lunedì 18 novembre 2013

Cent Vingt Et Un (121) diventa .com



Cent vingt Et Un (121) volta pagina e diventa un vero e proprio sito.
Pertanto questo blog non verrà più aggiornato, ma rimarrà ancora online per permettere ai nuovi utenti di raggiungere il nuovo indirizzo.

Nel nuovo sito troverete tutte le storie raccolte fino ad oggi in questo blog, quelle nuove e molte altre iniziative.

Grazie per avermi seguito fino ad oggi e vi do appuntamento al nuovo indirizzo.

http://www.centvingtetun.com/

martedì 25 giugno 2013

Una sana invidia - (carte estratte: 8 0 11 - tiraggio di Michele C.)



Per invidia ho rotto tutte le spade di tutti i cavalieri del castello.
Non sapevo combattere, ma avrei voluto.
Le ho rotte a mani nude, stringendole tra i pugni le ho piegate come ramoscelli.
Non ci avevo pensato troppo su, forse se l'avessi fatto avrei messo in considerazione il farmi male. Eppure niente. Neanche un graffio.

Il problema che si pose allora - e che capii ben presto essere una regola - era che tutto ciò che rompevo mi rimaneva attaccato addosso finché non rompevo qualcos'altro. Solo a quel punto era l'altra materia a rimanermi appiccicata.

La prima cosa che ruppi, come vi ho già raccontato, furono le spade e il motivo di tutta quella forza compresi ben presto fosse l'invidia.
Poi ruppi degli orologi preziosi, che presero il posto delle spade sui miei vestiti, infine passai ai servizi buoni.

Si invidia ciò che non si ha, ed era divertente vedere che ciò che non avevo poi diventava una decorazione sui miei calzoni, sulle casacche ed i cappelli con le piume.
A questo punto fu difficile riuscire a nasconderla l'invidia.
Se quel qualcosa che avevo fracassato, la gente me lo vedeva addosso, sapeva che era stato rotto nel peccato.
Mai sentimento così tanto disprezzato divenne ben voluto, tra gli sguardi di chi l'invidia l'aveva per me, ma non gli generava forza ma solo eccesso di bile.

Ora che i cavalieri non avevano più spade, venne a me l'incarico di proteggere chicchessia dalle grane che lo investiva, così che per essere paladino dovetti imparare ad invidiare il mio nemico su comando.
Fintanto che si trattò di invidiare condottieri, ricchezze ed altre maledette meraviglie che fanno gola all'uomo, mi sembrò fin troppo facile.
Guardare fisso un cavaliere mentre avanzava, immaginare quanto si sentiva protetto nella sua armatura mentre io me ne stavo senza cavallo ad aspettarlo, mi generava una buona dose di sana invidia.
Con pochi sganassoni lo sbullonavo completamente, ritrovandomi con la sua armatura addosso.
Ero l'unico a riuscire a farlo.

Chi invidiava questa mia condizione non riusciva ad assestarmi altro che un tenero buffetto e non è cosa troppo astrusa venire a sapere che tra le fila nemiche si facevano addirittura esercizi d'invidia, sperando di poter così eguagliare quella mia strana condizione.
Niente da fare.
Poi però venne il giorno in cui mi chiesero di sconfiggere la tempesta, ma io non ne fui in grado.

Per quanto mi sforzassi di volerla tirare giù a forza di fendenti, non riuscivo ad invidiarla.
Mi pareva che fosse solo acqua, solo grigia e cupa condensa, e chi sano di mente può voler acqua fredda addosso, invece di una solida armatura?

Il popolo mi incitava, speranzoso di farmela a tutti i costi piacere esaltandone la forza divina, la maestosità e il chiasso che faceva, mentre quella per non essere da meno spazzava indisturbata via i tetti della case, riempiva le torri del castello come brocche e faceva affogare cristiani e bestie insieme.

Eppure, nonostante fosse lusighiero pensare di poterla indossare, non mi veniva da invidiarla, perché mi sentivo già bagnato, perché avevo freddo e perché semmai proprio qualcuno mi sentivo a quel punto di invidiare, era chi la propria invidia la poteva ancora esercitare senza per forza essere messo nel mezzo.
Li avrei potuti fracassare tutti in quel momento, levando il problema della tempesta alla radice, ma non mi andava di ritrovarmeli poi addosso.
Via in un solo colpo tutti quelli che adesso invidiavo.
Tutti quanti tranne me, che non invidiavo affatto.
Realizzai allora che non mi ero mai invidiato.
Mai fino a quel momento, l'istante in cui invidiai il non provare invidia per qualcuno o qualcosa.
E visto che trovavo che mi stessi bene addosso, fu così che mi frantumai a suon di schiaffi.

giovedì 6 giugno 2013

La bottega del senso - (carte estratte: 1 13 17 - tiraggio di Daniele R.)



Nella bottega del senso non c'erano candele. Anche in una giornata d'estate, dentro c'era sempre penombra.
Il nome per i più suonava ingannevole e visitavano quel bizzarro luogo, solo pensando di poter trovare un senso alle cose, restando però puntualmente delusi quando si rendevano conto che lì ad aspettarli c'era solo un buon tuttofare che riparava gli oggetti.

Donato, così si chiamava quell'uomo, aveva una sua personale filosofia, credeva che se qualcosa funzionava "è un buon segno" e che un buon segno potesse dare senso a ciò che egli stesso faceva.
Per questo l'aveva chiamata così e forse a conti fatti, la bottega del senso serviva solo a lui, fiducioso com'era che tanti "buoni segni" messi in fila potessero tracciare una rotta.

Dopo un primo momento di smarrimento, ogni persona che si ritrovava nella bottega, forse per paura di esser presa per pazza facendo domande sul senso delle cose nel luogo sbagliato, si sentiva in dovere di dare qualcosa da riparare a Donato.
Del resto chi non si è mai sentito sciocco per essersi sbagliato in una qualche situazione?
Provate ad immaginarvi anche solo per un istante, mentre entrate in un macello pensando di trovarvi una sartoria. Convinti profondamente che lì si vendano camicie, non uscireste da quei luoghi con almeno due braciole sotto braccio?

Così per la stessa ragione, chiunque si trovava di fronte a Donato pronto a sentire quale fosse il suo proprio senso, in una sorta di inversione di marcia fatta all'ultimo momento, all'improvviso si sentiva in dovere di metter sotto al naso del bottegaio quello di rotto che aveva con sé, magari un orologio fermo, una scarpa col buco, un orlo da rifare o delle lenti malferme sulla montatura.
Ed è così che a pensarci bene, senza la bottega del senso e senza essersi trovati nel posto sbagliato a ringoiare domande senza ragione, ognuno di loro avrebbero continuato ad arrivare in ritardo, ad avere i piedi doloranti, gli occhiali sbilenchi e chissà quali mille altre cose che non potevano altrimenti trovare un senso.
E riparando le cose, Donato continuava a scivolare dolcemente verso nord.

venerdì 24 maggio 2013

Mia mamma mi aveva disegnato male - (carte estratte: 21 11 20 - tiraggio di Anna P.)



- Una donna non può avere il dono di riprodurre su carta, né tanto meno può esser maestra nell'arte dell'affresco.

Grosso modo eran queste le parole che venivan fuori dalla bocca del maestro, quando con mio padre a cena si tratteneva più del solito.
Non credo fosse il vino a farlo arrivare a certe conclusioni, quanto piuttosto una sorta di invidia verso mia madre, lei che era incinta di me, era l'evidenza del saper riprodurre; cosa alquanto difficile da apprendere per un maschio.
Così il maestro, per sostenere la sua tesi, le mise di fronte sulla tavola ancora imbandita, una pergamena bianca e sventolandole sul naso una piuma d'oca, la sfidò a disegnarmi come mi immaginava che sarei stata una volta venuta al mondo.
Va da sé che mia madre, che non aveva mai armeggiato con l'inchiostro, mi disegnò male.
Sette mesi dopo nacqui proprio disegnata male.

La mia infanzia non la dimenticherò mai, perché fu la tipica giovinezza che può vivere uno scarabocchio.
Non dovrebbe essere troppo difficile per voi immaginare come fossi fatta: due linee nere che si piegavano ad elle per gambe, un triangolo come busto che arrivava oltre le braccia, oltre le quattro o cinque dita - a seconda della mano che stavate osservando - e si univa al collo sottile, poi sopra c'era un cerchio grande, forse troppo, e un intreccio di giravolte di cotone nero, quello era il mio scarabocchio di capelli.
I bimbi non son di certo gentili e bastava che mi distraessi un solo istante per ritrovarmi con due virgole ricurve sotto al naso.
Non ho mai gradito portare i baffi, nonostante molti di quei monelli sostenessero che mi stavano proprio bene.

Mia madre si sentiva in colpa per avermi disegnata male e cominciò ad impratichirsi con le tinte fatte d'uovo, con i pennelli di crine e le tele.
Studiò ogni tipo di tecnica, pensava che ciò avrebbe reso più facile per me superare il fatto di essere un groviglio.
Per un po' funzionò anche, la vedevo lasciare il colore sul bianco e sviluppai un certo occhio per quel mestiere.

E' difficile vivere come uno scarabocchio quando vivi al tempo delle cattedrali, tra affreschi che lasciano spazio a far intravedere solo tratti morbidi e rotondi.

Cominciai pertanto anche io ad affrescare le chiese, ed era strano vederlo fare ad un intreccio di linee. Immagino quanto fosse bizzarro per un duca o un papa, vedere una matassa d'inchiostro che poneva santi, nuvole rotonde e colombe sullo stucco fresco.
Ma fu così che divenni grande.

Ogni pennellata descriveva un mondo coerente, concreto, profondo in ogni verso, ma sentivo che qualcosa mancava in tutto questo, sentivo che tutto quello che stavo mettendo sul muro mi era distante: non erano i miei disegni.

Mi venne in mente un giorno mentre mi osservavo allo specchio, cercando di immaginarmi con i tratti di un'affresco, di ripensare alla mia adolescenza.
Quei giorni mi avevano lasciato due cerchi in più.
Sopra al triangolo che avevo come corpo.
Quelli mia mamma non li aveva disegnati, perché mi aveva immaginata piccola e il concetto di seno su di me le era probabilmente ancora estraneo.
I due cerchi me li fece la natura, non mia madre.

E' strano pensare, nonostante quel bizzarro scherzo del destino, a quanto sia coerente la natura.
Io che ero uno scarabocchio ebbi in dono non due seni ma due bei cerchietti.
Devo dire la verità, fui contenta di quei rotondi essenziali, facevo davvero tanta fatica ad immaginarmi differente.
Pensate voi quale abominio sarei stata, tutta scarabocchio, a dover portar due seni veri.
Questo mi rincuorò, e per la prima volta cominciai a riconsiderare la mia coerenza.

Pian piano finì il tempo di vedere il mondo affrescato, compresi che la struttura di ogni forma è puro scarabocchio.
Avrei dovuto ricominciare da lì, accartocciando tutti gli studi fatti, tutte le notti perse con la schiena sulle travi a dipingere soffitti per far tacere il ricordo delle parole del maestro.

- Una donna non può avere il dono di riprodurre su carta, né tanto meno può esser maestra nell'arte dell'affresco.

Forse aveva ragione.
Senza confini certi, uno scarabocchio non è materia da stare immobile appesa al muro.

giovedì 23 maggio 2013

Ho o non ho - (carte estratte: 1 15 17 - tiraggio di Giovanna B.)



- Ti propongo una sfida. - disse il diavolo - Finché riuscirai a fissarmi dritto negli occhi, ti darò tutto quello che non hai.

Le premesse per un buon affare c'erano tutte, così senza farselo ripetere due volte, Gildo che era un mercante di grande talento, cominciò a puntare le sue pupille dritte e fisse nelle cornee di quel povero diavolo.
Per l'uomo, che ogni giorno era abituato a vedersi sfilare davanti persone di tutte le estrazioni e forme, quell'atto che forse dal diavolo era considerato così straordinario, si dimostrò per Gildo la norma.

Lo fissò pertanto così intensamente negli occhi da mettere quasi in imbarazzo quel demonio e poiché una promessa è pur sempre un'accordo, dal quale proprio un signore oscuro per sua natura non può distogliersi - così come in quell'arrangiamento - si vide costretto a dare al mercante ciò che non aveva.

Questa si che fu di per sé un impresa molto più ardua rispetto a quella di sostenere uno sguardo, perché ad ogni proposta di nuovo umore od oggetto, pareva proprio che Gildo già l'avesse.

- Ciò che non hai perché non vedo, è una matassa d'oro.
- Ce l'ho! - disse Gildo - Non è proprio puro oro, ma sta qui nei miei capelli. Me lo diceva sempre mia madre: son d'oro i tuoi boccoli.

Di sicuro non si poteva negare che non fosse vero, il biondo dorato di Gildo, faceva capolino da sotto il copricapo, così il diavolo dovette inventarsi qualche altra cosa che il commerciante non avesse, per poter mantenere la promessa fatta.

- Ciò che non hai perché non vedo, son spaventosi denti a punta per atterrire e far cader nella follia il tuo nemico.
- Ce l'ho! - disse Gildo - non son proprio denti, ma sempre bianchi e d'avorio appaiono: sono i dadi che ho con me in tasca. Bastan pochi lanci giusti per far diventar un uomo pazzo e se sei abile di mano, te l'assicuro, che di folli ne posso far diventare tanti da riempire i sanatori.

Mantenere quella promessa, per il diavolo pareva molto più complesso che sostener lo sguardo di un mercante e forse per inesperienza, data la sua giovane età, quel demonio commise un altro errore.

- Ciò che non hai perché non vedo, sono lame affilate, che possano tagliare in due chiunque ti sbarri la strada.
- Ce l'ho! - disse Gildo - Se qualcuno mi blocca il passo, impedendomi di raggiunger la meta, basta che gli chieda gentilmente di spostarsi. Sai caro diavolo, la mia lingua morbida ne ha tagliati già parecchi.

Povero demonio, pareva proprio che avere e non avere fossero quasi la stessa cosa, dovette così azzardarsi in molti altri modi.

Ciò che non hai perché non vedo, son scarpe nuove, son borse sempre piene, son carote dolci, son corde che non si sciolgono, son ore infinite, son bicchieri d'acqua per spegnere il fuoco…

Niente da fare pareva proprio che Gildo avesse già tutto, e la fila diventava sempre più lunga, la gente cominciava a spazientirsi non potendo accedere al banco del mercante.
Così tra uno spintone ed un altro e una secchiata d'acqua in testa, spensero infine i buoni propositi del diavolo, che tra tutte le cose che quel giorno avrebbe potuto avere, si dimostrò proprio privo del buon senso di non far arrangiamenti con un esperto commerciante.

venerdì 3 maggio 2013

Molti ma molti mattoni - (carte estratte: 16 7 21 - tiraggio di Ilaria B.)



A pensarci bene, tra mattoni, tegole, legni da infissi, vetri e cocci, la casa di Ida ne aveva di pezzi, almeno uno per ogni capello che le cresceva in testa.
Questo che ai più potrà sembrare un paragone strano, per la ragazza divenne cosa seria, perché il primo giorno che provò ad andare un po' più lontano del suo giardino si rese conto che i propri capelli rimanevano impigliati in ogni dove.

Certo è cosa davvero bizzarra, come se casa e capelli fossero poli magnetici che si attraevano tra loro per volontà e per caso.

- Ahi! Ahhhahii!

Erano ormai soliti sentire i vicini di casa, che ad ogni passo che Ida faceva più in la del balcone, c'era sempre una finestra che sbatteva, una porta che cigolava, una trave troppo bassa sulla quale ci si andavano ad aggrovigliare le sue ciocche.

- Maledetti voi capelli! Anche io vorrei poter viaggiare e vedere il mondo con i miei occhi.
Se la prendeva Ida con la sua folta chioma allo specchio e quella lunga tiritera ormai per lei aveva sostituito la preghiera della sera.
- Forse domani, vedrete che ci riesco. Fosse anche solo che mi capiti di diventare calva.

Come era gelosa quella casa di Ida, di lei che aveva mille viaggi in testa, mille progetti, mille modi di volersi pettinare ed invece era sempre costretta a venire a patti con quelle mura impiccione.
Ogni tentativo era vano e per tornare a quello che vi narravo all'inizio, cominciò a pensare che forse in quella casa ci fosse un mattone, tegola o singolo infisso che fosse per una qualche bizzarra ragione fratello di ogni suo capello.
Fratello, cugino, genitore, da quando era rimasta sola, quella casa li aveva sostituiti tutti e guarda caso proprio da lì tutto era cominciato.

Poi un giorno a bordo di un carro arrivò il suo futuro amore. Si chiamava Manlio e del viaggio ne aveva fatto virtù, sempre mosso da coraggio e spirito d'esplorazione, le sue ruote erano ormai diventate come gambe, tanto che dal carro non scendeva mai.
A Manlio piaceva vedere il mondo da quell'altezza, in piedi sul sedile frustava con delicatezza i due cavalli e proprio in piedi sul sedile sentì un certo giorno, parlare Ida allo specchio. Le orecchie del ragazzo arrivarono giuste giuste al bordo della finestra del secondo piano.

- Maledetti ed ancora maledetti! Ma mi volete lasciare una volta tanto vedere oltre il melo in giardino?
Era il momento della tiritera.
- Ma cosa vi ho fatto di male che mi tenete come un canarino in gabbia?
- Ah che bella chioma signorina!
Gli fece Manlio dal bordo della finestra, che oltre che le orecchie in piedi sul carro, anche gli occhi ci arrivavano benissimo.

-Ahhhhhhh!
Per tutta risposta a quella improbabile invasione fuori dal piano rialzato - seppur con discrezione Manlio, in piedi sul carro, era rimasto sulla via - all'urlo seguì un bel colpo di spazzola in piena fronte, ma non per desiderio di volerlo pettinare, ma per reazione istintiva della folta Ida.

- Chi siete? Orribile spione!
Povero Manlio, steso giù sul carro dopo quella botta in testa, trovò a fatica le parole per giustificarsi.
- Passavo di qui come al solito, in piedi sul mio carro e non ho potuto fare a meno di ascoltare le vostre pene.
- Via subito di qui brutto cialtrone perdigiorno! Che io ho tanti di quei problemi con i mattoni ed i capelli che voi neanche ve lo potete immaginare.
Gli fece Ida sporgendosi dalla finestra, mentre rimaneva coi capelli impigliata alla maniglia.
- Ahi Ahiii ihhhiiii!

Fu davvero un bell'incontro questo loro primo, non dissimile dai tanti patimenti che soffrono all'inizio tutte le coppie.
Capendo che da quelle parti non tirava una buona aria, Manlio steso sul carro decise di proseguire, lasciando Ida a sciogliersi i capelli dalla finestra.
Quando il carro raggiunse una ragguardevole distanza, l'uomo si tirò di nuovo in piedi.
- Certo che quella ha proprio un diavolo per capello.
E massaggiandosi la fronte, gli cascò l'occhio sulla spazzola rimasta sul carro.
Manlio essendo un cuor gentile, decise che il giorno dopo sarebbe tornato dalla ragazza per restituirle l'oggetto, forse avevano iniziato con il piede sbagliato, si sarebbe scusato di quella intrusione e avrebbe cercato di trovare la pace.

Inutile dirvi che non andò proprio così, perché quando Manlio il giorno dopo si affacciò nuovamente alla finestra per rendere la spazzola ad Ida, per tutta risposta si prese in testa un portagioie bello robusto, preceduto dal solito grido della ragazza.
- Ahhhhhhh! Spione sfacciato!
E giorno dopo giorno, Manlio riuscì a collezionare sulla fronte anche un paio di cucchiai in legno, un comodino, la testiera del letto, qualche mattone del camino.

Pezzo dopo pezzo mezza casa finì sul carro e Ida una bella sera, di fronte al suo specchio pronta e sgranare come un rosario la solita tiritera, si accorse che alcune capelli particolarmente ribelli, puntavano come l'ago di una bussola verso l'esterno della casa.
Quel ciuffo di capelli era rimasto impigliato come ad un filo invisibile che riconduceva agli oggetti finiti prima sulla fronte e poi sul carro di Manlio.
Da quel giorno tirare cose in testa al ragazzo fu un piacere, proseguì così con porte e portone, finestre e tegole, assi e travi ed ogni dì Manlio inarrestabile tornava per curiosità ed amore a quella casa, pronto a restituire qualcosa ma anche a ricevere in testa qualcos'altro.
Lanciato anche l'ultimo pezzo della casa, Ida fu finalmente libera e poté infine saltar giù anche lei dalla finestra che ormai non c'era più.
Questa volta Manlio non la prese in fronte, ma tra le braccia.
Nessun confine, nessun muro né porta che potesse ormai impedire alla ragazza di varcare la soglia del mondo intero.

I due cominciarono un viaggio lunghissimo insieme, andando a seminare per il globo ogni singolo mattone, così che quella casa non fosse più in un solo posto e che quella bussola che Ida aveva in testa, potesse da quel giorno puntare verso tutti gli orizzonti.
Ida e Manlio viaggiarono felici in ogni dove, la ragazza aveva trovato la libertà pagando soltanto un piccolo prezzo: l'aver sempre i capelli ritti e tesi in ogni possibile direzione.

venerdì 26 aprile 2013

Ad Ada - (carte estratte: 21 17 16 - tiraggio di Anna R.)



Sulla collina fanti a cavallo schierati in attesa di un cenno della loro signora, pronti ad offendere il nemico seguendo quella precisa strategia che lei aveva vergato settimane prima su pergamena… subito dopo le cosce e le costine d'agnello, il vino, la musica e i canti: la battaglia era vinta, anche se ad Ada non era ben chiaro come fosse successo.

E' possibile fare qualcosa senza sapere come la si è fatta?
Arrivare come un fiume al mare, senza aver presente che valli si sono percorse?
Ada aveva ormai afferrato questo concetto o per lo meno ne era stata afferrata da qualche mese e senza rendersene ben conto, riusciva a completare qualsiasi impresa nella quale si prodigava. Fu così che la sua fama divenne via via sempre più solida e da semplice contadina si ritrovò per l'appunto alla testa di un intero esercito.
Ma andiamo con ordine, sempre che un ordine vero in questa storia si possa sperare di ottenere.

Ad Ada veniva in mente di alzare la zappa… il campo era ricco di frutti.
Ad Ada capitava di piantare un chiodo… la casa era edificata.
Ad Ada chiedevano di andare al fiume… tutti i contadini indossavano vestiti freschi di bucato.
A lei ormai tutti domandavano qualcosa, perché così come aveva cominciato aveva già finito.

Fu per questa ragione che si ritrovò sul colle alla testa dell'esercito, erano ormai giorni che i cavalieri facevano mille ipotesi su come poter affrontare l'attacco imminente e - chiamatela cattiva politica o non so più che pesci pigliare - ai nobili signori non venne in mente altro se non di chiedere ad Ada di levarli da quell'impiccio.
A lei che tutto riusciva bene senza saperne il come, in principio parve un'idea folle, Ada che faceva fatica a schiacciare una mosca, come avrebbe potuto spazzare via un intero esercito rinforzato di solide armature, picche, cavalli e trabucchi su ruote?

Passò giorni a studiare i modi per vincere la battaglia, riportando scrupolosamente su pergamena ogni sua idea.
- Lo potremmo incendiare con la pece calda… o forse far cadere nel burrone… lo potremmo affrontare al valico della lucertola… o per meglio ottenere una vittoria schiacciante convincerlo a tornare indietro con le buone.
Ogni idea che tirava fuori, era stata già detta, pensata decine di volte da qualcun altro, fatta e rifatta da altri eserciti prima del suo.
Ad Ada venne il sospetto che questa volta si era andata davvero a cacciare in una questione più grande di lei e se anche era vero che ormai alzare una zappa, piantare un chiodo o fare un semplice giro al fiume aveva prodotto risultati prodigiosi, qui si stava per improvvisare un'impresa che per lei non aveva precedenti.
Fu un misto di fiducia ed incoscienza che la portò in quella fredda mattina d'inverno sulla collina.

Il vento gelido, un brivido, l'esercito nemico che appare all'orizzonte.
Ada alza il braccio pronta a dare il segnale, sa come inizia, sa come finisce, ma non ne sa il come.
Giù il braccio! Il segnale!

Quello che alla fine contò davvero, fu la festa che ne seguì, furono i canti ed i balli, la corona d'alloro che si riserva solo ai grandi condottieri e furono i racconti che tutti quei combattenti fecero di ciò che era accaduto in battaglia a fare questa volta la differenza.
Si perché per la prima volta, qualcuno aveva visto come erano andate le cose, aveva visto quello che capitava ad Ada quando saltava dalla A alla Z.

- Quale ingegno ha dimostrato la nostra signora! Svolgere tappeti e lenzuola verdi, per coprire i crepacci… Ahhhhh le grida di quei maledetti che si schiantano al suolo, risuonano ancora nelle mie orecchie.
Sosteneva Frido "il senza cuore".

- Edificare un castello di cartone proprio di fronte a quello vero, per stancare il nemico! Un'eccellente strategia mia dama! Alzo il calice in vostro onore, nonostante il mio braccio sia pesante come il marmo a forza di affondar la spada in centinaia di schiene indifese.
E giù il vino nella gola di Guglielmo "dalle cento ombre".

- Enormi specchi! Chi lo avrebbe mai potuto pensare? Se chiudo gli occhi li vedo ancora adesso cavalcare via terrorizzati. Trovarsi di fronte ad un esercito con la propria stessa faccia, dev'esser stato per loro il peggior incubo realizzato. Lunga vita ad Ada!
Anche Nicola "dai due nasi" fece il suo personale racconto di come erano andate le cose.

E poi enormi gomitoli di chiodi fatti rotolare dalle colline, trabucchi sotterrati che invece di scagliare massi rispedivano a casa i nemici che vi mettevano il piede sopra, si parlò persino di tende in cui si offriva al nemico cibo di ogni genere così che poi con le pance piene desistesse dall'attaccare, seguirono i racconti di Nerino "doppia lama" pieni di armature taglienti, che si intrecciavano a quelli di Filippo "la roccia" e le sue pietre che rotolavano giù per le colline, quelli di Orso "riempi fossi", di Victor "dei veleni", di Edgardo "inghiotto nelle nebbie".

Ad Ada non era molto chiaro come fossero andate le cose, nessuno di quei racconti coincideva l'uno con l'altro, né tanto meno con qualcosa di logico, parevano piuttosto una serie di ipotesi, niente di così diverso da ciò che la donna aveva fatto per settimane sulle pergamene: tante ipotesi.
Ipotesi lontane dalle sue che erano tuttavia banali, ipotesi che parevano nate da un'altra testa pensante.

- Come lo chiamerò?

Più che una battaglia tutto ciò ricordava le prove di uno spettacolo teatrale, dove il capocomico e gli attori improvvisano abbandonandosi nel regno di tutte le ipotesi, sapendo solo come comincia una storia e come deve andare a finire.

Inizia che Ada sa come inizia, che non si ricorda cosa c'è nel mezzo e che finisce che scopre di essere incinta, incinta di un bimbo che valuta tutte le ipotesi e le prova dal vero, che ascolta tutte le versioni improbabili prima di decidere quale sarà la sua storia da grande.
E a volte ci ripensa ancora adesso che è adulto, che sa come la vita inizia e finisce in modo sempre uguale e così per darsi un tono, sostiene che nascere è un atto di semplificazione, poiché tutte le ipotesi di come sarà il percorso diventano da quel momento concrete, lasciando spazio a quell'unico viaggio ormai probabile.