lunedì 18 novembre 2013

Cent Vingt Et Un (121) diventa .com



Cent vingt Et Un (121) volta pagina e diventa un vero e proprio sito.
Pertanto questo blog non verrà più aggiornato, ma rimarrà ancora online per permettere ai nuovi utenti di raggiungere il nuovo indirizzo.

Nel nuovo sito troverete tutte le storie raccolte fino ad oggi in questo blog, quelle nuove e molte altre iniziative.

Grazie per avermi seguito fino ad oggi e vi do appuntamento al nuovo indirizzo.

http://www.centvingtetun.com/

martedì 25 giugno 2013

Una sana invidia - (carte estratte: 8 0 11 - tiraggio di Michele C.)



Per invidia ho rotto tutte le spade di tutti i cavalieri del castello.
Non sapevo combattere, ma avrei voluto.
Le ho rotte a mani nude, stringendole tra i pugni le ho piegate come ramoscelli.
Non ci avevo pensato troppo su, forse se l'avessi fatto avrei messo in considerazione il farmi male. Eppure niente. Neanche un graffio.

Il problema che si pose allora - e che capii ben presto essere una regola - era che tutto ciò che rompevo mi rimaneva attaccato addosso finché non rompevo qualcos'altro. Solo a quel punto era l'altra materia a rimanermi appiccicata.

La prima cosa che ruppi, come vi ho già raccontato, furono le spade e il motivo di tutta quella forza compresi ben presto fosse l'invidia.
Poi ruppi degli orologi preziosi, che presero il posto delle spade sui miei vestiti, infine passai ai servizi buoni.

Si invidia ciò che non si ha, ed era divertente vedere che ciò che non avevo poi diventava una decorazione sui miei calzoni, sulle casacche ed i cappelli con le piume.
A questo punto fu difficile riuscire a nasconderla l'invidia.
Se quel qualcosa che avevo fracassato, la gente me lo vedeva addosso, sapeva che era stato rotto nel peccato.
Mai sentimento così tanto disprezzato divenne ben voluto, tra gli sguardi di chi l'invidia l'aveva per me, ma non gli generava forza ma solo eccesso di bile.

Ora che i cavalieri non avevano più spade, venne a me l'incarico di proteggere chicchessia dalle grane che lo investiva, così che per essere paladino dovetti imparare ad invidiare il mio nemico su comando.
Fintanto che si trattò di invidiare condottieri, ricchezze ed altre maledette meraviglie che fanno gola all'uomo, mi sembrò fin troppo facile.
Guardare fisso un cavaliere mentre avanzava, immaginare quanto si sentiva protetto nella sua armatura mentre io me ne stavo senza cavallo ad aspettarlo, mi generava una buona dose di sana invidia.
Con pochi sganassoni lo sbullonavo completamente, ritrovandomi con la sua armatura addosso.
Ero l'unico a riuscire a farlo.

Chi invidiava questa mia condizione non riusciva ad assestarmi altro che un tenero buffetto e non è cosa troppo astrusa venire a sapere che tra le fila nemiche si facevano addirittura esercizi d'invidia, sperando di poter così eguagliare quella mia strana condizione.
Niente da fare.
Poi però venne il giorno in cui mi chiesero di sconfiggere la tempesta, ma io non ne fui in grado.

Per quanto mi sforzassi di volerla tirare giù a forza di fendenti, non riuscivo ad invidiarla.
Mi pareva che fosse solo acqua, solo grigia e cupa condensa, e chi sano di mente può voler acqua fredda addosso, invece di una solida armatura?

Il popolo mi incitava, speranzoso di farmela a tutti i costi piacere esaltandone la forza divina, la maestosità e il chiasso che faceva, mentre quella per non essere da meno spazzava indisturbata via i tetti della case, riempiva le torri del castello come brocche e faceva affogare cristiani e bestie insieme.

Eppure, nonostante fosse lusighiero pensare di poterla indossare, non mi veniva da invidiarla, perché mi sentivo già bagnato, perché avevo freddo e perché semmai proprio qualcuno mi sentivo a quel punto di invidiare, era chi la propria invidia la poteva ancora esercitare senza per forza essere messo nel mezzo.
Li avrei potuti fracassare tutti in quel momento, levando il problema della tempesta alla radice, ma non mi andava di ritrovarmeli poi addosso.
Via in un solo colpo tutti quelli che adesso invidiavo.
Tutti quanti tranne me, che non invidiavo affatto.
Realizzai allora che non mi ero mai invidiato.
Mai fino a quel momento, l'istante in cui invidiai il non provare invidia per qualcuno o qualcosa.
E visto che trovavo che mi stessi bene addosso, fu così che mi frantumai a suon di schiaffi.

giovedì 6 giugno 2013

La bottega del senso - (carte estratte: 1 13 17 - tiraggio di Daniele R.)



Nella bottega del senso non c'erano candele. Anche in una giornata d'estate, dentro c'era sempre penombra.
Il nome per i più suonava ingannevole e visitavano quel bizzarro luogo, solo pensando di poter trovare un senso alle cose, restando però puntualmente delusi quando si rendevano conto che lì ad aspettarli c'era solo un buon tuttofare che riparava gli oggetti.

Donato, così si chiamava quell'uomo, aveva una sua personale filosofia, credeva che se qualcosa funzionava "è un buon segno" e che un buon segno potesse dare senso a ciò che egli stesso faceva.
Per questo l'aveva chiamata così e forse a conti fatti, la bottega del senso serviva solo a lui, fiducioso com'era che tanti "buoni segni" messi in fila potessero tracciare una rotta.

Dopo un primo momento di smarrimento, ogni persona che si ritrovava nella bottega, forse per paura di esser presa per pazza facendo domande sul senso delle cose nel luogo sbagliato, si sentiva in dovere di dare qualcosa da riparare a Donato.
Del resto chi non si è mai sentito sciocco per essersi sbagliato in una qualche situazione?
Provate ad immaginarvi anche solo per un istante, mentre entrate in un macello pensando di trovarvi una sartoria. Convinti profondamente che lì si vendano camicie, non uscireste da quei luoghi con almeno due braciole sotto braccio?

Così per la stessa ragione, chiunque si trovava di fronte a Donato pronto a sentire quale fosse il suo proprio senso, in una sorta di inversione di marcia fatta all'ultimo momento, all'improvviso si sentiva in dovere di metter sotto al naso del bottegaio quello di rotto che aveva con sé, magari un orologio fermo, una scarpa col buco, un orlo da rifare o delle lenti malferme sulla montatura.
Ed è così che a pensarci bene, senza la bottega del senso e senza essersi trovati nel posto sbagliato a ringoiare domande senza ragione, ognuno di loro avrebbero continuato ad arrivare in ritardo, ad avere i piedi doloranti, gli occhiali sbilenchi e chissà quali mille altre cose che non potevano altrimenti trovare un senso.
E riparando le cose, Donato continuava a scivolare dolcemente verso nord.

venerdì 24 maggio 2013

Mia mamma mi aveva disegnato male - (carte estratte: 21 11 20 - tiraggio di Anna P.)



- Una donna non può avere il dono di riprodurre su carta, né tanto meno può esser maestra nell'arte dell'affresco.

Grosso modo eran queste le parole che venivan fuori dalla bocca del maestro, quando con mio padre a cena si tratteneva più del solito.
Non credo fosse il vino a farlo arrivare a certe conclusioni, quanto piuttosto una sorta di invidia verso mia madre, lei che era incinta di me, era l'evidenza del saper riprodurre; cosa alquanto difficile da apprendere per un maschio.
Così il maestro, per sostenere la sua tesi, le mise di fronte sulla tavola ancora imbandita, una pergamena bianca e sventolandole sul naso una piuma d'oca, la sfidò a disegnarmi come mi immaginava che sarei stata una volta venuta al mondo.
Va da sé che mia madre, che non aveva mai armeggiato con l'inchiostro, mi disegnò male.
Sette mesi dopo nacqui proprio disegnata male.

La mia infanzia non la dimenticherò mai, perché fu la tipica giovinezza che può vivere uno scarabocchio.
Non dovrebbe essere troppo difficile per voi immaginare come fossi fatta: due linee nere che si piegavano ad elle per gambe, un triangolo come busto che arrivava oltre le braccia, oltre le quattro o cinque dita - a seconda della mano che stavate osservando - e si univa al collo sottile, poi sopra c'era un cerchio grande, forse troppo, e un intreccio di giravolte di cotone nero, quello era il mio scarabocchio di capelli.
I bimbi non son di certo gentili e bastava che mi distraessi un solo istante per ritrovarmi con due virgole ricurve sotto al naso.
Non ho mai gradito portare i baffi, nonostante molti di quei monelli sostenessero che mi stavano proprio bene.

Mia madre si sentiva in colpa per avermi disegnata male e cominciò ad impratichirsi con le tinte fatte d'uovo, con i pennelli di crine e le tele.
Studiò ogni tipo di tecnica, pensava che ciò avrebbe reso più facile per me superare il fatto di essere un groviglio.
Per un po' funzionò anche, la vedevo lasciare il colore sul bianco e sviluppai un certo occhio per quel mestiere.

E' difficile vivere come uno scarabocchio quando vivi al tempo delle cattedrali, tra affreschi che lasciano spazio a far intravedere solo tratti morbidi e rotondi.

Cominciai pertanto anche io ad affrescare le chiese, ed era strano vederlo fare ad un intreccio di linee. Immagino quanto fosse bizzarro per un duca o un papa, vedere una matassa d'inchiostro che poneva santi, nuvole rotonde e colombe sullo stucco fresco.
Ma fu così che divenni grande.

Ogni pennellata descriveva un mondo coerente, concreto, profondo in ogni verso, ma sentivo che qualcosa mancava in tutto questo, sentivo che tutto quello che stavo mettendo sul muro mi era distante: non erano i miei disegni.

Mi venne in mente un giorno mentre mi osservavo allo specchio, cercando di immaginarmi con i tratti di un'affresco, di ripensare alla mia adolescenza.
Quei giorni mi avevano lasciato due cerchi in più.
Sopra al triangolo che avevo come corpo.
Quelli mia mamma non li aveva disegnati, perché mi aveva immaginata piccola e il concetto di seno su di me le era probabilmente ancora estraneo.
I due cerchi me li fece la natura, non mia madre.

E' strano pensare, nonostante quel bizzarro scherzo del destino, a quanto sia coerente la natura.
Io che ero uno scarabocchio ebbi in dono non due seni ma due bei cerchietti.
Devo dire la verità, fui contenta di quei rotondi essenziali, facevo davvero tanta fatica ad immaginarmi differente.
Pensate voi quale abominio sarei stata, tutta scarabocchio, a dover portar due seni veri.
Questo mi rincuorò, e per la prima volta cominciai a riconsiderare la mia coerenza.

Pian piano finì il tempo di vedere il mondo affrescato, compresi che la struttura di ogni forma è puro scarabocchio.
Avrei dovuto ricominciare da lì, accartocciando tutti gli studi fatti, tutte le notti perse con la schiena sulle travi a dipingere soffitti per far tacere il ricordo delle parole del maestro.

- Una donna non può avere il dono di riprodurre su carta, né tanto meno può esser maestra nell'arte dell'affresco.

Forse aveva ragione.
Senza confini certi, uno scarabocchio non è materia da stare immobile appesa al muro.

giovedì 23 maggio 2013

Ho o non ho - (carte estratte: 1 15 17 - tiraggio di Giovanna B.)



- Ti propongo una sfida. - disse il diavolo - Finché riuscirai a fissarmi dritto negli occhi, ti darò tutto quello che non hai.

Le premesse per un buon affare c'erano tutte, così senza farselo ripetere due volte, Gildo che era un mercante di grande talento, cominciò a puntare le sue pupille dritte e fisse nelle cornee di quel povero diavolo.
Per l'uomo, che ogni giorno era abituato a vedersi sfilare davanti persone di tutte le estrazioni e forme, quell'atto che forse dal diavolo era considerato così straordinario, si dimostrò per Gildo la norma.

Lo fissò pertanto così intensamente negli occhi da mettere quasi in imbarazzo quel demonio e poiché una promessa è pur sempre un'accordo, dal quale proprio un signore oscuro per sua natura non può distogliersi - così come in quell'arrangiamento - si vide costretto a dare al mercante ciò che non aveva.

Questa si che fu di per sé un impresa molto più ardua rispetto a quella di sostenere uno sguardo, perché ad ogni proposta di nuovo umore od oggetto, pareva proprio che Gildo già l'avesse.

- Ciò che non hai perché non vedo, è una matassa d'oro.
- Ce l'ho! - disse Gildo - Non è proprio puro oro, ma sta qui nei miei capelli. Me lo diceva sempre mia madre: son d'oro i tuoi boccoli.

Di sicuro non si poteva negare che non fosse vero, il biondo dorato di Gildo, faceva capolino da sotto il copricapo, così il diavolo dovette inventarsi qualche altra cosa che il commerciante non avesse, per poter mantenere la promessa fatta.

- Ciò che non hai perché non vedo, son spaventosi denti a punta per atterrire e far cader nella follia il tuo nemico.
- Ce l'ho! - disse Gildo - non son proprio denti, ma sempre bianchi e d'avorio appaiono: sono i dadi che ho con me in tasca. Bastan pochi lanci giusti per far diventar un uomo pazzo e se sei abile di mano, te l'assicuro, che di folli ne posso far diventare tanti da riempire i sanatori.

Mantenere quella promessa, per il diavolo pareva molto più complesso che sostener lo sguardo di un mercante e forse per inesperienza, data la sua giovane età, quel demonio commise un altro errore.

- Ciò che non hai perché non vedo, sono lame affilate, che possano tagliare in due chiunque ti sbarri la strada.
- Ce l'ho! - disse Gildo - Se qualcuno mi blocca il passo, impedendomi di raggiunger la meta, basta che gli chieda gentilmente di spostarsi. Sai caro diavolo, la mia lingua morbida ne ha tagliati già parecchi.

Povero demonio, pareva proprio che avere e non avere fossero quasi la stessa cosa, dovette così azzardarsi in molti altri modi.

Ciò che non hai perché non vedo, son scarpe nuove, son borse sempre piene, son carote dolci, son corde che non si sciolgono, son ore infinite, son bicchieri d'acqua per spegnere il fuoco…

Niente da fare pareva proprio che Gildo avesse già tutto, e la fila diventava sempre più lunga, la gente cominciava a spazientirsi non potendo accedere al banco del mercante.
Così tra uno spintone ed un altro e una secchiata d'acqua in testa, spensero infine i buoni propositi del diavolo, che tra tutte le cose che quel giorno avrebbe potuto avere, si dimostrò proprio privo del buon senso di non far arrangiamenti con un esperto commerciante.

venerdì 3 maggio 2013

Molti ma molti mattoni - (carte estratte: 16 7 21 - tiraggio di Ilaria B.)



A pensarci bene, tra mattoni, tegole, legni da infissi, vetri e cocci, la casa di Ida ne aveva di pezzi, almeno uno per ogni capello che le cresceva in testa.
Questo che ai più potrà sembrare un paragone strano, per la ragazza divenne cosa seria, perché il primo giorno che provò ad andare un po' più lontano del suo giardino si rese conto che i propri capelli rimanevano impigliati in ogni dove.

Certo è cosa davvero bizzarra, come se casa e capelli fossero poli magnetici che si attraevano tra loro per volontà e per caso.

- Ahi! Ahhhahii!

Erano ormai soliti sentire i vicini di casa, che ad ogni passo che Ida faceva più in la del balcone, c'era sempre una finestra che sbatteva, una porta che cigolava, una trave troppo bassa sulla quale ci si andavano ad aggrovigliare le sue ciocche.

- Maledetti voi capelli! Anche io vorrei poter viaggiare e vedere il mondo con i miei occhi.
Se la prendeva Ida con la sua folta chioma allo specchio e quella lunga tiritera ormai per lei aveva sostituito la preghiera della sera.
- Forse domani, vedrete che ci riesco. Fosse anche solo che mi capiti di diventare calva.

Come era gelosa quella casa di Ida, di lei che aveva mille viaggi in testa, mille progetti, mille modi di volersi pettinare ed invece era sempre costretta a venire a patti con quelle mura impiccione.
Ogni tentativo era vano e per tornare a quello che vi narravo all'inizio, cominciò a pensare che forse in quella casa ci fosse un mattone, tegola o singolo infisso che fosse per una qualche bizzarra ragione fratello di ogni suo capello.
Fratello, cugino, genitore, da quando era rimasta sola, quella casa li aveva sostituiti tutti e guarda caso proprio da lì tutto era cominciato.

Poi un giorno a bordo di un carro arrivò il suo futuro amore. Si chiamava Manlio e del viaggio ne aveva fatto virtù, sempre mosso da coraggio e spirito d'esplorazione, le sue ruote erano ormai diventate come gambe, tanto che dal carro non scendeva mai.
A Manlio piaceva vedere il mondo da quell'altezza, in piedi sul sedile frustava con delicatezza i due cavalli e proprio in piedi sul sedile sentì un certo giorno, parlare Ida allo specchio. Le orecchie del ragazzo arrivarono giuste giuste al bordo della finestra del secondo piano.

- Maledetti ed ancora maledetti! Ma mi volete lasciare una volta tanto vedere oltre il melo in giardino?
Era il momento della tiritera.
- Ma cosa vi ho fatto di male che mi tenete come un canarino in gabbia?
- Ah che bella chioma signorina!
Gli fece Manlio dal bordo della finestra, che oltre che le orecchie in piedi sul carro, anche gli occhi ci arrivavano benissimo.

-Ahhhhhhh!
Per tutta risposta a quella improbabile invasione fuori dal piano rialzato - seppur con discrezione Manlio, in piedi sul carro, era rimasto sulla via - all'urlo seguì un bel colpo di spazzola in piena fronte, ma non per desiderio di volerlo pettinare, ma per reazione istintiva della folta Ida.

- Chi siete? Orribile spione!
Povero Manlio, steso giù sul carro dopo quella botta in testa, trovò a fatica le parole per giustificarsi.
- Passavo di qui come al solito, in piedi sul mio carro e non ho potuto fare a meno di ascoltare le vostre pene.
- Via subito di qui brutto cialtrone perdigiorno! Che io ho tanti di quei problemi con i mattoni ed i capelli che voi neanche ve lo potete immaginare.
Gli fece Ida sporgendosi dalla finestra, mentre rimaneva coi capelli impigliata alla maniglia.
- Ahi Ahiii ihhhiiii!

Fu davvero un bell'incontro questo loro primo, non dissimile dai tanti patimenti che soffrono all'inizio tutte le coppie.
Capendo che da quelle parti non tirava una buona aria, Manlio steso sul carro decise di proseguire, lasciando Ida a sciogliersi i capelli dalla finestra.
Quando il carro raggiunse una ragguardevole distanza, l'uomo si tirò di nuovo in piedi.
- Certo che quella ha proprio un diavolo per capello.
E massaggiandosi la fronte, gli cascò l'occhio sulla spazzola rimasta sul carro.
Manlio essendo un cuor gentile, decise che il giorno dopo sarebbe tornato dalla ragazza per restituirle l'oggetto, forse avevano iniziato con il piede sbagliato, si sarebbe scusato di quella intrusione e avrebbe cercato di trovare la pace.

Inutile dirvi che non andò proprio così, perché quando Manlio il giorno dopo si affacciò nuovamente alla finestra per rendere la spazzola ad Ida, per tutta risposta si prese in testa un portagioie bello robusto, preceduto dal solito grido della ragazza.
- Ahhhhhhh! Spione sfacciato!
E giorno dopo giorno, Manlio riuscì a collezionare sulla fronte anche un paio di cucchiai in legno, un comodino, la testiera del letto, qualche mattone del camino.

Pezzo dopo pezzo mezza casa finì sul carro e Ida una bella sera, di fronte al suo specchio pronta e sgranare come un rosario la solita tiritera, si accorse che alcune capelli particolarmente ribelli, puntavano come l'ago di una bussola verso l'esterno della casa.
Quel ciuffo di capelli era rimasto impigliato come ad un filo invisibile che riconduceva agli oggetti finiti prima sulla fronte e poi sul carro di Manlio.
Da quel giorno tirare cose in testa al ragazzo fu un piacere, proseguì così con porte e portone, finestre e tegole, assi e travi ed ogni dì Manlio inarrestabile tornava per curiosità ed amore a quella casa, pronto a restituire qualcosa ma anche a ricevere in testa qualcos'altro.
Lanciato anche l'ultimo pezzo della casa, Ida fu finalmente libera e poté infine saltar giù anche lei dalla finestra che ormai non c'era più.
Questa volta Manlio non la prese in fronte, ma tra le braccia.
Nessun confine, nessun muro né porta che potesse ormai impedire alla ragazza di varcare la soglia del mondo intero.

I due cominciarono un viaggio lunghissimo insieme, andando a seminare per il globo ogni singolo mattone, così che quella casa non fosse più in un solo posto e che quella bussola che Ida aveva in testa, potesse da quel giorno puntare verso tutti gli orizzonti.
Ida e Manlio viaggiarono felici in ogni dove, la ragazza aveva trovato la libertà pagando soltanto un piccolo prezzo: l'aver sempre i capelli ritti e tesi in ogni possibile direzione.

venerdì 26 aprile 2013

Ad Ada - (carte estratte: 21 17 16 - tiraggio di Anna R.)



Sulla collina fanti a cavallo schierati in attesa di un cenno della loro signora, pronti ad offendere il nemico seguendo quella precisa strategia che lei aveva vergato settimane prima su pergamena… subito dopo le cosce e le costine d'agnello, il vino, la musica e i canti: la battaglia era vinta, anche se ad Ada non era ben chiaro come fosse successo.

E' possibile fare qualcosa senza sapere come la si è fatta?
Arrivare come un fiume al mare, senza aver presente che valli si sono percorse?
Ada aveva ormai afferrato questo concetto o per lo meno ne era stata afferrata da qualche mese e senza rendersene ben conto, riusciva a completare qualsiasi impresa nella quale si prodigava. Fu così che la sua fama divenne via via sempre più solida e da semplice contadina si ritrovò per l'appunto alla testa di un intero esercito.
Ma andiamo con ordine, sempre che un ordine vero in questa storia si possa sperare di ottenere.

Ad Ada veniva in mente di alzare la zappa… il campo era ricco di frutti.
Ad Ada capitava di piantare un chiodo… la casa era edificata.
Ad Ada chiedevano di andare al fiume… tutti i contadini indossavano vestiti freschi di bucato.
A lei ormai tutti domandavano qualcosa, perché così come aveva cominciato aveva già finito.

Fu per questa ragione che si ritrovò sul colle alla testa dell'esercito, erano ormai giorni che i cavalieri facevano mille ipotesi su come poter affrontare l'attacco imminente e - chiamatela cattiva politica o non so più che pesci pigliare - ai nobili signori non venne in mente altro se non di chiedere ad Ada di levarli da quell'impiccio.
A lei che tutto riusciva bene senza saperne il come, in principio parve un'idea folle, Ada che faceva fatica a schiacciare una mosca, come avrebbe potuto spazzare via un intero esercito rinforzato di solide armature, picche, cavalli e trabucchi su ruote?

Passò giorni a studiare i modi per vincere la battaglia, riportando scrupolosamente su pergamena ogni sua idea.
- Lo potremmo incendiare con la pece calda… o forse far cadere nel burrone… lo potremmo affrontare al valico della lucertola… o per meglio ottenere una vittoria schiacciante convincerlo a tornare indietro con le buone.
Ogni idea che tirava fuori, era stata già detta, pensata decine di volte da qualcun altro, fatta e rifatta da altri eserciti prima del suo.
Ad Ada venne il sospetto che questa volta si era andata davvero a cacciare in una questione più grande di lei e se anche era vero che ormai alzare una zappa, piantare un chiodo o fare un semplice giro al fiume aveva prodotto risultati prodigiosi, qui si stava per improvvisare un'impresa che per lei non aveva precedenti.
Fu un misto di fiducia ed incoscienza che la portò in quella fredda mattina d'inverno sulla collina.

Il vento gelido, un brivido, l'esercito nemico che appare all'orizzonte.
Ada alza il braccio pronta a dare il segnale, sa come inizia, sa come finisce, ma non ne sa il come.
Giù il braccio! Il segnale!

Quello che alla fine contò davvero, fu la festa che ne seguì, furono i canti ed i balli, la corona d'alloro che si riserva solo ai grandi condottieri e furono i racconti che tutti quei combattenti fecero di ciò che era accaduto in battaglia a fare questa volta la differenza.
Si perché per la prima volta, qualcuno aveva visto come erano andate le cose, aveva visto quello che capitava ad Ada quando saltava dalla A alla Z.

- Quale ingegno ha dimostrato la nostra signora! Svolgere tappeti e lenzuola verdi, per coprire i crepacci… Ahhhhh le grida di quei maledetti che si schiantano al suolo, risuonano ancora nelle mie orecchie.
Sosteneva Frido "il senza cuore".

- Edificare un castello di cartone proprio di fronte a quello vero, per stancare il nemico! Un'eccellente strategia mia dama! Alzo il calice in vostro onore, nonostante il mio braccio sia pesante come il marmo a forza di affondar la spada in centinaia di schiene indifese.
E giù il vino nella gola di Guglielmo "dalle cento ombre".

- Enormi specchi! Chi lo avrebbe mai potuto pensare? Se chiudo gli occhi li vedo ancora adesso cavalcare via terrorizzati. Trovarsi di fronte ad un esercito con la propria stessa faccia, dev'esser stato per loro il peggior incubo realizzato. Lunga vita ad Ada!
Anche Nicola "dai due nasi" fece il suo personale racconto di come erano andate le cose.

E poi enormi gomitoli di chiodi fatti rotolare dalle colline, trabucchi sotterrati che invece di scagliare massi rispedivano a casa i nemici che vi mettevano il piede sopra, si parlò persino di tende in cui si offriva al nemico cibo di ogni genere così che poi con le pance piene desistesse dall'attaccare, seguirono i racconti di Nerino "doppia lama" pieni di armature taglienti, che si intrecciavano a quelli di Filippo "la roccia" e le sue pietre che rotolavano giù per le colline, quelli di Orso "riempi fossi", di Victor "dei veleni", di Edgardo "inghiotto nelle nebbie".

Ad Ada non era molto chiaro come fossero andate le cose, nessuno di quei racconti coincideva l'uno con l'altro, né tanto meno con qualcosa di logico, parevano piuttosto una serie di ipotesi, niente di così diverso da ciò che la donna aveva fatto per settimane sulle pergamene: tante ipotesi.
Ipotesi lontane dalle sue che erano tuttavia banali, ipotesi che parevano nate da un'altra testa pensante.

- Come lo chiamerò?

Più che una battaglia tutto ciò ricordava le prove di uno spettacolo teatrale, dove il capocomico e gli attori improvvisano abbandonandosi nel regno di tutte le ipotesi, sapendo solo come comincia una storia e come deve andare a finire.

Inizia che Ada sa come inizia, che non si ricorda cosa c'è nel mezzo e che finisce che scopre di essere incinta, incinta di un bimbo che valuta tutte le ipotesi e le prova dal vero, che ascolta tutte le versioni improbabili prima di decidere quale sarà la sua storia da grande.
E a volte ci ripensa ancora adesso che è adulto, che sa come la vita inizia e finisce in modo sempre uguale e così per darsi un tono, sostiene che nascere è un atto di semplificazione, poiché tutte le ipotesi di come sarà il percorso diventano da quel momento concrete, lasciando spazio a quell'unico viaggio ormai probabile.

domenica 10 marzo 2013

La fisarmonica - (carte estratte: 0 19 14 - tiraggio di Pamela L.)



Se Perla guardava fuori dalla finestra in una mite giornata di sole, vedeva sia la tempesta che la siccità più nera.
Da sempre aveva visto le cose in questo modo per una strana malformazione ai suoi cristallini e se teneva stretto l'occhio destro, col sinistro vedeva ogni aspetto bello che c'è nelle cose, mentre con l'altro occhio solo il brutto le rimaneva impresso.

Molti medici si erano avvicendati per cercare di venirne a capo, ma a nessuno era mai stato concesso di essere agli occhi degli altri, il più furbo; così che se Perla guardava il professor Terlizi con l'occhio sinistro mentre era chino su di lei per visitarla, gli si presentava davanti un uomo che aveva dedicato tutti gli studi della sua giovinezza agli altri, ma appena lei strizzava l'altro occhio, quel che aveva davanti era un uomo ormai mosso solo dal denaro.

Quella sua particolare condizione, non le aveva mai permesso di vedere le cose come lei avrebbe desiderato, i suoi occhi sempre tesi tra due opposti le svelavano un mondo fatto di contrasti, dove anche i bambini non erano solo esseri puri, ma capaci altresì di odiare, imporre e godere; dove chiunque era in grado di mostrare senza inibizioni al suo sguardo, il massimo bene che aveva realizzato, così come la peggior sozzura.
Negli anni aveva imparato a ponderare una media per capire chi avesse di fronte.

Fu un giorno di marzo che accadde qualcosa che non aveva visto mai.
Ai bordi di un marciapiede vi era un suonatore di fisarmonica, con tanto di cappello al rovescio appoggiato sull'asfalto per le offerte.
Le sue dita scorrevano veloci sui tasti e per ogni persona che passava lì davanti, quell'uomo riusciva ad improvvisare una melodia che catturava.
Ad occhi chiusi continuava a suonare con il capo chino sullo strumento, veloce ed adagio a seconda del momento e in lui non c'era niente di opposto: agli occhi di Perla aveva un solo aspetto.

Fu un esperienza completamente nuova per la ragazza, di fronte al suonatore non era costretta a strizzare un'occhio dopo l'altro, finalmente in lui vedeva esattamente ciò che tutti normalmente vedono.
Incuriosita, Perla gli si parò davanti, come a voler entrare con decisione nel suo campo visivo, nonostante quello tenesse gli occhi chiusi.
La musica si fermò.
L'uomo alzò il capo.
Aprì gli occhi e la guardò.
Poi sorrise.

Di monete nel cappello non ce n'erano molte, di pezzi nella fisarmonica un'infinità.
- Sai che la tua melodia è fatta di silenzi?
Le disse l'uomo.
Perla continuava ad osservarlo, spostando la testa come si fa quando si guarda qualcosa per la prima volta, scrutandolo con un misto di meraviglia e sospetto, mantenendone una certa distanza.
- Riesco a vederti come se fossi uno solo.
L'uomo si guardò oltre le spalle, come se la volesse bonariamente prendere in giro.
- E quanti altri dovrei essere?

Spiegare se stessi al prossimo è un'impresa tra le più ardue, e Perla questo lo sapeva bene, abituata a fare di ognuno l'incontro tra gli opposti.
Il suonatore però aveva compreso tutto di lei poiché lei non generava neanche una singola nota.
- Anch'io sono come te, vedi! Le mie mani adesso non si muovono, tu sei al centro e fatta di silenzio. Anche per me è la prima volta che ho di fronte qualcuno che percepisce gli opposti. Tu attraverso gli occhi, io con le mani.

Il suonatore di fisarmonica cominciò a suonare nuovamente, al passaggio di altre persone, melodie sempre differenti, alcune allegre e altre struggenti; erano le sue mani a percepire gli opposti di quelle persone ed ogni minima variazione tra il meglio ed il peggio, quando gli sfilavano dinnanzi, producevano la loro canzone.
Così un semplice impiegato diventava pura musica, poiché è nel rapporto di distanza tra i suoi estremi che veniva generata quella melodia.
La fisarmonica è strumento degli opposti, che in una danza si avvicinano ed allontanano generando al centro del mantice il suono.

Perla comprese in quel momento, che ciò che aveva visto nelle persone fino a quel giorno era la loro totalità e non poteva né doveva cadere nel tranello di pensare che fossero la media tra due opposti.
Bene e male li vide per la prima volta come una danza.

Mise una moneta nel cappello del suonatore e poi se ne andò via, sapendo che più si allontanava da quell'uomo più avrebbe allontanato il "cantabile" dalla "bottoniera".
Un giorno si sarebbero riavvicinati, per produrre ancora una volta, il suono del silenzio.

domenica 24 febbraio 2013

C'era una volta… ma una volta sola - (carte estratte: 17 12 9 - tiraggio di Agata S.)



C'era una volta Alba che voleva solo cominciare, intrigata così tanto dagli inizi pensava che nulla avesse senso nei finali.
Come biasimarla del resto, finire fa paura un po' a tutti; e rese chiare da subito le sue intenzioni per il peso del suo stesso nome, tutto iniziava e mai nulla finiva.

C'era una volta Alba che per lei era sempre lunedì, si svegliava la mattina quando il sole sbucava appena oltre l'orizzonte, si lavava nel catino e poi apriva la bottega, andandosene via a mezzogiorno e non chiudendo mai la porta.
Chi comprava le sue mercanzie ormai si era abituato a tutto questo e sapendo bene che non avrebbe ricevuto resto, pagava il prezzo giusto del pane, della carne e delle noci.

C'era una volta solo la primavera, perché per Alba era inutile che arrivasse l'estate. Che senso aveva? Si stava così bene quando il giorno scaldava abbastanza e non troppo poco.

C'era una volta sua padre, che non poteva morire in pace, stanco di un'intera vita al mulino, si ritrovava ogni lunedì a pestare il frumento sotto alla macina. Non dimentichiamoci che c'era anche una volta di Alba la madre, che lavava al fiume i panni sporchi, senza potersi mai alzare, china a sfregar vestiti in quell'eterna primavera.

C'era una volta un villaggio che si cominciava a stancare, che aveva perso la speranza di vedere un martedì, di pensare anche solamente che un bel giorno potesse nascer storto.

C'erano una volta decine di madri, con le lunghe gravidanze sulla pancia, che si lasciavano però alle spalle almeno diciotto mesi di gestazione e il loro unico svago era quello di stare in piazza, a raccontarsi da quanto tempo i loro mariti erano partiti per andar nei campi. Del resto era quasi mezzogiorno, forse li avrebbero rivisti da lì a poco. Le minestre erano sul fuoco, caldo almeno da far quasi fondere il ferro.

C'erano una volta dei c'era una volta, che si erano stufati di leggersi i c'era una volta e tutti quei c'era una volta si resero conto che dovevano trovare una soluzione per arrivare ad una fine.
Di fare un'assemblea cittadina al calar della sera, per decidere come uscire da quella bizzarra situazione, era cosa assai improbabile, per cui tutti insieme a metà mattina andarono a chiedere al saggio del villaggio, come far finire quell'assurdo ritornello senza mai strofa.
Il vecchio che viveva al centro del bosco, li accolse a braccia aperte e nella sua casetta scalcinata, sembrò trovare subito un rimedio.
-Voi domani che è lunedì, con i soldi giusti in mano per non dover ricevere alcun resto, andate da Alba, comprate pane, carne e noci come sempre, pagatela, ma questa volta chiedetele di consegnare la merce qui a me. Vi assicuro che non ci sarà bisogno di nessun altro "c'era una volta".

Il giorno dopo, c'era una volta Alba che aveva un negozio nella piazza del villaggio, che ricevette a metà mattina la visita di tutti gli abitanti di quel borgo.
Questi avevano fatto una colletta per comprar da lei pane, carne e noci, pagarono il giusto prezzo senza aver bisogno di resto e le diedero il compito di consegnare la merce al vecchio saggio, nella sua casettina in mezzo al bosco.
Alba controllò che non fosse ancora mezzogiorno e messi sulle spalle i tre sacchi con la merce, si incamminò verso il centro del bosco, ma quando arrivò a un terzo del percorso, la ragazza posò i sacchi in terra pronta a tornare indietro senza finire.
Si allontanò.

Alle sue spalle un allegro cinguettare, attrasse la sua attenzione, al che si voltò in tempo per vedere un gruppo di passerotti che si erano lanciati sul sacco del pane, festosi banchettavano con quel ben di Dio, senza farsi troppe domande su quale grazia gli fosse capitata.
Ad Alba quella per un attimo sembrò vagamente una giusta conclusione, che le riempì per un pochino di gioia il cuore, ma poi tornata in sé si affrettò indispettita a togliere dalla strada i tre sacchi: non poteva né voleva generare alcun tipo di conclusione, così con nuovamente il carico in spalla riprese a muoversi verso la casa in mezzo al bosco.

Percorso un altro terzo del cammino, si guardò intorno, lì non c'era proprio nessuno, poteva star tranquilla e dopo aver scaricato nuovamente i tre sacchi in mezzo al sentiero, voltò le spalle per tornare al villaggio.
Di uccellini non se ne sentivano i cinguettii, ma ormai quell'idea di un finale che non voleva accadesse, le si era così radicata nelle meningi che tornò indietro a vedere che fosse tutto a posto, che il suo gesto fosse anche questa volta inutile come tutti i lunedì.
Si sbagliava di grosso, perché la volpe silenziosa era scesa a valle per mangiarsi la carne che era nel secondo sacco.
- Maledetta togliti di lì! Non vorrai farmi finire qualcosa a mia insaputa!
E con un bel sasso e una discreta mira, Alba riuscì ad allontanare quel fulmine rosso.
Riprese i sacchi in spalla e si rimise in cammino.

Al terzo tentativo voleva non avere dubbi, così posò i sacchi in mezzo al sentiero e li ricoprì di foglie e rami, sperando che nessuno li trovasse.

Eviterò di farvela troppo lunga, poiché così come a voi vi è balzato in capo il sospetto che un terzo animale potesse entrare per concludere forzatamente questa storia, anche ad Alba venne lo stesso sospetto, e non passò troppo tempo che un gruppo di castori, in cerca di rami secchi e foglie per edificare una diga, si ritrovarono a sgranocchiare tante buone noci.
- E no! Allora me lo fate apposta!
S'infuriò Alba, che scacciati a suon di "Sciò!" tutti i castori, si rimise in spalla la mercanzia andandosene a gambe levate il più lontano possibile, verso il centro del bosco.

Inutile dire che ad aspettarla alla fine del sentiero, seduto comodo su un ceppo, c'era il vecchio saggio, che la accolse a braccia aperte prendendosi la merce e ringraziandola della consegna.
Alba rimase con un palmo di naso, dovendosene tornare a casa all'una di quel bel martedì d'estate.

sabato 16 febbraio 2013

Le tre storie dell'orologio - (carte estratte: 12 7 19 - tiraggio di Patrizia G.)



Avete mai sentito parlare delle tre storie dell'orologio?
Probabilmente no, perché si svolsero tutte al di fuori del tempo e quindi non accaddero mai.

La prima storia racconta di un impiegato, che fino alle sei e mezza del pomeriggio andava di fretta e dalle sei a mezzanotte si muoveva piano piano, poi fino alle sei e mezza del mattino dormiva poco, ma per arrivare al mezzogiorno gli ci voleva un eternità.
Ciò vi potrà sembrare davvero strano, ma se aveste avuto sott'occhio il suo orologio avreste capito il perché.
Era un orologio a muro, di quelli che si guardano in continuazione quando è ora di tornare a casa, ma quello lì aveva un difetto di fabbricazione: le lancette erano pesanti a tal punto che nel mezzo giro che andava dall'alto in basso - dal 12 al 6 - crollavano per la forza di gravità, poi per tornare entrambe a puntare verso l'alto - dal 6 al 12 - si trascinavano a fatica per risalire.
Certo non era per niente facile vivere in questo modo.
Pensateci bene, la notte passa in un lampo e con gli occhi ancora carichi di sonno dovete alzarvi per andare a lavorare. La mattina diventa infinita tanto che perdete almeno dieci chili prima di arrivare a pranzo e poter mangiare. La stessa regola vale per il pomeriggio che passa così in fretta che non ve lo potete neanche godere e infine per coricarvi a letto e come se passasse una settimana.

La seconda storia racconta di un altro uomo al quale non cresceva pelo, i capelli li aveva, ma di barba e baffi non se ne parlava, stufo di sentirsi considerato da tutti un ragazzino, decise di mettersi due bei baffi posticci per riempire il vuoto sotto al naso.
Ci appiccicò due lancette, spesse e nere, una per le ore che puntava verso destra e una per i minuti che virava a sinistra.
Sicuramente avrebbe fatto palpitare molti cuori con quei bei baffoni, ma appena provò a spostarsi di pochi passi si rese conto che le lancette cominciavano a girare; così se andava avanti, anche il tempo andava avanti - storcendogli dolorosamente il naso - se si fermava tutto si congelava e se provava a camminare come un gambero, tornava indietro insieme al tempo!
Andò male con le ragazze, poiché da quel momento fu sempre impegnato a non spostarsi troppo, per evitare di farsi scaccolare dalle lancette.

La terza storia racconta di un orologiaio distratto, che quando costruì per sé un orologio, si dimentico di posizionare sul quadrante il 12.
Bel guaio quello! Da quel giorno la sua mezzanotte e il suo mezzogiorno divennero solo un pallido ricordo.
Quelle due ore cominciarono a mancargli così tanto che per rimediare a questo divenne un ladro e cominciò a rubare a chi gli venisse a tiro il mezzogiorno e la mezzanotte.
Non era cosa insolita ritrovarselo in casa, che con aria furtiva ti portava via l'appetito o un ora di sonno.

La gente stufa di farsi rubare il tempo e che a differenza di voi aveva già sentito narrare delle tre storie dell'orologio, decise di mettere in atto un piano che poteva liberarli da quei tre impiastri.
Fecero così far conoscenza tra l'orologiaio, l'impiegato e lo sbarbato baffuto, ma lo fecero di mattina così che per arrivare a pranzo sarebbe passata un'eternità.
Beh! Ve lo dico senza tanto girarci intorno, ma quando fu mezzogiorno avevano tutti e tre il budello così tanto lungo che non pensarono proprio all'ora che stavano per perdere, si preoccuparono solo di mangiare.
Il primo giorno però non fu facile, perché tra che non avevano il mezzogiorno dell'orologiaio, ma neanche il pomeriggio per la pesantezza delle lancette dell'impiegato, si ritrovarono a sera senza aver mangiato.
Meno male che con loro c'era lo sbarbato, che a costo di farsi cadere il naso a forza di lancettate, camminò indietro fino alle dodici, si fermò e finalmente poterono pranzare.

E da quel giorno in poi, quei tre impiastri come in un perfetto orologio, trovarono il giusto ritmo per vivere la vita come la vivevano gli altri.
Strani meccanismi però crea la coscienza umana, io avrei rotto i tre orologi.

sabato 2 febbraio 2013

Piccolino - (carte estratte: 14 3 1 - tiraggio di Angela S.)



Quando il re morì, fu il principe a divenire a sua volta re, aveva solo tre anni e la regina lo chiamava Piccolino.
Per un sovrano è un controsenso esser chiamato Piccolino, data la vastità del suo regno, ma in quel nome era nascosto un segreto che la regina conosceva bene.

Ella aveva amato con tutto il cuore quel re morto di vecchiaia e benché le loro età fossero così distanti, per la giovane regina ciò aveva rappresentato soltanto una benedizione.
Quell'assenza le aveva svuotato il cuore e da quando nessuno la chiamava più "la mia piccolina", l'incantesimo si era infranto e "la regina in miniatura" era diventata "la regina madre", ritrovandosi da giovane a vecchia in poche ore.
Il potere dei nomi è un potere da non sottovalutare.

Piccolino non sarebbe mai morto, non avrebbe mai lasciato sola la regina madre, fintanto che lei lo avesse chiamato così.
Da quel giorno le guerre si fecero per capriccio, le udienze per farlo divertire e le esecuzioni per scoprire come le persone fossero fatte dentro, in una continua avanzata che espandeva il regno di Piccolino e restringeva quelli degli altri sovrani.
L'esercito di Piccolino resisteva, nonostante le sue fila ad ogni capriccio fossero sempre più esigue.
Con il nuovo re non era possibile essere diplomatici, le regole non valevano e quel sovrano che dopo quattordici anni di regno ne dimostrava ancora tre, venne riconosciuto come uno tra i più spietati tiranni della storia.
Tutti i regni lì intorno decisero allora di unirsi, per dichiarare guerra al più grande conquistatore di sempre.

- Non vinceremo mai contro tutti quegli uomini messi insieme.
Disse il consigliere alla regina.
- Vi prego mia sovrana, dovete rompere l'incantesimo che tiene il re in questa condizione, a nulla sarà valso chiamarlo Piccolino per tenere lontana la morte, poiché essa ora ha deciso di allearsi con il nemico.
La regina salì su tutte le furie per l'arroganza del consigliere.
- Voi siete solo uno stupido omino, piccolo e insignificante.
E così fu, il consigliere divenne un bimbo di tre anni.
Ecco la soluzione!
In quel momento capì che avrebbero vinto la guerra e quando gli eserciti si affacciarono all'orizzonte, la regina era già pronta sulle mura, per trattare quei guerrieri come pargoli.

Bambini ovunque, sui cavalli, con gli archi in mano, sulle scale che violavano le mura, bambini che invece di assediare il castello di Piccolino e portare la morte, ora se ne stavano senza capire bene dove fossero, frignando perché volevano soltanto tornare a casa.

Fu molto facile per l'ormai esiguo esercito di Piccolino eliminarli uno ad uno, come si fa con gli insetti che ci danno fastidio.
Fu molto più difficile invero, comprendere il senso di questa vittoria.

domenica 27 gennaio 2013

La storia dei se - (carte estratte: 0 10 14 - tiraggio di Arianna L.)






Di fronte all'esattore c'era poco da fare, niente storie, niente sotterfugi, si era solo costretti a pagare.

Lo sapeva bene Agenore, umile contadino, che in quella situazione proprio non ci si sarebbe voluto trovare.
- …e non accetteremo un fiorino in meno di quelli che sono nostri di diritto.
Fece eco una guardia alle parole del funzionario.
Il povero contadino si guardò intorno, viveva in una catapecchia con moglie e dieci figli, sul paiolo una brodaglia a scaldare e niente più.
Probabilmente se fosse stato un ricco possidente, un tal sopruso non lo avrebbe di sicuro subito.
Tirò fuori tutti i fiorini richiesti e pagò.
Fortunatamente nascosto sotto le assi della stanza, aveva un forziere pieno di ori e pietre preziose: Agenore non era un vero contadino a dirla tutta.

Nessuno in famiglia conosceva la verità sull'uomo, perché egli si era guardato bene dal farla sapere. Il forziere lo aveva messo lì sotto quando ancora non era sposato, quando neanche aveva la benché minima intenzione di avere tutti quei figli.
Il lavoro nei campi era duro, ma di sicuro era sempre stato qualcosa che nella sua vita da ricco signore aveva voluto provare, così si era finto un poveraccio, avevo conosciuto una donna semplice e si erano trasferiti in quella catapecchia.
Agenore in realtà era un ricco possidente, con tanto di castello, valletti e cavalieri al suo ordine.

Il giorno dopo aver pagato la gabella, si rese conto che forse nascondere il forziere proprio in casa non era stata una buona idea, lì chiunque lo avrebbe potuto trovare. Se quelle assi su cui avevan camminato funzionario e cavalieri, lo avessero tradito cedendo sotto al peso delle armature, la sua bella storia sarebbe finita in quel preciso istante: gli avrebbero confiscato tutti gli ori.

Agenore decise così di portare quel tesoro, in un luogo più sicuro.
Caso vuole che il giorno prima portando al pascolo le pecore, aveva trovato un campo in cui c'era un pozzo naturale che il tempo aveva scavato nella roccia.
Ottima idea!
Con lo scrigno in spalla, si mise in cammino.

Poco dopo essersi allontanato dalla strada maestra per tagliare in mezzo al bosco, gli si pararono davanti due individui che sembrava proprio avessero scritto sulla faccia "noi siamo farabutti".
E proprio quello erano, del tutto intenzionati a portarsi via l'intero bottino.
- Contadino! Cosa proteggi in quello scrigno?

Che brutta situazione! Se non fosse stato un riccone, tutto quel putiferio non avrebbe proprio avuto inizio.
Fortunatamente, anche se voi farete fatica a crederci, il ricco Agenore non era mai stato un facoltoso possidente.
Agenore era un ladro, uno dei migliori, tanto che aveva messo in piedi una banda di briganti organizzati.
Passò anni in quei boschi, terrorizzando chiunque passasse da quelle parti e collezionando un vero e proprio tesoro.
Poi come spesso accade, quella vita all'addiaccio gli era diventata troppo stretta e disponendo allora di un considerevole tesoro, pensò bene di comprarsi una vita da signore.
Aveva quindi acquistato dei terreni, fatto costruire un castello, assoldato cavalieri e dato vita ad una vera e propria corte, lasciandosi alle spalle la sua vita criminale.

- Imbecilli ma non mi riconoscete!
Disse Agenore ai suoi due briganti.
Il più scaltro, si strofinò gli occhi e guardò meglio.
- Capo? Con quei lunghi baffi non mi parevi proprio tu.
Così i due da assalitori divennero quelli assaliti dalla furia di Agenore, che li prese a bastonate per non averlo riconosciuto.
Con lo scrigno in spalle proseguirono verso il cuore del bosco, dove avevano una grotta con tutti i loro tesori.

Quella notte fecero baldoria, scolandosi otri di vino e mangiando salsiccie e salami fino a ruzzolare addormentati sotto ai tavoli.
La mattina dopo, ancora con le teste martellanti a causa della sbornia, furono risvegliati da una carica di trombe.
I cavalieri del re avevano circondato la grotta, dando l'assalto alla banda che per anni aveva terrorizzato tutta la regione.
Il grande e temuto brigante Agenore sentitosi braccato, si arrese quasi subito come se fosse una donnicciola, cosa che fece dubitare tutti quanti sull'aver scelto a suo tempo un buon capo.

A dirla tutta però, Agenore o forse dovrei dire Angelica, una donniciola lo era per davvero.
La principessa Angelica, che non voleva sposare il principe Augusto, aveva messo in scena il suo rapimento proprio la sera del gran ballo,
così facendosi dei gonfi e lunghi baffi con il crine del suo cavallo, era diventata quel lestofante di Agenore, dandosi alla macchia verso i boschi, con tutta l'intenzione di mettere in piedi una banda di briganti.
Basta con le buone maniere!

Ma torniamo alla grotta dei briganti, dove caduti i baffi di crine dal viso di Angelica, il cavaliere con il cavallo nero riconobbe la principessa.
La voce si diffuse immediatamente tra le fila dei guerrieri, finalmente dopo così tanto tempo, al re avrebbero potuto recare la più felice tra le notizie.
- Angelica è stata ritrovata!

E fu proprio così.

Al castello venne preparato tutto per il rientro della principessa rapita dai briganti, tenuta prigioniera in quella grotta per così tanti anni che il re e la regina ormai erano entrambi bianchi e gobbi.
In tutta la regione si dichiarò festa con la promessa che nessuno avrebbe pagato gabelle per almeno due mesi.

Ma la povera Angelica si ritrovò suo malgrado, nella situazione da cui con tanta scaltrezza era riuscita a fuggire.
Il principe Augusto era ancora il suo promesso sposo, un gran peccato a dire il vero, visto che Angelica tra i suoi salvatori aveva scorto un uomo che le rapì il cuore dal primo istante.
Le era bastato un semplice sguardo per venire colta dall'amore.
Adolfo era un cacciatore, che conosceva così bene quei boschi da far da guida ai cavalieri.
Con il suo muoversi veloce tra gli alberi, senza perdere mai il senso del dove fosse, portò i salvatori dritti alla caverna dei briganti e sé stesso al centro del cuore della principessa.

Al castello la principessa rimuginava sulla sua situazione.
Come avrebbe potuto farla franca questa volta?
Forse invece di mentire avrebbe dovuto dire il vero.
Anche se voi adesso state pensando che il vero non l'avrebbe salvata, perché sostenere di non amar davvero un principe è di poco conto di fronte alla volontà di un vecchio padre, vi dico che vi state sbagliando, perché a dirla proprio tutta, Angelica non era una principessa e non era neanche una donna, ma bensì un cane.

Quel cane aveva girato il mondo.
Era un artista nel suo genere, viveva al circo e grazie ad esso mangiava tutti i giorni.
La sua specialità da sempre era stata quella di muoversi aggraziato sulle sole zampe posteriori, tanto da essersi guadagnato il nome di Principessa.
Lo spettacolo andava in scena di piazza in piazza, scatenando le risa dei bambini, che si divertivano come matti a vedere Principessa, vestito di tutto punto da damina, fare il giro tra la gente a raccogliere le offerte nel  piccolo paiolo che reggeva in bilico sul muso.
Quando un giorno i saltimbanchi furono chiamati a far divertire il re, la regina e la principessa, successe proprio un grosso guaio: la principessa per le troppe risate, si sentì male e morì seduta stante.
Quei poveri commedianti per non finire dritti sulla forca avevano pensato bene di lasciare lì Principessa, sperando che nessuno si accorgesse di quell'insano scambio.

Il piano funzionò e da quel giorno, se i saltimbanchi ebbero salva la vita lo dovettero al sacrificio di Principessa, che continuò a recitare per anni quella parte.

Ecco come la verità l'avrebbe potuta salvare, poiché Adolfo che era un cacciatore, di sicuro aveva bisogno di un cane e al contrario di quello che ci possiamo immaginare, fu proprio l'uomo ad "innamorarsi" dell'animale.
Così senza che nessuno chiedesse alcuna spiegazione ad entrambi, Adolfo ed il suo cane lasciarono il castello.
I festeggiamenti continuarono anche se non si riusciva più a trovare la principessa.

Che bella la vita all'aria aperta, correre con tutte e quattro le zampe, rinunciando finalmente a quella scomoda postura da essere umano, senza fingere più ed essere davvero sé stessi.
Con il naso teso a terra Artù seguiva la pista, scovava le lepri e recuperava i fagiani, Adolfo finalmente non era più solo.
Poi però uno stupido sasso fu tradì il cacciatore, che scivolando finì dritto in fondo ad una scarpata, si ruppe il collo e terminò così la sua storia.
Artù rimase solo.
Solo come un cane.

Se ne andò vagando senza una vera e propria meta per i boschi, con la fame nello stomaco e Adolfo nella testa, nei pensieri semplici e senza finzione del migliore amico dell'uomo.
Camminò tanto sulle sue quattro zampe, fino a che non si spinse così lontano da non riconoscere più i luoghi intorno a sé.
Giunse ad una catapecchia malferma e fu allora che la vide.

Una donna stava zappando la terra, facendo fin troppa fatica in quel lavoro da uomo.
Fosse stato solo quello, sarebbe andato tutto bene, ma per far andare avanti un campo non solo bisogna zappare, ma anche seminare, irrigare, tagliare, raccogliere e riprendere tutto da capo.
Troppo lavoro per una donna così minuta.

Se Artù fosse stato un cane, probabilmente non ci avrebbe neanche fatto caso, gli sarebbero bastate due coccole per tirare avanti, ma anche se voi non ci crederete, Artù in realtà non era un cane ma un contadino che si chiamava Agenore, che tanto tempo prima aveva un bel gregge di pecore.
Le pecore di Agenore, penso si possa sostenere, erano le più indisciplinate di tutta la regione, tanto che il povero contadino si dovette ingegnare per tenerle tutte insieme.
Così gli venne in mente di buttarsi addosso una vecchia pelle di cane, di rannicchiassi a quattro zampe e di mettere un po' d'ordine tra quelle indisciplinate.
Fino al giorno in cui non arrivò il circo in città.

Agenore quando vide la donna nel campo si levò la pelle del cane di dosso e la raggiunse scendendo la collina.
Si parlarono, si conobbero, si fidanzarono.

L'uomo sentì da subito di amarla così tanto che di sicuro ci avrebbe fatto almeno dieci figli, e nulla gli sarebbe importato se un giorno con l'esattore alla porta, avrebbero dovuto sborsare quei fiorini guadagnati con il sudore di entrambi.

sabato 19 gennaio 2013

I dieci fagioli - (carte estratte: 13 11 17 - tiraggio di Selena B.)




Era ormai buio e si lasciò cadere nel campo incolto di qualcun altro, con la schiena all'indietro.
Fece un suono molle quando batté di piatto nel fango: mai giocare al gioco della fiducia da solo, perché nessuno poi ti raccoglie.
Era un'idea sciocca ma Taddeo aveva voluto provarci lo stesso e mentre colava a picco nella melma, pensò a quanto fosse buffo lasciarsi morire così: non avrebbero dovuto neanche seppellirlo.
Affondò completamente nel fango.
Solo le dita dei piedi ne rimasero fuori.
Quelle non sarebbero mai andate sottoterra.

Sofia non si dava per vinta, si perché anche se quel campo incolto non le aveva mai dato nessun frutto da mettere sotto i denti, lei ci lavorava ogni giorno.
- Fanghiglia!
La definivano i più.
Al campo mi riferisco - ovviamente - anche se a pensarci bene, lei il dubbio di non essere molto amata dagli altri contadini dei dintorni un po' lo aveva.
Sofia era quella stralunata, quella che forse le regole di come si coltiva non le sapeva bene.
- Sono cose da uomini.
Dicevano i contadini.
- Ma sono pur sempre una donna! - ribatteva lei. - E' nella mia natura che prima o poi qualcosa riuscirò a far nascere.
Il campo fangoso era lì ad aspettarla come sempre.
La donna le vide subito quelle piantine che ieri non c'erano, perché sbucavano pallide dalla scura terra melmosa.
Finalmente aveva di fronte a sé la prova che tutto quel lavorare non era stato solo tempo perso, come sostenevano i soliti quattro bifolchi. Con il cuore che batteva in petto, Sofia si precipitò al centro del campo per ammirare da più vicino quella meraviglia.

A guardarli bene sembravano dieci piccoli fagioli in fila, e fagioli di tutto rispetto: avevano persino le unghie.
Era arrivato il momento di agire con la massima cura dopo tutta la fatica che c'era voluta per far germogliare qualcosa, ora tutte le sue attenzioni si sarebbero concentrate su quel fazzoletto intorno ai suoi fagioli.
Quella pianta era davvero strana, cinque fagioli a destra e cinque a sinistra, speculari per dimensioni e posizione, in ordine d'altezza andavano dai due centrali più alti e cicciotti, sino ai due esterni più piccoli e ricurvi a gancio.
La donna con le dita ne tastò la consistenza, si piegavano avanti e indietro senza fare troppa fatica, mentre non c'era verso di spostarli di lato senza portarsene dietro almeno altri quattro.
- Chissà che pianta sarà? Tra tutti i semi che ho lanciato a casaccio nel campo, proprio non mi ricordo di averci buttato dei fagioli.

Da adesso in poi avrebbe dovuto procedere usando il buon senso.
Innaffiarli abbondantemente non gli avrebbe fatto di sicuro male, ma appena versò dal secchio tutta quell'acqua, le piantine cominciarono ad andare a fondo.
- Diamine!
Questo era un bel problema, dopo tutto il tempo che aveva atteso che almeno una pianta sbucasse da qualche parte, rischiava ora di perderla il primo giorno.
Forse il terreno era troppo fangoso, forse tutta quell'acqua era stato un errore sin dall'inizio, avrebbe dovuto evitare di bagnare in continuazione.
Senza perdersi d'animo cominciò a portar via dal campo l'acqua in eccesso, togliendone coi secchi lo strato superficiale, il sole fece il resto e nel giro di pochi giorni il campo era umido al punto giusto, né troppo né poco.
Ma nonostante tutto, quei dieci fagioli non crescevano.

Mentre Sofia se ne stava lì accosciata vicino alle piantine, pensando a quale sarebbe potuta essere la sua prossima mossa, successe l'impensabile: le piantine si scossero come se soffrissero il solletico.
Lei cascò sul sedere, spaventata dall'improvviso animarsi di quei germogli e appena si riebbe, tornò ad osservarli da vicino.
Ecco cosa li faceva tanto ridacchiare, un nugolo di formiche camminavano su quelle piantine cicciotte, mordicchiandole di tanto in tanto.
Avrebbe dovuto trovarvi un rimedio, per farle andare via da lì.
- Care formiche! Perché vi accanite con le poche piantine che ho nel mio campo?

In effetti le venne in mente un bello scherzo.
A differenza del suo, nei campi di quegli antipatici dei contadini che la prendevano sempre in giro c'era molto più ben di Dio, così si mise a cercare la regina delle formiche per farle "un certo discorsetto".
Era quella con il turbante rosso, non fu difficile trovarla.
La prese con delicatezza sul palmo della mano e sollevandola da terra le fece vedere che al di là della collina c'erano dei campi molto più invitanti per banchettare.
La regina delle formiche la trovò una cosa giusta e dopo aver ordinato alle altre di mettersi tutte in fila, si allontanarono dalle piantine di Sofia.
Ma quei dieci fagioli non crescevano.

Così per la rabbia si mise a dar pugni tutt'intorno, dandone di così forti da far girar la terra a gambe all'aria e quello le fece venire in mente che una volta qualcuno, le aveva detto che i campi si devono arare prima di coltivare.
Arò il campo, ma i fagioli non crescevano.

Allora Sofia penso che ora che il campo era umido al punto giusto e che non c'erano più parassiti a minacciarlo e che aveva smosso tutta quella terra, forse un po' di compagnia a quelle piantine non avrebbe di sicuro guastato.
Però doveva essere compagnia di un certo tipo. Lei era solita raccogliere semi qua e là a casaccio nel bosco, senza troppo preoccuparsi di che piante avrebbero dato, mentre i dieci fagioli erano così belli che come vicini di casa si meritavano dei semi comprati al mercato.

Piantò quindi questi altri, i quali cominciarono a germogliare in quel terreno ormai fertile e bonificato.
Ma solo i dieci fagioli non crescevano, allora cominciò a rispettare il ciclo delle stagioni e a piantare al momento giusto sperando che cambiasse qualcosa.
Eppure non crescevano, allora pulì il terreno dalle erbacce.
Ancora non crescevano, mentre tutto il resto era una gioia di colori e sapori, di ottime verdure e frutti succosi; poi concimò, rigirò la terra di nuovo, la accudì, imparò chiedendo agli altri contadini, ascoltò il vento, seguì le lune, diventando infine una vera contadina con un campo straordinario.

Verdura, frutta, fiori, tutto rendeva quel terreno il più bello.
Ora era lei ad essere un punto di riferimento per tutti gli altri contadini, vincendo ogni singola gara di paese, da quella per i più grandi ortaggi a quella per i frutti più succosi.
Eppure i dieci fagioli si ostinavano a non crescere.
- Testardi!

Certo di sicuro stavano bene, si stiracchiavano, si flettevano e se li solleticavi ridevano, ma niente più.
Poi un giorno le venne in mente che forse non crescevano perché erano sempre stati maturi.
Che sciocca! Perché non ci aveva pensato prima?
Così Sofia ci si mise d'impegno e cominciò a tirare tutti insieme i dieci fagioli via dal campo e più tirava, più le lunghe radici si sfilavano dalla terra. Non aveva mai visto radici così grandi in confronto a piante così basse.

Con grande fatica finalmente estrasse tutto Taddeo, che tanti mesi fa era triste perché lanciandosi di schiena nessuno lo aveva raccolto.
Non gli sembrò vero di rivedere il sole, con il cuore colmo per trovarsi di fronte a lei, che in quei mesi lo aveva accudito dimostrandogli un incondizionato amore.

Coltivare qualsiasi campo è cosa dura, che non può essere lasciata all'improvvisazione, forse a volte c'è bisogno di avere una piccola speranza, di vedere con i propri occhi che seppur piccoli, alcuni frutti possono nascere anche dal fango e dal dolore.

Sofia appena lo vide si sentì svenire dalla gioia di aver raccolto l'intera pianta dei dieci fagioli, e portandosi le mani al viso, cadde di schiena.
Non raggiunse il suolo.

domenica 6 gennaio 2013

Le insignificanti avventure di Giovanna Cappotto - (carte estratte: 20 21 11 - tiraggio di Lavinia G.)



- Io da grande voglio essere un dottore!
Di rimando un altro bambino rispose.
- Io invece sarò un cuoco e con il mio coltello infilzerò chi mi pare e piace! Così poi tu li puoi curare.
- Ma che cavolo vuol dire? - Chiese un terzo bambino, per poi proseguire. - Il cuoco mica infilza le persone, io allora sarò un attore che viaggerà per tutto il mondo, così potrò raccontare nei teatri quanto sono scemi i miei amici! Ahahahah.
Poi tutti si voltarono verso Giovanna, mancava solo lei nel gioco del "da grande sarò".
La bimba non ci pensò troppo su e disse a gran voce.
- Io sarò un cappotto!

Quel giorno la vita di Giovanna prese una piega estremamente prevedibile come accade solo a chi ha idee che gli altri non comprendono, tanto che la piccola stralunata che voleva diventare un cappotto, divenne sul momento la prima canzonatura di Diego il bimbo attore, che cominciò a cantilenare "Giovanna Cappotto, con occhi da cerbiatta, esprime desideri, proprio da bimba matta".
Marco il bimbo cuoco, la punzecchio con un rametto.
- Io qui non vedo stoffa da cappotto, ma solo delle magre braccine, una testa e due codini.
Ogni parte del corpo che citava, il cuoco la cerchiava nei contorni col rametto, come in quei disegni che si vedono dal macellaio, dove la mucca o il maiale hanno il corpo diviso da linee tratteggiate.
- Gambe, piedi, spalle… ma! Che dire! Non vedo asole e bottoni.
- Su dai andiamo, è una femmina! Cosa vuoi che capisca?
Con questa arringa l'avvocato scaldò definitivamente gli animi dei tre maschietti, che se ne andarono verso casa ridendo della povera Giovanna, che rimase lì da sola; l'unica che a dire il vero non era ancora diventata quello che voleva diventare.

Probabilmente è davvero facile far qualsiasi mestiere, perché basta seguire la via che già in tanti hanno percorso. Tutto si impara, tutto può essere spiegato, appreso o cucito addosso, tutto tranne voler diventare un cappotto, il che presuppone un certo tipo di allenamento che nessuno ti può di sicuro insegnare, si deve procedere per tentativi.
Poi ci sono le malelingue, che magari non approvano quel tuo bislacco desiderio.
Ma da quel giorno Giovanna cominciò ad intraprendere il difficile cammino di essere un cappotto, senza farlo notare troppo a chi le stava intorno.

I primi timidi tentativi furono quelli che avrebbe potuto improvvisare chiunque, come il nascondersi nell'armadio per una notte intera, ciondolarsi sullo schienale di una sedia, e più difficile tra tutti, cogliere di sorpresa un adulto lanciandosi sulle sue spalle.
Qualcuno aveva pazienza e lo prendeva per un gioco, altri la cacciavano in malo modo, come se quelli fossero solo i capricci di una bimba.
Non sarebbe stato facile diventare un cappotto senza destare troppi sospetti.
Un cappotto tiene caldo quando fa freddo! Per cui bisognava familiarizzare con certe temperature; in inverno Giovanna se ne stava piazzata su un qualche marciapiede, giocando alla campana vicino ad un incrocio, così da poter trovare una bella corrente ancor più fredda che la spingesse più in alto ad ogni saltello.
D'estate la questione si faceva ben diversa. Nonostante la sua incrollabile volontà, sua mamma l'avrebbe spinta di sicuro fuori in giardino, se l'avesse vista starsene per un intera stagione chiusa nel ripostiglio.
- Ma che fai, non sei mica un calzino vecchio!
Così per farla franca si ingegnò anche lì per passare inosservata.
Chi mai avrebbe sospettato di una bimba che mangiava in continuazione gelato o che si lanciava nell'acqua fredda di una qualche fontana?
Imparò a tenere a bada il freddo.
Giorno dopo giorno l'allenamento diede i suoi frutti e senza dover dispensare troppe spiegazioni in giro, Giovanna ormai grande divenne finalmente un cappotto, il giorno che incontrò "Leone il barbone".

Quel disperato se la portò via ai primi freddi, la incontrò che sventolava appesa ad un cancello. Lassù c'era finita mentre stava facendo uno dei suoi soliti allenamenti da cappotto, ma quel giorno il vento era così forte, che era volata via, trascinata per un paio di isolati prima di aggrovigliarsi su quelle creste.
Leone incredulo davanti alla fortuna che gli era capitata, se la caricò sulle spalle e lei subito si accoccolò lì intrecciandogli le braccia intorno al collo, come si fa con le sciarpe.
- Ah! Che fortuna! Sembra nuovo, mai indossato.
Disse Leone mentre se la lisciava addosso per vedere come gli stava Giovanna.
Lei avrebbe voluto rispondergli, ringraziandolo per quella frase così carina, ma dove si era mai sentito dire che un cappotto potesse parlare?
Rimase in silenzio.

Essere il cappotto di Leone era uno spasso, andavano in giro tutto il giorno e non c'era da preoccuparsi troppo, lui sapeva fare un sacco di cose.
Sapeva dormire arrotolato nei giornali, sapeva che quando si bagnava gli conveniva asciugarsi nudo al sole, sapeva addirittura fare cerchi con il fiato quando in inverno c'era davvero tanto freddo.
Ma tutte queste cose, che per i più erano solo "tipiche occupazioni da barbone" per Giovanna erano ben altro.
Lei lo aveva capito. Leone non era un barbone, si stava allenando anche lui per diventare quello che voleva diventare davvero: fragrante tabacco.

L'uomo si dannava perché nonostante fossero anni che portava avanti i suoi allenamenti, mancava ancora qualcosa affinché potesse diventare dalla testa ai piedi completamente tabaccoso.
Giorno dopo giorno con addosso il suo cappotto, si arrotolava nei giornali, faceva i cerchi di fumo con la bocca e soltanto quando si essiccava al sole, rimaneva nudo.
Giovanna lì piegata in un angolo, un po' arrossiva a vederlo spaparanzato senza nulla addosso e poi quando pensava "come è bello Leone", con la manica si ripiegava ancor di più su se stessa, per non farsi scoprire a sbirciare.
- Si sta alzando un forte vento!
Disse il barbone al cappotto, che non rispose per rimanere nella parte.
- Guarda che con me ci puoi parlare… Non lo sai che i barboni sentono le voci e parlano con le cose?
Aggiunse dandogli le spalle mentre si cominciò a rivestire.
- Non lo sapevo… beh allora… anche io ti rivelerò un segreto… so come fare in modo che tu sia davvero fragrante tabacco.
Disse lei timidamente.
- Ah interessante!
Leone si girò guardandola, mentre la sua testa sbucò dalla maglietta stropicciata.
- E come si fa?
Giovanna sorrise.
- Beh come prima cosa, infilami…

Il vento si fece più deciso, Leone si infilò il cappotto che si gonfiò come una vela.
Giovanna aveva imparato a farlo nei suoi tanti allenamenti, quando saltava sulla campana o quando volò via e si andò a fermare sul cancello.
Il cappotto si strinse così forte al collo di Leone che questa volta entrambi presero il volo.
- Wow! Ma questo cosa c'entra con il diventare tabacco?
- Me l'hai insegnato tu, non si può essere cappotto da soli, bisogna trovare chi ha bisogno di indossarti.
- Continuo a non capire, ma va bene lo stesso… e' divertente starsene quassù.
Il mondo là sotto sembrava così piccolo, i ricordi di una vita da esseri umani si facevano sempre più lontani.
Le gambe di Giovanna sventolavano al vento, mentre continuava a tenere le braccia incrociate al collo di Leone, senza lasciarlo neanche per un solo istante, poi gli disse:
- Senza aria che filtra, il tabacco non può bruciare da solo!
- E adesso che c'è aria, come gli diamo fuoco?

Chi fosse passato la sotto in quel momento, probabilmente non avrebbe compreso davvero quella scena, nemmeno se fosse stato un cuoco, un attore o un avvocato di esperienza, che con il naso all'insù avrebbe visto solo un cappotto e del tabacco trasportati dal vento, una scena curiosa ma di sicuro per loro tre, un evento insignificante.
Giovanna lo baciò, come quando tiri una lunga ed intensa boccata di fumo, infine lo aspirò e Leone prese fuoco.