatti poco prima Dante gli aveva servito un pollo di Dante.
Al che quando si seppe che quello era il prodigioso cantastorie, subito tutti gli chiesero di farsi raccontare una storia.
Dante disse:
- Una storia val bene un pollo!
e Dante fu subito d'accordo.
Cominciò così la storia di Dante.
Dante andava in giro per il mondo e a camminar tanto gli venne fame, ma nelle tasche aveva così poche monete che invece di mangiarsi un gallo, dai suoi piedi colse e poi si cucinò un callo.
Proprio sul callo, Dante disperato entrò nell'osteria gridando:
- Mi hanno rubato il gallo!
Eh si! Perché la notte prima, qualcuno si era intrufolato nei luoghi che sono privati di Dante e il gallo da lì aveva trafugato.
Subito nell'osteria si fece un gran silenzio, chi poteva esser stato così vile a far sparire il gallo?
Certo ognuno aveva i suoi buoni o cattivi motivi, ma tra tutti chi è che aveva più ragioni di far torto a tutti gli altri?
Dante sapeva che fine avesse fatto il gallo, perché lo aveva preso lui per i suoi scopi, e gli sovvenne proprio in quel momento, che in piena notte aveva pensato:
- Se sono abbastanza scaltro nessuno capirà mai che ho preso io il gallo.
Per venire a capo della faccenda, di sicuro ci voleva qualcuno che fosse al di sopra di ogni questione.
Dante che ormai da una vita controvoglia faceva il giudice, caso vuole che quel giorno fosse proprio all'osteria e in quattro e quattro sedici, si vide costretto a portar tutti in tribunale, per venire a capo dell'intreccio.
Dante fece resistenza per andare in tribunale perché proprio non gli andava, Dante invece pensò che fosse giusto, perché anche se di cose ne aveva tante da fare in quel giorno, era anche un bene che la verità venisse a galla.
Dante incalzò facendo tante accuse, mentre Dante si difendeva; ad un certo punto anche Dante, che stranamente fino a quel momento era stato in silenzio, si alzò in piedi e ne disse quattro a tutti.
Improvvisamente Dante si accorse di qualcosa e gli fu tutto chiaro, così disse a gran voce:
- Il gallo l'ha rubato Dante e con le piume che son tante, quante i premi che il gallo stesso ha vinto, ci si è fatto un capello per essere il più bello.
Era vero!
Come era stato possibile che nessuno sino a quel momento se ne fosse accorto?
Perché Dante per tutto il tempo, aveva portato in testa un copricapo di piume nere di gallo dai riflessi verdi.
Ora era tutto chiaro, Dante in persona fu portato al patibolo, perché gli vollero tagliar via la testa sulla quale aveva portato il copricapo per tutto il giorno.
Il boia levò la scure e poi calò un colpo secco e la testa di Dante rotolò giù dagli scalini; ma da quel collo diviso con precisione sbucò subito dopo un'altra testa, manco fosse la coda di una lucertola, che il boia con prontezza di riflessi ristaccò di netto.
E ve l'avevo detto io all'inizio della storia, che chi non si sarebbe districato tra tutte le parole gli si sarebbe staccata la testa.
Ma neanche il tempo di fare questo ragionamento, che da quel collo sbucò fuori un'altra testa.
E il boia pronto staccò la nuova testa, poi la nuova ancora e quella dopo, e le teste furono ancora tante che faccio fatica a raccontarvele tutte, ma diciamo che furono almeno una per ogni storia che vi posso cantare e una per ogni piuma nera che il gallo portava sulla coda.

domenica 21 agosto 2011

Dove nasce l'arcobaleno? - (carte estratte:10 21 19 - tiraggio di Gianluca F.)



Sin da bambino, aveva sempre desiderato conoscere l'origine dell'arcobaleno.
Con i suoi sette colori se ne stava fisso lassù a contemplare il mondo, tirava fuori la testa dopo ogni temporale, e per incorniciare l'orizzonte aveva sempre tempo.
Poi crebbe e cominciò a cercare.
Ma voi ci pensate che nella vostra pancia ci sono così tanti metri di intestini?
Che sotto la sottile pelle, metri di vene sono così ordinatamente arrotolate e intrecciate, che a metterle in fila ci vorrebbero troppi passi per camminarci intorno in un sol giorno?
Beh! Anche il mondo è così, un misto di gomitolo e matassa che a districarlo tutto mettendolo poi in linea sarebbe impresa ardua.
Gustavo aveva cominciato da piccolo, un pò per gioco camminando intorno a casa, a immaginare che sotto i suoi piedini ci fossero tutti e sette i colori dell'arcobaleno, e che ad ogni suo passo potesse tingere la terra che calpestava.
Dopo ogni temporale, nel cielo compariva quell'arco colorato che tanto lo affascinava e lui con il naso all'insù, stringeva con forza gli occhi a fessura come a volerlo imprimere con maggior convinzione nella sua memoria.
Aveva cominciato a districare una teoria su di esso: forse quando la pioggia lavava per bene il mondo rendendolo lucido, quello che vedeva così in alto era il riflesso dei colori dei suoi piedini.
Gustavo continuò così giorno dopo giorno ad accarezzare con i suoi colori ogni angolo che riusciva a raggiungere, perché se fosse riuscito a colorare tutto il mondo avrebbe potuto ammirare un arcobaleno senza confini.
D'apprima camminava girando intorno alle cose, poi ne riempiva gli spazi vuoti salendoci sopra, da quei primi tentativi se ne era dovuto inventare di tutti i modi per poter dipanare ogni singolo centimetro percorribile.
Giorno dopo giorno il mondo di Gustavo si colorava un pò di più e dopo aver percorso tutto il giardino di casa, cominciò a colorare la contea, poi tutto il regno, per finire a colorare anche tutti i mari.
Per la strada ci vai dritto, sull'albero di lato in verticale per far bene aderire la pianta del piede alla corteccia, sull'erba colpetti leggeri ad ogni filo così non rischi di rovinarli, nei fossi invece aveva capito che era meglio scendere di schiena e l'acqua la si doveva trattare con particolare cura, perché ha sia una superficie che un fondo.
E il mondo pian piano si svolgeva, strato dopo strato venne sbucciato dai piedi di Gustavo, che calmatosi ogni temporale, guardava soddisfatto la volta celeste che si perdeva sempre più in là oltre l'orizzonte.
- Quando avrò percorso tutto il mondo, l'arcobaleno non avrà più confini, perché il riflesso delle sfumature abbraccerà ogni cosa.
Fatto stà che dopo tanti lunghi anni di cammino per terra e per mare, Gustavo si trovò alla base della ripida parete di un vulcano.
Cominciò come suo solito a percorrerne le pendici tutto intorno, non tralasciando neanche un granello di polvere e sulla cresta ne calpestò la corona intera prima di affrontarne l'interno ormai spento, che scendeva giù a voragine.
Lì dentro si scendeva parecchio, ma la troppa fatica non lo aveva mai spaventato e scese così tanto in basso che ormai il cielo sopra la sua testa era incorniciato in un perfetto tondo azzurro.
Mentre teneva il naso in su per contemplare quello spettacolo, gli capitò di mettere un piede in fallo.
Precipitò per diversi giorni, tanto che ci fece l'abitudine a dormire, mangiare e lavarsi in volo, finché poi non arrivò alla fine del budello che sempre più stretto andava a terminare in una stanza.
Quello era il centro del mondo.
La dentro si sudava parecchio perché faceva molto caldo, il buco da dove era arrivato era stretto stretto che c'era passato appena, poi quando gli occhi si abituarono al buio, si accorse che in lontananza il foro del vulcano era diventato un puntino chiaro, laggiù in fondo.
Si guardò intorno e vide un altro puntino ed un altro ancora, perché in quella stanza confluivano tutti i pozzi di tutti i vulcani del mondo, che a vederli così quei buchini parevano quasi un cielo stellato.
Poi tese l'orecchio e cominciò a sentire tutte le parole del mondo, che l'eco portava sino a quella stanza da ogni direzione.
Gustavo che così tanto aveva viaggiato, ora era in tutti i luoghi del mondo.
Se aveva sonno dormiva, se aveva bisogno di compagnia parlava verso una stella, sicuro che le sue parole sarebbero uscite da un qualche vulcano, e se aveva sete beveva, ma poco poco, perché aveva preso l'abitudine per nostalgia del cielo, di guardare i piccoli arcobaleni che si formavano dall'acqua che evaporava per il caldo del centro del mondo.
Il vapore leggero saliva facendo danzare i colori a mezz'aria verso le stelle, poi lui lo seguiva con lo sguardo oltre esse, per un ultimo saluto.
E ogni volta che Gustavo beveva, dai vulcani di tutto il mondo, si districavano arcobaleni senza confini.

giovedì 28 luglio 2011

L'innamorato volante - (carte estratte: 6 8 0)



Si sa che quando ci si innamora, per le farfalle che nascon nello stomaco, ci si ritrova a camminare a qualche metro dal suolo.
Guido questa cosa pareva l'avesse presa proprio in parola, e quella volta che si trovava in piazza a dichiararsi di fronte alla sua bella, scivolò via dal buco del collo della camicia manco fosse un'anguilla, ritrovandosi nudo a volar almeno quattro metri sopra le persone.
I vestiti rimasero ritti sul posto come se ancora dentro vi ci fosse stato un corpo, e Claretta che era la sua bella, si fece tutta rossa per la vergogna di trovarsi lì di fronte a quei vestiti nudi di Guido.
Al povero giovane che se ne stava in volo là sopra, non gli serviva a niente sbracciarsi per farsi notare, che tutte le persone erano così scandalizzate dai suoi vestiti privi di corpo, che non si degnavano di alzare i loro nasi in quella direzione.
- Ma guarda che sconceria! Presentarsi in questo modo in piazza! E quella povera ragazza, la vuol far morire di vergogna?
Dicevano qua e là tutti quanti.
I vestiti si guardarono intorno imbarazzati, anche perchè quella situazione non l'avevano mai vissuta da svegli; qualche volta l'avevano sognata, ma mai avrebbero pensato…
Ma dicevo, i vestiti nudi in quel modo, per la vergogna proprio lì non volevano stare, così cominciarono a scappare tutt'intorno per la piazza cercando una via d'uscita da quella situazione e il povero Guido in volo non poteva far altro che seguirli come se fosse un palloncino leggero attaccato per un filo invisibile ai suoi indumenti impudichi.
Claretta lì per lì svenne, e Guido che nudo come un verme dall'alto la vide cadere, cominciò a maledire quei vestiti zozzoni, che bellamente si erano messi in testa di crear scompiglio tra la gente.
- Ma che maleducazione!
Arrivarono le guardie e raccattati i fuggitivi, ci misero un pò a capire come infilare le manette agli abiti, che non avevano nè polsi nè mani su cui far presa.
Guido se ne stava lì a mezzaria, a dire il vero, lui avrebbe voluto tornare indietro da Claretta, ma era costretto a seguire un'altra strada perchè i vestiti finirono presto in tribunale.
Con gran sorpresa il giudice, che era una bella signora, si ritrovò davanti i vestiti di Guido e li riconobbe.
Ella qualche tempo prima aveva spasimato per quell'uomo, e di certo non aveva mai accettato di buon grado il fatto che egli pendesse per quell'altra, così si fregò le mani pronta a sfruttar quell'occasione ed esordì:
- Quale motivo vi ha spinti ad uscir di casa stamane senza un corpo? Non avete un minimo di pudore?
I vestiti non poterono replicare, perchè non avevano nè testa nè bocca, e lo stesso Guido da quattro metri sopra, si unì al coro di bestemmie della folla, che accusavan gli indumenti di aver fatto svenire un'anima pura come quella di Claretta.
Il giudice che di fatto sa come rigirar le cose, non fu clemente, e oltre ad accusare quel paio di calzoni, camicia e scarpette rosse, di atto impuro alla luce del sole, gli venne la bella idea di dire che era stato tentato omicidio:
- Perchè mettendo in mostra tutte le vostre vergogne, avete attentato al cuore della povera Claretta portandola presso alla morte.
Ma in cuor suo la donna se la rise di gusto, pensando alla rivale stesa esanime in mezzo alla piazza, tra sterco di cavallo e piedi di villani.
Anche Guido svolazzante fece un bell'applauso: giustizia era fatta!
Ma pian piano, mentre le guardie cominciarono a scortare i vestiti verso la prigione, si rese conto che anche lui era legato ad essi, e la stessa condanna l'avrebbe dovuta subire anch'egli suo malgrado.
Lui che nonostante avesse il pimpirlino di fuori e se ne stava a mezz'aria, non si sentiva volgare come quelli la sotto: loro in galera ci dovevano finire, ma lui cosa aveva fatto per meritarsi questo?
Maledette farfalle dell'amore!
Tra il clangore delle grate della cella finirono tutte le belle speranze di quei vestiti allegri, e al piano di sopra ci fini Guido, perchè quattro metri di distanza erano troppi per star nella stessa cameretta.
Guido così tutto nudo, potè poggiare nuovamente i piedi al suolo, che era freddo ma almeno lo reggeva.
Nella cella con lui c'era un pazzo che non amava assolutamente prendere il tè senza zucchero.
Guido si arrotolò una coperta tutt'intorno, perchè a star nudo a svolazzare, un pò ti viene anche freddo.
Ogni mattina, quando le guardie portavano una certa brodaglia per colazione, era dura sentire tutte le bestemmie che quel folle gridava al loro indirizzo; il povero ragazzo non era abituato a tutta quella confusione e si ranicchiava sotto le lenzuola per fare in modo che gli schiamazzi sembrassero venire da lontano.
- Nel mio tè ci voglio lo zucchero! La vita amara non fa per me!
Il pazzo andava avanti per un pò, poi si quietava dicendo
- Anche oggi lo zucchero lo devo aggiungere da me, un cucchiaino e non di più.
E tutte le mattine quella tiritera.
- Anche oggi lo zucchero lo devo aggiungere da me, un cucchiaino e non di più.
Passarono quattordici lunghi anni, e quella mattina dopo almeno 10 minuti buoni di bestemmie e grida del pazzo, Guido decise di cacciare fuori la testa dalle coperte per dirgliene quattro per la prima volta, ma quello che si trovò davanti lo lasciò senza fiato.
Nel muro della cella vi era un foro grande così tanto che ci potevano passare tranquillamente due persone una al fianco dell'altra, e il buco dava direttamente sulla strada.
Senza parole si guardò intorno e vide il pazzo con un cucchiaino in mano, che raccoglieva dal muro della calce.
Il ragazzo si alzò dal letto, passò oltre il muro e fu libero.
Mentre si allontanava dalla prigione senti per un'ultima volta il folle scriteriato in lontananza urlare:
- Anche oggi lo zucchero lo devo aggiungere da me, un cucchiaino e non di più.

Qualche anno dopo, finita la condanna, i vestiti di Guido furono lasciati liberi, e Claretta che per tutto quel tempo li aveva aspettati non credendo mai alle gravi accuse del giudice, li riabbracciò non avendo più vergogna di loro.

domenica 10 luglio 2011

La peggior storia mai scritta - (carte estratte: 10 6 2)



C'era una volta un cantastorie senza talento, che girava di piazza in piazza per recitare tutte le avventure che nascevano dalla propria penna.
Ma un giorno si convinse che le sue storie, fossero le peggiori mai raccontate.
Beh! da un simile pensiero non può che non nascerne una crisi, e seppur la cosa che lo rendeva più felice fosse raccontare dei suoi mondi, decise di non scriverne mai più.

Depresso però, continuò a girare di piazza in piazza, fermandosi ad ascoltare tutti gli altri cantastorie che trovava di gran lunga superiori a sé.
Il nostro sempre più corrotto dall'invidia, ammattiva su quale fosse il segreto per comporre una buona storia, perché pareva proprio che la sua sola passione non fosse un ingrediente abbastanza importante.
Un giorno, dopo aver subito l'ennesima sconfitta morale, per aver sentito una delle più belle storie mai raccontate, quell'inetto, decise di forarsi entrambi i timpani delle orecchie con la punta della propria penna, per non dover mai più sentire racconti così soavi; ma mentre si mise in disparte in un vicolo buoi, pronto a compier quell'estremo sacrificio in tutta solitudine, la voce di una donna alle sue spalle lo fece trasalire.
- Ma che fai amico? La penna mica parla che te l'appoggi all'orecchio!
Gli disse una donna piccina sbucata da chissà dove.
- Ah! sono un uomo fallito! uno scrittore che a dire il vero non ha mai saputo scrivere… ed ora che l'ho capito, ho deciso di non sentire mai più alcuna storia.
Quella lo guardò scoppiando a ridere.
- Tu che hai un così gran talento hai deciso di farla finita? Son bravi tutti a scriver belle storielline; ma tu potresti davvero scrivere la peggior storia mai concepita se ti ci mettessi d'impegno.

La peggior storia mai scritta? Anche se sembrava folle poteva funzionare! Per lo meno avrebbe eccelso in qualcosa quel poveretto.
Così negli anni a venire ci si mise d'impegno, cercò di creare la più stupida combinazione, sperimentò sul privar di senso i propri versi, rese gli intrecci banali, creò personaggi sciapi, eroi sopra le righe e cattivi poco intriganti.
Ma si accorse che non bastò, così cominciò ad estrarre parole a caso, mettendole in fila e scrivendole in brutta calligrafia, così da non poterne più ritrovare neanche il senso una volta rilette.
E nonostante tutto fallì miseramente, ci passo anni a fare prove blasfeme, standoci tutta la vita ad inseguire il sogno di scrivere la peggior storia mai concepita; ma purtroppo, ironia della sorte, al cantastorie e al suo pubblico, tutte quelle storie continuavano a sembrar fin troppo belle.

giovedì 7 luglio 2011

Le parole non dette - (carte estratte: 11 10 20)



Se ogni singola parola detta in un'intera vita potesse essere posta l'una sull'altra, tutte quelle linee aggrovigliate che si vedrebbero dall'alto, a colpo d'occhio ci restituirebbero l'idea di un'esistenza.
Ella era stata educata alle buone maniere e rispondeva in modo cortese a tutte le parole che le rivolgevano attenzione, e quando anche il suo pensiero fosse stato in disaccordo, trovava sempre il modo di non usar la sua lingua come fiamma.
Quando troppa era la misura che la separava dalla buona intenzione, per evitar che le parole atroci venissero perdute, le appuntava su un pezzetto di carta che poi appoggiava sulla lingua quasi fosse un'ostia.
Così facendo, quella parola che lei non gradiva appartenesse al suo linguaggio, le si andava a depositare in bocca, trasferendone l'inchiostro sulla lingua.
Tanti furono i foglietti che appoggiò in se stessa, quasi in numero pari ai giorni che fino a quel momento aveva vissuto, e parola su parola venne lasciata filtrare, sino a formare una fitta trama di inchiostro indelebile che le aveva quella lingua reso nera.
Ella che per le buone maniere era riconosciuta, dovette cominciare a parlar ponendosi la mano dinnanzi alla bocca, per evitare che quel nero di grotta umida atterrisse il suo interlocutore.
Ma ormai l'inchiostro era penetrato così a fondo tra le vene, che la lingua le andò presto in cancrena ed il dottore dovette porvi fine con un taglio netto.
Su quella lingua vi era la fitta trama di tutte le parole silenziose, che non la si poteva neanche sfiorare con lo sguardo, senza rischiare di venirne mutilato.
Poi quella punta venne sotterrata ed ogni giorno la sua padrona sulla tomba vi portava un fiore, intonando alla sua lingua, soltanto più preghiere senza parole.