sabato 26 novembre 2011

Il dilemma delle tre gabbie - (carte estratte: 13 4 15 - tiraggio di Stefano M.)



- Cip cip!
Il barone aveva un vizio: spremeva i canarini come fossero limoni.
Non che in questa cosa vi fosse un fine discernimento, ma egli per comprovare che teneva il pugno di ferro, li strizzava per benino in fronte a chi gli veniva a chiedere qualche concessione su questioni di moneta.
Aveva una bella gabbia d'argento nel suo studiolo, con dentro tutte quelle ali che frullavano, e man mano che ne strizzava uno, questi veniva rimpiazzato con un altro, così che il numero fosse sempre uguale.
Saverio era piccolino e sapeva bene l'abitudine del padre, e sensibile com'era ogni volta che un canarino veniva strizzato, sentiva come se il barone stringesse tra le dita il medesimo suo cuore. Così un giorno il figliuolo decise che avrebbe salvato da compressione se stesso e tutti quelli.
Ora per farvi capire nel profondo quanto per lui la cosa fosse urgente, vi dovrei raccontar per bene la procedura di stritolamento, così da farvi patire il dolore che provava il piccolo nel vederla. Ma mi riservo dal fare ciò solo perché le parole non renderebbero bene tutti i crick e crack, degli ossicini tra le dita.
Saverio che ci perdeva le giornate ad osservare l'allegro volo dei limoni in gabbia, si chiese come poter fare a salvar ben tredici canarini senza perderne la grazia?
E se per ogni volta che il padre aveva stretto tra le dite uno di quelli, il suo cuore vi si era stretto assieme, pensò che gli allegri potessero al contrario gonfiargli il petto. Così uno per volta li raccattò dalla gabbia e se lo infilò nella camicia, curandosi di chiudere per bene l'ultimo bottone una volta che il tredicesimo fu dentro.
Fu una strana quanto piacevole sensazione, perché quelli frullando tra maniche, schiena e petto, gonfiavano e sgonfiavan la camicia manco fosse un mantice.
- Cip, cip… cip… cip, cip, cip.
Per nascondere al padre il suo gesto, Saverio cominciò a parlare così, aprendo e chiudendo la bocca senza dar fiato, ogni qualvolta un canarino cantava.
Di fronte alla gabbia vuota, il barone rimase piegato ad angolo a pensare per giorni, non riuscendo a capire quale fosse la soluzione al dilemma della gabbia.
Prese a controllare le sbarre, la porticina, il fondo. Passò alla finestra, alla porta, e alle tasche dei servitori.
Niente! Non comprese mai che fine avessero fatto i suoi amati limoni.
Passarono ben dieci anni, e tutti nel paese avevano meraviglia di Saverio, il giovane che aveva il dono del canto tanto soave che pareva un usignolo. Io avrei detto un carino avendo l'orecchio più fino, ma la gente diceva così.
- Cip, cip, ciiip… cip… ciiiiiip…
Cantava Saverio alla messa, per rendere grazie al signore, mentre gli frullava la camicia che pareva avesse in corpo un così gran cuore da scoppiargli da un momento all'altro, e non passò molto tempo che gli venne chiesto di intraprendere il mestiere di cantore nei più grandi teatri dell'europa.
Saverio oltre a cantar come un usignolo - Pardon! - un canarino, passava anche per eccentrico. Per anni per non far scoprire i limoni che gli svolazzavan nella camicia, commentava firmando contratti con dei bei…
- Cip… cip… ciiiiip, cip…
- Sono artisti, hanno in corpo qualcosa che li rende speciali.
Dicevano intorno a lui, aumentandone ancor di più il prestigio.
E dall'ambasciatore, tra le cosce della bella prosperosa, e addirittura davanti al papa, Saverio cinguettava che era una gioia sentirlo. Mai neanche una parola per non farsi scoprire, ma tanto i discorsi dell'arte li capivano oltremodo tutti.
Non vi fu giorno che Saverio non ringraziasse i suoi tredici compagni di viaggio, facendo scendere semi, bacche, acqua e quant'altro giù per le maniche. Aveva preso pur l'abitudine di salire sui rami più bassi degli alberi per far balzi giù, sperando che forse quei tredici lo avrebbero persino portato in volo, ma ogni volta tornava per terra e andava in teatro.
Il giovane cantante fece una carriera strepitosa, senza che gli mancasse niente, né a lui né ai suoi compagni, e quando divenne curvo come il padre tornò a vivere nella casa dove c'era la gabbia d'argento. Tornò dove suo padre era rimasto per anni piegato a fissare la gabbia senza risolverne mai il dilemma fino a che la morte non gli aprì la finestra.
Un giorno mentre stava al davanzale, Saverio scorse su un albero lì di fronte, proprio sulla cima, un enorme nido vuoto che sarà stato di una cicogna o di un qualche uccello bello grande.
I canarini, nonostante l'improbabile età frullavano cinguettando più che mai, come se volessero dirgli qualcosa. Così Saverio, che intendeva ormai il linguaggio degli uccelli, decise di fare a loro il più grande dono: il nido più bello e spazioso che egli avesse mai scorto in vita sua.
Cominciò così la scalata verso la cima e ramo dopo ramo, passato un pomeriggio intero, fu sulla punta. Uno per uno Saverio adagiò i vecchietti nel nido e appena il tredicesimo fu giù, tutti insieme senza né un cip né un cip cip se ne volarono via.
Saverio, rimase li appeso in bilico, senza poter neanche fargli un saluto con la mano, non capendo bene dove quelli fossero andati.
Rimase in bilico li sopra per anni non afferrando quella scortesia.
E a volte mi ritrovo a pensare, che solo un canarino può comprender bene quale sia la soluzione al dilemma delle tre gabbie.

sabato 12 novembre 2011

I due pastori che erano uno - (carte estratte: 12 8 18 - tiraggio di Marzio V. V.)



- 1… 2… 3… 7… 8… 14… 16… 18. Le pecore ci sono tutte!
Maurilio faceva il pastore, e aveva diciotto pecore, né una di più né una di meno. Per contarle annodava ogni volta su una corda diciotto nodi. Di questo numero ne aveva fatto un vanto, tant'è che per ogni pecora che prima o poi veniva a mancargli, bell'è pronta ne recuperava un'altra.
Quella mattina che era venerdì e come ogni venerdì doveva fare, prima di andare al pascolo, aveva messo in bisaccia un mezzo pecorino di quelli che aveva a stagionare. E non vi farò la lista ma sappiate che era molto scrupoloso su certe cose, su alcune quantità, su come ne dovesse mangiare, su che giorno fosse e sugli orari da rispettare.
Perché sapeva che uscir anche solo poco dal suo seminato, gli avrebbe fatto perder tutto. E se vi dico tutto, intendo proprio tutto.

- 1… 2… 3… 7… 8… 14… 16… 18. Le pecore ci sono tutte!
Vittorio faceva il pastore, e aveva diciotto pecore, né una di più né una di meno. Per contarle annodava ogni volta su una corda diciotto nodi. Di questo numero ne aveva fatto un vanto, tant'è che per ogni pecora che prima o poi veniva a mancargli, bell'è pronta ne recuperava un'altra.
Quella mattina che era venerdì e come ogni venerdì doveva fare, prima di andare al pascolo, aveva messo in bisaccia un mezzo pecorino di quelli che aveva a stagionare. E non vi farò la lista ma sappiate che era molto scrupoloso su certe cose, su alcune quantità, su come ne dovesse mangiare, su che giorno fosse e sugli orari da rispettare.
Perché sapeva che uscir anche solo poco dal suo seminato, gli avrebbe fatto perder tutto. E se vi dico tutto, intendo proprio tutto.

Ma ritorniamo a Maurilio, dove lo avevo lasciato?
Ah si! Era arrivato al pascolo.
Un pò sopra al grande prato, vi era una roccia piatta sotto ad un bell'albero di Acacia. Il cappello dell'albero faceva da riparo al sole, e i rami di color dell'oro erano così belli a vedersi che erano una gioia per gli occhi. La posizione dava vantaggio per riuscir a vedere tutto il verde, senza il pericolo di perdere una sola pecora, né di farsi sfuggire dove andasse l'altro.
Maurilio arrivò li e si sedette un pò impaziente. Qualcosa non andava. Non lo vedeva arrivare neanche da lontano.
Guardò meglio. Finalmente eccolo! Lo aveva proprio fatto stare in ansia.

Ma ritorniamo a Vittorio, dove lo avevo lasciato?
Ah si! Stava arrivando al pascolo, cercando di fare più in fretta del solito, perché oggi era un pò in ritardo.
Sperava che l'altro non se ne fosse accorto.
Non so se ve lo avevo già detto, ma un pò sopra al grande prato, vi era una roccia piatta sotto ad un bell'albero di Acacia. Il cappello dell'albero faceva da riparo al sole, e i rami di color dell'oro erano così belli a vedersi che erano una gioia per gli occhi. La posizione dava vantaggio per riuscir a vedere tutto il verde, senza il pericolo di perdere una sola pecora, e con il vantaggio di farsi scorgere da lontano.
Vittorio si sedette tutto trafelato vicino a Maurilio, che era li da un pò.
- Ho avuto paura che non giungessi. - disse Maurilio - nonostante tu abbia nozione che è cosa assai importante, lo fai sempre. Un giorno è il pecorino. Un giorno è un morso in più. Quell'altro non si sa più il perché arrivi che io son già arrivato.
Vittorio annuiva come a volersi scusare, come se quella lezione fosse l'ultima che Maurilio gli avrebbe dato, perché da adesso non ce ne sarebbe più stato bisogno.
Dovevano essere uguali, se volevano continuare a vivere.
- 1… 2… 3… Vediamo almeno se ci sono tutte… 7… 8… perché un'altra sorpresa oggi non la reggo… 14… 16… 17… Cos'è quella? 18… E' nera!

Va bene ora mi fermo. Lo devo fare perché vi vedo lì tutti a ganasce spalancate, che non capite cosa stia succedendo; e a dir la verità neanche io bene li capisco quei due con la loro strana idea.
Maurilio e Vittorio in realtà erano la stessa persona, però non una ma due distinte.
All'inizio si chiamava Maurilio Vittorio, poi un giorno mentre giocherellava a tirarsi le dita per farsele schioccare, si tirò l'indice così forte che sbalestrò Vittorio fuori da se stesso.
E patatrac, adesso ce n'erano due di lui.
Avere due di sé permette di vivere due vite, poter vedere il mondo il doppio delle volte, e magari scoprire che è più bello con gli occhi dell'altro te.
Ma a Maurilio, che in quell'istante pieno di entusiasmo si accorse che avrebbe potuto avere una seconda vita, venne il dubbio sin da subito che come quello era uscito, prima o poi sarebbe potuto rientrare.
Che il destino poi alla fine le cose se le va a riprendere.
Forse facendo passar sotto silenzio la cosa, magari il fato non ci avrebbe badato.
Quindi si stipulò il patto.
- Per non far accorgere la vita della nostra situazione, ogni nostra azione, decisione e visione del mondo dovrà essere la medesima. Mangeremo ogni giorno lo stesso cibo, daremo il medesimo numero di morsi al pecorino, impegneremo la giornata con lo stesso mestiere e il nostro bestiame sarà di 18 belle pecore candide, che daranno una lana bianca come la neve.
Questo spiega un pò di cose, e per Maurilio vedere la diciottesima pecora nera come la notte fu come esser colto da improvvisa malattia, perché adesso l'ago della bilancia pendeva più da un lato che dall'altro.
Vittorio che dei due era quello un pò più per l'appunto sbalestrato, cercò di metterci un arrangio alla questione, e cominciò a spiegare.
- La povera mia diciottesima pecora, che la chiamavamo nerina per gli occhi troppo scuri, ieri al rientro è finita giù nel fosso. - piagnucolava Vittorio - Che io gliel'ho spiegato che i passi son contati, che la strada doveva essere la solita battuta. E per l'appunto a far di testa sua è finita giù dritta nel burrone. Così ne ho preso un'altra dal mio buon vicino, quella che mi pareva la migliore, pagandola così a peso d'oro che adesso la cinta ce la dobbiamo stringere di almeno otto fori.
Maurilio non credeva a quelle parole, non riusciva a capire perché l'egli stesso sbalestrato fosse così allocco da non intuire la gravità del fatto.
- Ma quella è nera! Mio caro Vittorio.
- Ma l'ho chiamata bianchina per riequilibrare!

Ed eccolo li tutto insieme Maurilio Vittorio, che benché fossero due si ostinava ad esser solo. Il danno era fatto.
Ora qual'è la soluzione se hai trentacinque pecore bianche e una nera, e non vuoi darlo a vedere al destino?
Ai due lì per lì non venne nulla in mente, poi l'illuminazione e Maurilio disse:
- Le tosiamo tutte anche se siamo fuori stagione! Così la pelle bianca di ogni pecora si confonderà con quella dell'altra, tornando ad esser tutte come fiocchi di neve.
I due si misero di gran carriera sulla via del ritorno e giunti alle loro abitazioni attigue, presero le cesoie e cominciarono a darci di mestiere, prima che la vita si accorgesse di quell'arrangiar la situazione.
E una, due, tre, sedici, venti, trenta e trentacinque la nera, tutte quelle le andarono a spogliare.
Ma ogni pecora ha la pelle come la sua lana, scura come la notte o candida come la neve.
Maurilio rimase con un palmo di naso, continuando a pensare che per guadagnarsi una seconda esistenza, avrebbe dovuto riarrangiare i danni di Vittorio il se stesso sbalestrato. Senza purtroppo considerare che ogni fiocco di neve che da lontano sembra uguale, visto da vicino svela la sua natura particolare.

sabato 5 novembre 2011

Adorno duca di Villa Due Pani - (carte estratte: 12 13 9 - tiraggio di Mauro G.)



Io, me medesimo Adorno duca di Villa Due Pani, nella mia persona più intima, rivendico esser impiccato secondo le norme che moderano da tradizione specifica gli atti di morte svolti da ogni singolo membro della mia famiglia.
Poiché la mia persona discende da genia di consapevoli appesi, incasso con questa che formalmente vengano effettuate le singolari procedure, acciocché la mia dipartita accada in guisa conforme a costume.
La corda alla quale affiderò il sottile mio collo dovrà essere di canapa e lino in proporzioni eque. Intrecciati a mano i trefoli, dovranno essere in numero pari. Nove saranno i giri dei correnti attorno ai dormienti, per evitar condizioni a scorrimento fallace.
Non saranno le mura del castello né il dirupo a sostenere il mio carcame com'è d'uso, ma reclamo ch'io venga affisso a ramo di albero di quercia; che la forza e robustezza che ha rinfrancato il mio intero essere, mi sia di appiglio nell'istante del mio ultimo fiato.
Ho realizzato per l'intera mia esistenza un nutrimento puntuale e morigerato, sicché venga evitata la decapitazione da tensione estemporanea, ma si possano rompere in sequenza la seconda, terza, quarta e quinta vertebra cervicale.
Sottoscrivo come ultima mia volontà questa, poiché in me vive la sicurezza che chi ha saputo viver correttamente ha nel diritto di saper dipartire.



Fu così che Adorno duca di Villa Due Pani decise di andarsene. Non che avesse commesso nulla da meritarsi cotal fine, fu solo che così decise.
Per linea familiare egli faceva parte di una casata molto lodevole nel prender coscienza dell'ultimo respiro, e pertanto gli vennero concessi tutti quelli che ai più, potevano sembrare solo cavilli.
La cerimonia fu solenne, con corda di canapa e lino in proporzioni eque, trefoli pari lavorati a mano, giri e quercia tutti a puntino e anche la decapitazione fu evitata; ma vi si presentò un solo errore, perché benché seconda, quarta e quinta vertebra cervicale si sbriciolarono all'istante, quando la corda si tese fu risparmiata la terza.
Ora a dire il vero chiunque in quella condizione si sarebbe arreso comunque alla morte, ma il duca Adorno era così cocciuto da non morire.
Con la testa a penzoloni dal cappio che gli cingeva il collo, egli cominciò a sbraitare contro i valletti che avevan preparato la cerimonia.
- Ma come diamine può esser successo! Ho passato notti e giorni dinnanzi a calcoli e statistiche.
I valletti provarono a farlo calare dal ramo, ma egli si rifiutò con decisione.
- Non se ne parla neanche! Ho un buon nome da far rispettare, e la morte deve sopraggiungere secondo tradizione. Rimarrò qui appeso sino a quando anche la terza vertebra non si sarà decisa a seguire le sorelle sue.
Adorno quindi rimase lì penzoloni per almeno nove lune, ma nulla accadde, perché sembrava che la terza vertebra fosse più cocciuta del padrone; e in questo tira e molla con in mezzo una corda, pareva non vi fosse vincitore.
Chi passava dalle parti della quercia ormai si era abituato a veder quel tizio ciondolante come un prosciutto a stagionare, che lanciava grida a tutto spiano inveendo contro quel solo osso che non lo voleva lasciar andare. Si dondolava, si dava slancio, tirava e solo Dio sa come riusciva anche a saltellare, ma sembrava non esserci rimedio a quella lunga attesa.
Il ramo a cui era stato impiccato Adorno dimostrò così di essere il più robusto della quercia, come egli e la sua vertebra cervicale; e proprio quel singolo braccio di legno divenne ben presto il problema, perché le offerte per comprare il solido bastone dell'albero dell'appeso cominciarono a salire.
Si, perché al di là di qualsivoglia attesa, quella quercia aveva un padrone che dal legno si pagava il vitto, e quando si trovò a dover far coricare l'albero per farne materiale da costruzione, al duca non andò proprio giù di veder infranto il suo sogno di morir da impiccato nella regola dei suoi avi.
- Qui non vi è rispetto neanche per un moribondo con il collo ripiegato! Ma giammai taglierete la corda che mi tiene maledettamente appeso alla vita.
E così infatti fu.
L'albero, come da suo destino, fu abbattuto per poi esser tagliato in blocchi, assi e tavole.
Con quel ramo ci venne costruita l'anima di un bell'aratro per lavorare i campi, con attaccato ancora il duca Adorno di Villa Due Pani.
Al nobile non parve vero di aver in realtà migliorato così tanto la sua condizione. Eh si, perché ora forse ce la poteva fare a farsi sbriciolare quella vertebra, visto che i buoi che tiravano l'attrezzo erano così forti, che di sicuro non ne sarebbe uscito vivo.
Per ben tre stagioni intere, Adorno solcò la terra attaccato a quell'affare, aggrappandosi alle pietre più pesanti che riusciva a raggiungere, per aumentare a dismisura la tensione della corda.
Cercava di dosare le forze per evitare la decapitazione, che di sicuro lo avrebbe portato al creatore, ma l'avrebbe fatto uscire fuori da ciò che si era proposto di fare.
L'aratro per il tanto lavoro si consumò rapidamente e dopo altrettante stagioni fu dismesso, e destinato a diventare qualcos'altro.
Del pezzo a cui egli era appeso ne fecero il bastone di un vecchio.
Quale sventura fu quella, molto peggio di non esser morto, perché quel raggrinzito, camminava così piano che chissà quanto tempo e vigore gli ci sarebbe invece voluto per tirare bene il collo di Adorno trascinandolo in così pacata maniera. Che se neanche i buoi c'erano riusciti!
- E muoviti cariatide! Che qui c'è del lavoro da fare, non è guardando le farfalle che mi si sbriciolerà la terza vertebra cervicale.
- Mio caro duca, io ci metto dell'impegno invero, che non ci sarebbe cosa che più mi renderebbe felice al mondo saperla morta perché io gli ho tirato dabbene il collo. - disse il vecchio - Potessero queste braccia avere il vigore di un tempo, lo farei tosto. Io ho vissuto l'intera vita per dare una mano al prossimo.
E passo dopo passo, anche se per ognuno ci volevan ore, il vecchio vi si impegnava davvero a provare a tirar definitivamente il bavero al signore.
- Ma chiedo venia caro duca, perché proprio da appeso avete deciso di lasciar questo mondo? Non si poteva far in modo migliore?
- Io son appeso per linea familiare. - rispose il duca che cominciò ad elencare - Mio padre morì appeso per scelta sulla forca nella piazza principale. Il mio nonno buon anima si fece attaccare al pennone della caserma militare. Bisnonno e trisavolo un sul castello e l'altro appeso alla cattedrale.
E continuò così per almeno altre tredici generazioni all'incontrario.
- Vedi vecchio, morire da impiccato è ciò che definisce chi io sia.
- Ora mi è chiaro. - disse il vecchio - e se è ciò che veramente volete, so come farlo accadere.
Il duca accettò all'istante, così finalmente si sarebbe potuto realizzare.
Il vecchio prese un coltello e cominciò ad intagliare il suo bastone, dove ancora vi era appeso il duca adorno di Villa Due Pani, e con le industri mani trasformò quel semplice pezzo di legno che prima era stato aratro, che prima era stato ramo, che prima era stato albero, che prima era stato seme caduto da un'altra quercia, in un flauto.
Ora il duca era appeso ad un bel flauto di legno di quercia, e appena il vecchio soffiò nello strumento ed una nota prese il volo, la terza vertebra cervicale con uno schiocco si sbriciolò all'istante, lasciando lì il cocciuto Adorno con un sorriso.


Io, me medesimo, ramo dell'albero di quercia, nella mia lignea persona più intima, rivendico di andarmene da questo mondo in una forma che non sia quella del nonno del padre di mio padre; poiché io possa trasformarmi in vento e suono, così che anch'io infine mi possa davvero realizzare.

domenica 30 ottobre 2011

Tutte le parole dei sogni - (carte estratte: 13 18 5)



Seduta su una sedia accanto al focolare, stava una vecchina con in grembo un pargoletto.
Poiché l'innocente, turbato da latrati lontani non riusciva a prender sonno, ella cominciò a raccontargli una novella.
Conosci tutte le parole dette nei sogni?
La morte se ne guarda bene dal raccontartele, poichè solo lei vuol sembrare la padrona della notte. Ella conosce tutte le parole che nei sogni vengon dette, e se la mattina al risveglio ci fai caso, hai solo un vago ricordo smozzicato dei luoghi al di là degli occhi chiusi.
La signora del trapasso è anche però una gran chiaccherona, e facendo fatica a tener per se cotal segreto, decise di condividere il fardello con il popolo dei lupi, che a quel tempo eran capaci di ascoltare e parlare. Questi però, per aver sentito troppo, furon condannati al silenzio in modo alquanto singolare: la morte per tener ben cacciate le parole in fondo alla gola degli animali, li costrinse a cibarsi solo delle mani dei morti, così che quelle falangi tenessero ben salde le loro ganasce impedendogli di rivelare.
Chi conosce tutte le parole dei sogni, può vivere nel mondo dei riflessi, e la morte continuava a voler esser solo lei quell'unica.
Da quel momento si diede così un bel da fare a staccar mani a noi poveri mortali. Fino a che il lupo, sempre più si abituò a quel sapore cominciando ben presto a prendere il vizio di cacciar l'uomo.
Ma tra i lupi alcuni erano convinti che il segreto dovesse esser condiviso, e questi divennero cani, per poter stare vicino all'uomo senza impadronirsi però delle sue mani.
Da noi le uniche che ricevono, sono talvolta quelle delle carezze e del dar loro da mangiare; per alcuni invece sono quelle delle botte.
Ma ai portatori del segreto non importava, e per protegger l'uomo dalla caccia della morte, decisero di perdere da soli la facoltà di parlare.
La vecchina diede dei piccoli morsi alle mani del piccolo che ormai aveva chiusi gli occhi.
E se di notte senti un cane abbaiare alla luna, sappi che in quel preciso istante sta gridando nella sua lingua particolare tutte le parole dei sogni; sapendo così di non rischiare. Perché ormai l'uomo, a discapito di quel sacrificio, ha smesso di comprender le parole che non sono le sue proprie.

sabato 22 ottobre 2011

I bottoni del sant'uomo di Villafranca - (carte estratte: 1 5 10 - tiraggio di Ilaria B.)



Si dice che la storia capitata nella piccola chiesa di Villafranca, ebbe a sovvertire per cinque giorni ogni ordine naturale delle cose; tanto che chi era di spirito curioso e poco religioso si recò puntuale alla messa e chi era solito trovar conforto nelle parole del curato, in quei giorni vi si tenne invece piuttosto alla larga.
Bizzarra considerazione rimane, che anche se qui siamo in odor di santità tutto ebbe inizio nella bottega di un sarto un pò maldestro, che di ago e filo stava cominciando appena a capirne i principi. Ad egli, che si chiamava Innocente, era stato dato in opera di dover confezionare una bella casula verde che sarebbe andata indosso al curato per la messa del giorno a venire.
Innocente che come dicevo era poco più che un giovinetto inesperto, a forza di dar battaglia alla sua professione, si ritrovò di lì a poco a combinare un bello strappo proprio sul collo della veste. Cosa fare, che tutte le stoffe aveva finite, ed era senza neanche una moneta in eccesso per comprare della valida fettuccia?
Gli venne così la brillante idea di arrangiar quella situazione con un bottone bello in vista, proprio al centro del collare, che facesse un pò da spilla e un pò da minuzia ornamentale; che se vuoi nascondere un errore per bene, non v'è cosa migliore di mostrarlo come un vanto o un gioiello.
Scontato è che io ammetta che l'idea fosse bella, ma il sarto era così mal pagato e povero, che di bottoni nel cassettino dei bottoni non v'era rimasto più neanche l'odore.
Decise così che per metter rammendo a quella lacerata situazione si privasse egli stesso di uno dei bottoni che teneva indosso.
Staccò allora un orfano a penzoloni dalla sua camicia leggera e lo mise proprio dove lo voleva mettere. E quanti complimenti gli fece il curato per quel singolo in bella mostra, che di casule così particolari non ne aveva mai viste e data una misera moneta al sarto se ne tornò alle sue pecorelle smarrite.
Ora il curato, proprio nel bel mezzo della sua liturgia, quando stava per celebrare la mensa del Corpo di Cristo con vino ed ostie sull'altare, cominciò all'improvviso a farle fuori per bocca una dopo l'altra manco fossero fette di buon salame. E ci diede dentro con tale gusto, che più di un buon sorso di vino del calice sacro lo aiutò a mandar giù; e tra il clamore generale dei fedeli, il curato noncurante continuò a prodigarsi in parole e apprezzamenti su quanto fosse buono quel pane, andando avanti così tanto che finite le ostie, a pancia piena concluse con un bel rutto. Tanto fragoroso fu l'apprezzare che il bottone dal collare volò via fino a giungere oltre l'ultima fila di fedeli.
Cominciò così un altro giro per riparare la Casula verde che di bottoni adesso ne aveva uno in meno. Il sarto sentita quella storia arrivare alla sua bottega prima del curato in persona, si preoccupò ben bene di far sparire la moneta che gli era stata data, per non rischiar così di perderla per le ire del sant'uomo.
Ma di astio non ve ne fu, tanto che pareva che sul curato neanche fosse rimasta un ombra di quello che era successo.
Innocente si accordò così per il rammendo e diede appuntamento all'uomo per la sera.
Ora visto che della moneta non ne voleva perder neanche un grammo, decise di usar un'altro bottone dei suoi per porre rimedio allo strappo, e gira che ti rigira, fini a usare il bottone che gli reggeva i calzoni.
Il giorno dopo, alla messa c'era già la fila lunga davanti al portone, che tutti i curiosi seppur privi di un Dio volevano vedere il curato pien di umana passione.
E come voi forse avete già intuito, che se il primo bottone che era sulla pancia aveva dato gran voce all'appetito del curato, quello del secondo giorno si occupò di soddisfare ben altri appetiti, mettendo in gola e poi tra le parole del santo ciò che di più un uomo di chiesa dovrebbe disdegnare. E nel momento più alto di un orgasmo, quando come Dio ti puoi permetter di creare, il secondo bottone saltò via con un balzo finendo ben lontano dall'altare.
- Ah! Ma come veste bene questa Casula verde col bottone! Peccato solo che si debba sempre far riparare, ma voi sarto che siete uomo di buon mestiere, so di per certo che mi riuscirete a soddisfare.
E Innocente incredulo, senza considerare bene quanto un sol bottone potesse spostare l'asse del mondo, mise sulla casula quello che soleva abbottonare sul taschino vicino al cuore. Il terzo giorno il curato ebbe solo parole d'amore, ma di un amore che andava al di la delle pagine dei suoi testi.
Perché furono parole di passione che se tennero definitivamente lontani i fedeli da quei luoghi sacri, seppero incendiare le valvole cardiache di tutti quelli che si erano riuniti dai paesi in cui era giunta questa storia.
Va da se che anche alla fine della terza funzione il bottone saltò via.
Il sarto che nel mentre aveva imparato il riproporsi consueto della questione, già dietro all'altare stava ormai pronto con il quarto bottone, che l'aveva recuperato da un asola del cappello.
Fu così che il giorno seguente, il curato fece di quei ragionamenti fini e popolari che definitivamente scatenò le ire del suo ordine, che venuti a sapere della questione della chiesa di Villafranca, si decisero a mandare un loro padre per verificare e porre fine alla questione.
Io a dire il vero non so dove Innocente il sarto prese il quinto bottone, ma quello che si dice e che quando l'uomo dell'ordine giunse il quinto giorno a varcar la soglia del portone, si ritrovò di fronte un uomo santo che aveva imparato a parlare a tutte le persone.
E se è vero che al sarto ormai cascavano braghette, camicie, cappelli e borsettine; è altresì vero che il quinto bottone prese dimora fissa sul collare della casula del curato della chiesa di Villafranca.

sabato 8 ottobre 2011

Le parole del maestro - (carte estratte: 19 13 5 - tiraggio di Nadia S.)



Tra tutte le novelle vi posso assicurar che questa è quella più vera del vero, perché non si tratta di metter in scena personaggi nati solo da mia fantasia, ma di riportar ciò che ho visto ieri con questi mie occhi.
Vi era un uomo santo che parlava attraverso ciò che diceva la gente, dalla sua bocca non usciva mai una singola parola, ma era solito dire sempre il vero.
Egli era un moro dalla pelle d'ebano, vestito di rosso, che chiedeva una moneta per dar risposta a tutte le domande che gli venivan fatte.
Attorno alla sua santità si era detta ormai ogni parola conosciuta e molti dubitavano che ciò fosse vero, eppure ogni singola persona che aveva avuto modo di toccare con mano la sua profonda saggezza, ne era venuta fuori cambiata e nuova di pacca.
Stavano all'alba due fratelli sulla riva di un fiume, che per abitudine e carattere si davan sempre contro, e se uno diceva che il mattino ha l'oro in bocca, l'altra - che era femmina - gli rispediva indietro uno sbadiglio, per dimostrare che dalla sua cavità non cascavano monete.
Anche a loro erano giunti i racconti di chi aveva visto all'opera il santo, e se lei mossa da curiosa reverenza lo voleva veder arrangiare l'alma di un qualche poveretto, al fratello di contraltare faceva sorridere solo l'idea di vederlo cascar per terra.
Decisero quindi che quel giorno sarebbero andati a cercare il santo, per vedere se aveva da snocciolare qualche risposta anche a loro.
Nella piazza principale, un pò in disparte era seduto il moro. Non stava su una sedia gestatoria, ma su una pietra piatta accostata alla fontana più grande del paese. Le persone gli si accostavano e si sedevano, attendendo che egli finito di contemplare il mercato da quella posizione, si alzasse al momento buono per condurre chi aveva bisogno di risposte alla verità.
Un uomo magro magro sino all'osso, si avvicinò e si sedette tra gli atri. Il santo allora si alzò, camminò sino al poveretto e gli tese la mano per avere la moneta, poi fece segno a quello di seguirlo.
I due si avviarono verso il mercato.
- Santo! Signore voi siete santo! Io ho un male che non può essere guarito, un male che mi porta ad una morte certa, subitanea, spietata. Mi dia la vita! Come devo fare per guarire ora, adesso.
Io ve lo avevo detto che il santo parlava attraverso la gente, e non diede nessuna risposta a quella domanda, continuò solo a camminare, andando là dove vi era un groviglio di corpi che si accalcavano per tirare il prezzo migliore sulle merci.
- Venghino, venghino signori, che questo è il posto giusto per trovare ogni cosa.
Non si capiva nulla in tutta quella confusione, che il povero malato dovette cominciare a urlare nell'orecchio del santo per sovrastare tutte quelle grida.
- Messo di fronte a morte certa, non so più chi sono, cosa devo fare?
Ma li era tutto un'intreccio di frasi sconclusionate
- … 12 anni fa…
- Mamma andiamo a vedere…
- ... di trovare un rimedio che mi arrangi del denaro…
- Mezza strega, come fai?
- Non mangi niente!
Avete presente quando siete immersi nella folla? Sembra quasi che vi sia un'unica armonica melodia che viene salmodiata sotto forma di brusio, e come un canto ha a volte degli accenti dove qualche parola si fa strada da sola. Un mozzicone di frase. Un racconto masticato.
- Io devo sapere come poter fare! Voi che siete santissimo tra tutti, voi sapete il vero, ed io devo sapere, voglio sapere! Ve ne prego, guardatemi non vi faccio pena?
Fratello e sorella che avevano assistito sin dall'inizio a questo soliloquio da dietro le spalle dei due, tendevano l'orecchio per sentire quali parole diceva o non diceva il santo, spintonandosi a vicenda per dare ragione ognuno alla propria posizione.
- Voi scegliete quello che vi piace di più signora…
- Ne ho di tutti i colori…
- Al mercato ci vengo solo per curiosare un pò!
Il povero malato, cominciò ad incalzare per avere la risposta per cui aveva pagato il peso di una moneta.
- Santo, ditemi come fate? Come riuscite a conoscere sempre la verità?
- Signori! Signori non spingete, ce n'è per tutti se avete pazienza…
- Santo uomo siete voi! Ma non capisco, non dite niente? Io credevo che mi avreste aiutato!
- Se mi date le vostre misure, posso tagliarvi un vestito con la stoffa verde che avete scelto.
- Parlate maledizione! Voi non siete un santo! Voi credete di poter piegare la volontà delle persone! Approfittatore!
- Mia cara dama, se passavate poc'anzi, vi avrei potuto soddisfare. Purtroppo di quella mercanzia ora non ne ho più per voi.
I fratelli che avevan continuato a porgere l'orecchio per tutto il tempo, per pena vollero difendere il malato, e contro quel falso santo che non aveva invero tutte le risposte, gridarono all'unisono:
- Voi siete solo un impostore!
E come tante volte accade con perfetto tempismo, che quando a tavola nel brusio generale tutte le voci dei commensali per un istante si chetano all'unisono, quella singola frase si erse nel silenzio.
Il moro si voltò, e con grande calma, porse le mani ai due, consegnando una moneta per ciascheduno.
Poi si allontanò con andatura lenta, lasciando dietro a se il povero malato, che quasi come se si fosse fatto pietra, ad occhi spalancati non distolse lo sguardo dai due fratelli, poi disse:
- Me ne vergogno di aver finto malattia, ma speravo che per pena mi dicesse quale fosse il suo segreto di conoscer sempre il vero.
E così tutti ebbero la loro risposta.

sabato 1 ottobre 2011

Tutti i mali del mondo - (carte estratte: 16 15 13 - tiraggio di Federico F.)



Sono le pieghe delle lenzuola la causa dell'insonnia, che se invece di sentire quell'orlo premer contro pancia e coscia potessi semplicemente scivolar per superficie liscia in un sonno calmo, ci sarebbe tanto da guadagnare.
Ma il problema rimane proprio quello e tu per quanto tiri da ogni lato, non trovi scampo alla situazione, con risultato di aver trasformato quel lenzuolo in carta straccia.
Così tante erano le pieghe che Ferdinando aveva impresso nel suo letto, cha da ben sedici giorni non chiudeva occhio. Ma quando finalmente l'orbita si era fatta così pesante che gli sembrò di cadere giù dal letto, un "toc toc toc" lo rimise in piedi.
Ferdinando infilate le babbucce, con la candela in mano andò a vedere chi fosse all'uscio, quando solo due rintocchi aveva suonato la campana.
Oh per misericordia!
All'uscio si parò dinnanzi il diavolo, che appena l'uomo scostò di poco la porta quegli ci infilò le unghie rapido ed entrò in casa come il soffio freddo della notte.
- Buonasera Ferdinando.
- Buonasera signor Diavolo, data l'ora immagino sia cosa importante e improrogabile.
Ferdinando era sempre gentile, conosciuto tra tutti per i suoi buoni modi.
- Ah certo! L'importanza è presto detta, fatemi prego cortesia con la sola vostra presenza, sempre se non disturbo.
- Ci mancherebbe, prego si accomodi al mio tavolo. Le posso preparare una tisana calda per darle maggior conforto?
E in questa situazione, Ferdinando dovette rinunciare al letto, collezionando in altro modo una nuova notte con gli occhi a palla.
E mentre il diavolaccio gliela raccontava bella e lunga, il nostro pover'uomo schiacciava ventotto erbe in tisana.
- Si, caro Ferdinando, perché pensavo che a volte anche io dovrei seguire il vostro esempio: voi vi comportate bene con la vita, avete buone maniere, siete figlio rispettoso, di grattacapi non ne avete da smaltire.
E mentre il diavolo continuava a raccontargliela in lungo e in largo, come fosse norma, con la calda tisana di Ferdinando ci si lavava il culo e il fallo. Non gli si poteva dar torto del resto: la tisana era davvero rinfrescante.
Arrivò così la mattina, e quando il gallo cominciò a cantare, il diavolo salutò il pover'uomo che neanche quella notte chiuse occhio.
Ma perlomeno il letto non era stropicciato non avendoci posato le membra stanche per nemmanco un'ora.
La notte successiva Ferdinando disse:
- Questa volta non mi faccio più fregare, se all'uscio vedo il diavolo non gli apro.
Tirò bene le coperte e per non farvi nemmeno una grinza, vi scivolò dentro piano piano e non si mosse se non solo per respirare.
Toc, toc, toc.
- Questa volta, lascio perdere, se è lui faccio finta di dormire.
Toc, toc, toc.
Ferdinando andò alla porta per vedere chi ci fosse di fuori, ma vide solo un uomo magro magro fino all'osso.
- Bene! Non è il diavolo.
Così aprì la porta.
- Buonasera Ferdinando, sono la morte. Mi spiace disturbarvi a quest'ora della notte, ma è cosa assai importante.
Ferdinando allora lì per lì, dispiacendogli di far torto a quella che stava li fuori al freddo mezza ignuda, la fece entrare.
La morte si accomodò per bene sul letto e vista quella coperta senza manco una piega, chiese a Ferdinando se la potesse usare.
- Sapete Ferdinando, quando uno è così magro come me per costituzione, gli viene sempre da patire il freddo.
- Non fate complimenti cara morte: riscaldatevi.
E il nostro, alzò la coperta sulle spalle di quella, che disse.
- Ero li che pensavo, ma il Ferdinando è proprio una brava persona, che mi dispiacerebbe incontrarlo solo il giorno in cui dovrò portargli via la vita.
Ferdinando non poté far altro che pensare, che anche in questa notte non avrebbe chiuso occhio, perché da come quella era partita a raccontare, pareva cosa lunga e assai complessa.
- Si, perché tutti pensano a me come una persona che quando arriva toglie solo, si porta via la vita, la gioia, i sogni e le speranze. Ma alla fine anche io son come loro, che la notte ho anche freddo, mi vien fame due volte al dì e non posseggo altro se non una falce e un paio di mutande. E poi sono espansiva, mi verrebbe voglia di chiacchierar con tutti per ore.
Oh santa pazienza che devi avere con la morte! E Ferdinando per scaldare quella magrezza incompresa e dargli corda, gli fece vedere come si faceva a preparare la tisana, proprio come quella che aveva fatto la sera prima: ventotto erbe in acqua calda.
La morte fu soddisfatta, sentendo come quella gli scaldava le membra, e la mattina dopo salutò Ferdinando che recuperata da terra la coperta stropicciata, uscì a sua volta di casa con il sonno addosso.
- Non si può proprio più dormire! Questa notte alla morte, mi dispiace non gli apro; che benché siano interessanti i suoi argomenti, quella parla tutta fino al alba senza smettere.
E infatti arrivata la notte Ferdinando non aprì alla morte, perché lo fregò di nuovo il diavolo.
Che se uno si è preparato bene a difendersi su un fronte, dall'altro rimane sguarnito e cade in confusione.
La notte seguente poi non aprì al diavolaccio, ma alla morte. ormai quelli sembrava si fossero dati appuntamento alterno, e un giorno l'uno e il successivo l'altro riuscivano sempre a tener sveglio quel pover'uomo con le loro questioni, e per ben quattro anni egli non chiuse più occhio.
Ma una sera del quarto anno, che era bisestile, si presentò all'uscio prima la morte e subito dopo il diavolaccio.
Questi due che erano andati in confusione per quell'anno particolare, al ventinove febbraio non sapevano bene cosa fare e se l'uno pensò di ritardare di una notte, quell'altro per non sbagliarsi ragionò di anticipare.
Ferdinando a quel punto non sapendo proprio cosa fare, li squadrò per un pò dalla finestra.
- Mannaggia! Che questa volta mi ero ben preparato a non aprir né all'uno né all'altro, ma che venissero insieme non lo avevo considerato.
E aprì anche quella notte.
Ma per abitudine ormai, quei due sapevano cosa fare, e se la morte aveva imparato a preparare e servire la tisana tenendosi la coperta sulle spalle, al diavolaccio bastava solo riceverla per lavarsi poi le chiappe.
Ferdinando se ne rimase li senza nulla da fare, così si sdraiò sul letto ormai di lenzuola e cominciò a russare.