venerdì 26 agosto 2011

Dante - (carte estratte: 18 8 20 - tiraggio di Davide S.)



Girando di piazza in piazza, devo dir la verità, di storie ne ho narrate tante e altrettante ne ho collezionate; ma tra tutte quante, quella che mi appresto a raccontarvi a breve, di sicuro può fregiarsi del titolo di questione assai complessa.
Ma vi avverto sin da adesso, seguitemi con attenzione tra tutte le parole, perché a chi farà errore vedrò cader la testa.
Dante era solito girar di villaggio in villaggio, perché era un cantastorie.
Con il suo strumento incantava ogni piazza in cui sfilacciava le sue trame, manco fossero il filo che spunta dal maglione, che se tirato a dovere ti lascia in mutande in una sola mossa.
Egli era così bravo con le parole, che prima o poi tutti li lasciava in mutande.
Dante faceva il contadino ed era felice così, passava le sue giornate a seminare, a raccogliere e a lavorare la terra.
Aveva anche un pollaio di cui andava molto fiero, tanto che il suo miglior gallo, alla festa di paese, di premi ne aveva vinti almeno uno per ogni piuma che portava sulla coda.
Per scherzo a quel gallo, Dante aveva messo nome Dante.
I polli di Dante erano i più buoni di tutta la contea ed egli li vendeva a caro prezzo ai mercanti.
Dante fra tutti i cuochi del regno era quello più appassionato e nella sua osteria non c'era mai silenzio, si mangiava e cantava, e il buon vino esaltava i sapori che lui con gran maestria sapeva mettere in fila.
Egli era convinto che la materia prima fosse tutto perché un buon piatto riuscisse bene, e aveva così a cuore l'onestà del macellaio che gli vendeva la carne, che a lui dava da mangiare senza mai chiedere nulla in cambio.
E poi sarà stato segno del destino, ma anche quest'altro si chiamava Dante e soleva dirgli:
- Ricordati Dante, che qui tra Danti ci si intende!
E i due ogni volta che pronunziavano questo scioglilingua, scoppiavano a ridere.
Dante sul banco della sua macelleria al mercato, vendeva solo i polli migliori della contea, certo gonfiava un pò i prezzi ma era sicuro di non fare torto a nessuno; che se ciò che è troppo buono "non ha prezzo", di sicuro a fare un prezzo, meno di quello che "non ha" egli faceva.
Dante per stare sul sicuro comprava i polli di Dante, che non so se ve lo avevo già detto, ma egli possedeva anche un gallo che aveva vinto tanti premi quante erano le piume della sua coda.
Al mercato quel giorno c'era un pò di agitazione, perché si era sparsa la voce che la sera ci sarebbe stato in piazza lo spettacolo di Dante, un talentuoso cantastorie.
Dante quando venne l'ora del pranzo decise di andare all'osteria, e guarda te la fortuna, vi ci trovò Dante che intanto accordava il suo strumento; che a suonar con la pancia piena è tutta un'altra storia, infatti poco prima Dante gli aveva servito un pollo di Dante.
Al che quando si seppe che quello era il prodigioso cantastorie, subito tutti gli chiesero di farsi raccontare una storia.
Dante disse:
- Una storia val bene un pollo!
e Dante fu subito d'accordo.
Cominciò così la storia di Dante.
Dante andava in giro per il mondo e a camminar tanto gli venne fame, ma nelle tasche aveva così poche monete che invece di mangiarsi un gallo, dai suoi piedi colse e poi si cucinò un callo.
Proprio sul callo, Dante disperato entrò nell'osteria gridando:
- Mi hanno rubato il gallo!
Eh si! Perché la notte prima, qualcuno si era intrufolato nei luoghi che sono privati di Dante e il gallo da lì aveva trafugato.
Subito nell'osteria si fece un gran silenzio, chi poteva esser stato così vile a far sparire il gallo?
Certo ognuno aveva i suoi buoni o cattivi motivi, ma tra tutti chi è che aveva più ragioni di far torto a tutti gli altri?
Dante sapeva che fine avesse fatto il gallo, perché lo aveva preso lui per i suoi scopi, e gli sovvenne proprio in quel momento, che in piena notte aveva pensato:
- Se sono abbastanza scaltro nessuno capirà mai che ho preso io il gallo.
Per venire a capo della faccenda, di sicuro ci voleva qualcuno che fosse al di sopra di ogni questione.
Dante che ormai da una vita controvoglia faceva il giudice, caso vuole che quel giorno fosse proprio all'osteria e in quattro e quattro sedici, si vide costretto a portar tutti in tribunale, per venire a capo dell'intreccio.
Dante fece resistenza per andare in tribunale perché proprio non gli andava, Dante invece pensò che fosse giusto, perché anche se di cose ne aveva tante da fare in quel giorno, era anche un bene che la verità venisse a galla.
Dante incalzò facendo tante accuse, mentre Dante si difendeva; ad un certo punto anche Dante, che stranamente fino a quel momento era stato in silenzio, si alzò in piedi e ne disse quattro a tutti.
Improvvisamente Dante si accorse di qualcosa e gli fu tutto chiaro, così disse a gran voce:
- Il gallo l'ha rubato Dante e con le piume che son tante, quante i premi che il gallo stesso ha vinto, ci si è fatto un capello per essere il più bello.
Era vero!
Come era stato possibile che nessuno sino a quel momento se ne fosse accorto?
Perché Dante per tutto il tempo, aveva portato in testa un copricapo di piume nere di gallo dai riflessi verdi.
Ora era tutto chiaro, Dante in persona fu portato al patibolo, perché gli vollero tagliar via la testa sulla quale aveva portato il copricapo per tutto il giorno.
Il boia levò la scure e poi calò un colpo secco e la testa di Dante rotolò giù dagli scalini; ma da quel collo diviso con precisione sbucò subito dopo un'altra testa, manco fosse la coda di una lucertola, che il boia con prontezza di riflessi ristaccò di netto.
E ve l'avevo detto io all'inizio della storia, che chi non si sarebbe districato tra tutte le parole gli si sarebbe staccata la testa.
Ma neanche il tempo di fare questo ragionamento, che da quel collo sbucò fuori un'altra testa.
E il boia pronto staccò la nuova testa, poi la nuova ancora e quella dopo, e le teste furono ancora tante che faccio fatica a raccontarvele tutte, ma diciamo che furono almeno una per ogni storia che vi posso cantare e una per ogni piuma nera che il gallo portava sulla coda.

domenica 21 agosto 2011

Dove nasce l'arcobaleno? - (carte estratte:10 21 19 - tiraggio di Gianluca F.)



Sin da bambino, aveva sempre desiderato conoscere l'origine dell'arcobaleno.
Con i suoi sette colori se ne stava fisso lassù a contemplare il mondo, tirava fuori la testa dopo ogni temporale, e per incorniciare l'orizzonte aveva sempre tempo.
Poi crebbe e cominciò a cercare.
Ma voi ci pensate che nella vostra pancia ci sono così tanti metri di intestini?
Che sotto la sottile pelle, metri di vene sono così ordinatamente arrotolate e intrecciate, che a metterle in fila ci vorrebbero troppi passi per camminarci intorno in un sol giorno?
Beh! Anche il mondo è così, un misto di gomitolo e matassa che a districarlo tutto mettendolo poi in linea sarebbe impresa ardua.
Gustavo aveva cominciato da piccolo, un pò per gioco camminando intorno a casa, a immaginare che sotto i suoi piedini ci fossero tutti e sette i colori dell'arcobaleno, e che ad ogni suo passo potesse tingere la terra che calpestava.
Dopo ogni temporale, nel cielo compariva quell'arco colorato che tanto lo affascinava e lui con il naso all'insù, stringeva con forza gli occhi a fessura come a volerlo imprimere con maggior convinzione nella sua memoria.
Aveva cominciato a districare una teoria su di esso: forse quando la pioggia lavava per bene il mondo rendendolo lucido, quello che vedeva così in alto era il riflesso dei colori dei suoi piedini.
Gustavo continuò così giorno dopo giorno ad accarezzare con i suoi colori ogni angolo che riusciva a raggiungere, perché se fosse riuscito a colorare tutto il mondo avrebbe potuto ammirare un arcobaleno senza confini.
D'apprima camminava girando intorno alle cose, poi ne riempiva gli spazi vuoti salendoci sopra, da quei primi tentativi se ne era dovuto inventare di tutti i modi per poter dipanare ogni singolo centimetro percorribile.
Giorno dopo giorno il mondo di Gustavo si colorava un pò di più e dopo aver percorso tutto il giardino di casa, cominciò a colorare la contea, poi tutto il regno, per finire a colorare anche tutti i mari.
Per la strada ci vai dritto, sull'albero di lato in verticale per far bene aderire la pianta del piede alla corteccia, sull'erba colpetti leggeri ad ogni filo così non rischi di rovinarli, nei fossi invece aveva capito che era meglio scendere di schiena e l'acqua la si doveva trattare con particolare cura, perché ha sia una superficie che un fondo.
E il mondo pian piano si svolgeva, strato dopo strato venne sbucciato dai piedi di Gustavo, che calmatosi ogni temporale, guardava soddisfatto la volta celeste che si perdeva sempre più in là oltre l'orizzonte.
- Quando avrò percorso tutto il mondo, l'arcobaleno non avrà più confini, perché il riflesso delle sfumature abbraccerà ogni cosa.
Fatto stà che dopo tanti lunghi anni di cammino per terra e per mare, Gustavo si trovò alla base della ripida parete di un vulcano.
Cominciò come suo solito a percorrerne le pendici tutto intorno, non tralasciando neanche un granello di polvere e sulla cresta ne calpestò la corona intera prima di affrontarne l'interno ormai spento, che scendeva giù a voragine.
Lì dentro si scendeva parecchio, ma la troppa fatica non lo aveva mai spaventato e scese così tanto in basso che ormai il cielo sopra la sua testa era incorniciato in un perfetto tondo azzurro.
Mentre teneva il naso in su per contemplare quello spettacolo, gli capitò di mettere un piede in fallo.
Precipitò per diversi giorni, tanto che ci fece l'abitudine a dormire, mangiare e lavarsi in volo, finché poi non arrivò alla fine del budello che sempre più stretto andava a terminare in una stanza.
Quello era il centro del mondo.
La dentro si sudava parecchio perché faceva molto caldo, il buco da dove era arrivato era stretto stretto che c'era passato appena, poi quando gli occhi si abituarono al buio, si accorse che in lontananza il foro del vulcano era diventato un puntino chiaro, laggiù in fondo.
Si guardò intorno e vide un altro puntino ed un altro ancora, perché in quella stanza confluivano tutti i pozzi di tutti i vulcani del mondo, che a vederli così quei buchini parevano quasi un cielo stellato.
Poi tese l'orecchio e cominciò a sentire tutte le parole del mondo, che l'eco portava sino a quella stanza da ogni direzione.
Gustavo che così tanto aveva viaggiato, ora era in tutti i luoghi del mondo.
Se aveva sonno dormiva, se aveva bisogno di compagnia parlava verso una stella, sicuro che le sue parole sarebbero uscite da un qualche vulcano, e se aveva sete beveva, ma poco poco, perché aveva preso l'abitudine per nostalgia del cielo, di guardare i piccoli arcobaleni che si formavano dall'acqua che evaporava per il caldo del centro del mondo.
Il vapore leggero saliva facendo danzare i colori a mezz'aria verso le stelle, poi lui lo seguiva con lo sguardo oltre esse, per un ultimo saluto.
E ogni volta che Gustavo beveva, dai vulcani di tutto il mondo, si districavano arcobaleni senza confini.

giovedì 28 luglio 2011

L'innamorato volante - (carte estratte: 6 8 0)



Si sa che quando ci si innamora, per le farfalle che nascon nello stomaco, ci si ritrova a camminare a qualche metro dal suolo.
Guido questa cosa pareva l'avesse presa proprio in parola, e quella volta che si trovava in piazza a dichiararsi di fronte alla sua bella, scivolò via dal buco del collo della camicia manco fosse un'anguilla, ritrovandosi nudo a volar almeno quattro metri sopra le persone.
I vestiti rimasero ritti sul posto come se ancora dentro vi ci fosse stato un corpo, e Claretta che era la sua bella, si fece tutta rossa per la vergogna di trovarsi lì di fronte a quei vestiti nudi di Guido.
Al povero giovane che se ne stava in volo là sopra, non gli serviva a niente sbracciarsi per farsi notare, che tutte le persone erano così scandalizzate dai suoi vestiti privi di corpo, che non si degnavano di alzare i loro nasi in quella direzione.
- Ma guarda che sconceria! Presentarsi in questo modo in piazza! E quella povera ragazza, la vuol far morire di vergogna?
Dicevano qua e là tutti quanti.
I vestiti si guardarono intorno imbarazzati, anche perchè quella situazione non l'avevano mai vissuta da svegli; qualche volta l'avevano sognata, ma mai avrebbero pensato…
Ma dicevo, i vestiti nudi in quel modo, per la vergogna proprio lì non volevano stare, così cominciarono a scappare tutt'intorno per la piazza cercando una via d'uscita da quella situazione e il povero Guido in volo non poteva far altro che seguirli come se fosse un palloncino leggero attaccato per un filo invisibile ai suoi indumenti impudichi.
Claretta lì per lì svenne, e Guido che nudo come un verme dall'alto la vide cadere, cominciò a maledire quei vestiti zozzoni, che bellamente si erano messi in testa di crear scompiglio tra la gente.
- Ma che maleducazione!
Arrivarono le guardie e raccattati i fuggitivi, ci misero un pò a capire come infilare le manette agli abiti, che non avevano nè polsi nè mani su cui far presa.
Guido se ne stava lì a mezzaria, a dire il vero, lui avrebbe voluto tornare indietro da Claretta, ma era costretto a seguire un'altra strada perchè i vestiti finirono presto in tribunale.
Con gran sorpresa il giudice, che era una bella signora, si ritrovò davanti i vestiti di Guido e li riconobbe.
Ella qualche tempo prima aveva spasimato per quell'uomo, e di certo non aveva mai accettato di buon grado il fatto che egli pendesse per quell'altra, così si fregò le mani pronta a sfruttar quell'occasione ed esordì:
- Quale motivo vi ha spinti ad uscir di casa stamane senza un corpo? Non avete un minimo di pudore?
I vestiti non poterono replicare, perchè non avevano nè testa nè bocca, e lo stesso Guido da quattro metri sopra, si unì al coro di bestemmie della folla, che accusavan gli indumenti di aver fatto svenire un'anima pura come quella di Claretta.
Il giudice che di fatto sa come rigirar le cose, non fu clemente, e oltre ad accusare quel paio di calzoni, camicia e scarpette rosse, di atto impuro alla luce del sole, gli venne la bella idea di dire che era stato tentato omicidio:
- Perchè mettendo in mostra tutte le vostre vergogne, avete attentato al cuore della povera Claretta portandola presso alla morte.
Ma in cuor suo la donna se la rise di gusto, pensando alla rivale stesa esanime in mezzo alla piazza, tra sterco di cavallo e piedi di villani.
Anche Guido svolazzante fece un bell'applauso: giustizia era fatta!
Ma pian piano, mentre le guardie cominciarono a scortare i vestiti verso la prigione, si rese conto che anche lui era legato ad essi, e la stessa condanna l'avrebbe dovuta subire anch'egli suo malgrado.
Lui che nonostante avesse il pimpirlino di fuori e se ne stava a mezz'aria, non si sentiva volgare come quelli la sotto: loro in galera ci dovevano finire, ma lui cosa aveva fatto per meritarsi questo?
Maledette farfalle dell'amore!
Tra il clangore delle grate della cella finirono tutte le belle speranze di quei vestiti allegri, e al piano di sopra ci fini Guido, perchè quattro metri di distanza erano troppi per star nella stessa cameretta.
Guido così tutto nudo, potè poggiare nuovamente i piedi al suolo, che era freddo ma almeno lo reggeva.
Nella cella con lui c'era un pazzo che non amava assolutamente prendere il tè senza zucchero.
Guido si arrotolò una coperta tutt'intorno, perchè a star nudo a svolazzare, un pò ti viene anche freddo.
Ogni mattina, quando le guardie portavano una certa brodaglia per colazione, era dura sentire tutte le bestemmie che quel folle gridava al loro indirizzo; il povero ragazzo non era abituato a tutta quella confusione e si ranicchiava sotto le lenzuola per fare in modo che gli schiamazzi sembrassero venire da lontano.
- Nel mio tè ci voglio lo zucchero! La vita amara non fa per me!
Il pazzo andava avanti per un pò, poi si quietava dicendo
- Anche oggi lo zucchero lo devo aggiungere da me, un cucchiaino e non di più.
E tutte le mattine quella tiritera.
- Anche oggi lo zucchero lo devo aggiungere da me, un cucchiaino e non di più.
Passarono quattordici lunghi anni, e quella mattina dopo almeno 10 minuti buoni di bestemmie e grida del pazzo, Guido decise di cacciare fuori la testa dalle coperte per dirgliene quattro per la prima volta, ma quello che si trovò davanti lo lasciò senza fiato.
Nel muro della cella vi era un foro grande così tanto che ci potevano passare tranquillamente due persone una al fianco dell'altra, e il buco dava direttamente sulla strada.
Senza parole si guardò intorno e vide il pazzo con un cucchiaino in mano, che raccoglieva dal muro della calce.
Il ragazzo si alzò dal letto, passò oltre il muro e fu libero.
Mentre si allontanava dalla prigione senti per un'ultima volta il folle scriteriato in lontananza urlare:
- Anche oggi lo zucchero lo devo aggiungere da me, un cucchiaino e non di più.

Qualche anno dopo, finita la condanna, i vestiti di Guido furono lasciati liberi, e Claretta che per tutto quel tempo li aveva aspettati non credendo mai alle gravi accuse del giudice, li riabbracciò non avendo più vergogna di loro.

domenica 10 luglio 2011

La peggior storia mai scritta - (carte estratte: 10 6 2)



C'era una volta un cantastorie senza talento, che girava di piazza in piazza per recitare tutte le avventure che nascevano dalla propria penna.
Ma un giorno si convinse che le sue storie, fossero le peggiori mai raccontate.
Beh! da un simile pensiero non può che non nascerne una crisi, e seppur la cosa che lo rendeva più felice fosse raccontare dei suoi mondi, decise di non scriverne mai più.

Depresso però, continuò a girare di piazza in piazza, fermandosi ad ascoltare tutti gli altri cantastorie che trovava di gran lunga superiori a sé.
Il nostro sempre più corrotto dall'invidia, ammattiva su quale fosse il segreto per comporre una buona storia, perché pareva proprio che la sua sola passione non fosse un ingrediente abbastanza importante.
Un giorno, dopo aver subito l'ennesima sconfitta morale, per aver sentito una delle più belle storie mai raccontate, quell'inetto, decise di forarsi entrambi i timpani delle orecchie con la punta della propria penna, per non dover mai più sentire racconti così soavi; ma mentre si mise in disparte in un vicolo buoi, pronto a compier quell'estremo sacrificio in tutta solitudine, la voce di una donna alle sue spalle lo fece trasalire.
- Ma che fai amico? La penna mica parla che te l'appoggi all'orecchio!
Gli disse una donna piccina sbucata da chissà dove.
- Ah! sono un uomo fallito! uno scrittore che a dire il vero non ha mai saputo scrivere… ed ora che l'ho capito, ho deciso di non sentire mai più alcuna storia.
Quella lo guardò scoppiando a ridere.
- Tu che hai un così gran talento hai deciso di farla finita? Son bravi tutti a scriver belle storielline; ma tu potresti davvero scrivere la peggior storia mai concepita se ti ci mettessi d'impegno.

La peggior storia mai scritta? Anche se sembrava folle poteva funzionare! Per lo meno avrebbe eccelso in qualcosa quel poveretto.
Così negli anni a venire ci si mise d'impegno, cercò di creare la più stupida combinazione, sperimentò sul privar di senso i propri versi, rese gli intrecci banali, creò personaggi sciapi, eroi sopra le righe e cattivi poco intriganti.
Ma si accorse che non bastò, così cominciò ad estrarre parole a caso, mettendole in fila e scrivendole in brutta calligrafia, così da non poterne più ritrovare neanche il senso una volta rilette.
E nonostante tutto fallì miseramente, ci passo anni a fare prove blasfeme, standoci tutta la vita ad inseguire il sogno di scrivere la peggior storia mai concepita; ma purtroppo, ironia della sorte, al cantastorie e al suo pubblico, tutte quelle storie continuavano a sembrar fin troppo belle.

giovedì 7 luglio 2011

Le parole non dette - (carte estratte: 11 10 20)



Se ogni singola parola detta in un'intera vita potesse essere posta l'una sull'altra, tutte quelle linee aggrovigliate che si vedrebbero dall'alto, a colpo d'occhio ci restituirebbero l'idea di un'esistenza.
Ella era stata educata alle buone maniere e rispondeva in modo cortese a tutte le parole che le rivolgevano attenzione, e quando anche il suo pensiero fosse stato in disaccordo, trovava sempre il modo di non usar la sua lingua come fiamma.
Quando troppa era la misura che la separava dalla buona intenzione, per evitar che le parole atroci venissero perdute, le appuntava su un pezzetto di carta che poi appoggiava sulla lingua quasi fosse un'ostia.
Così facendo, quella parola che lei non gradiva appartenesse al suo linguaggio, le si andava a depositare in bocca, trasferendone l'inchiostro sulla lingua.
Tanti furono i foglietti che appoggiò in se stessa, quasi in numero pari ai giorni che fino a quel momento aveva vissuto, e parola su parola venne lasciata filtrare, sino a formare una fitta trama di inchiostro indelebile che le aveva quella lingua reso nera.
Ella che per le buone maniere era riconosciuta, dovette cominciare a parlar ponendosi la mano dinnanzi alla bocca, per evitare che quel nero di grotta umida atterrisse il suo interlocutore.
Ma ormai l'inchiostro era penetrato così a fondo tra le vene, che la lingua le andò presto in cancrena ed il dottore dovette porvi fine con un taglio netto.
Su quella lingua vi era la fitta trama di tutte le parole silenziose, che non la si poteva neanche sfiorare con lo sguardo, senza rischiare di venirne mutilato.
Poi quella punta venne sotterrata ed ogni giorno la sua padrona sulla tomba vi portava un fiore, intonando alla sua lingua, soltanto più preghiere senza parole.

mercoledì 6 luglio 2011

Salvo chi sbaglia! - (carte estratte: 13 1 0)



A scuola la maestra lo interrogava sempre, ma non poteva cavarne nulla che non fosse sbagliato.
Sbagliava le parole perchè le confondeva, così che gesso e lavagna diventavan grigiume e arrosto, e tutti giù a ridere per quel difetto che teneva sulla lingua quell'asino bambino.
I suoi genitori poveretti, avrebbero voluto sprofondare quella volta che alla messa, invece dell'ostia, dal ministro di Dio disse di aver ricevuto dei sassi scaccolati.
Il medico sostenne che a mancargli fosse l'intelletto e il bambino fu dichiarato scemo, ma quella parola senza errore e corretta veniva inoculata a lui da tutti gli altri infanti.
E lo so bene me medesimo, che a seguir i suoi discorsi, pazzo sarei uscito pur io che con le parole a vanvera ci gioco e mi diverto.
- Avrei posticipato grazie all'uso essendo avuto.
Voleva sol dir che avea mangiato tre volte al dì.
E solo soletto continuava a rimaner in fondo alla classe, che nessuno nulla volea spartir con esso: perché la lingua slogata, se diventa virale è un bel pasticcio.
Ma un giorno dalle montagne se ne scese un feroce mostro, che sgranocchiava anime per sol diletto e dopo aver masticato ben bene almeno dodici contadini, un prefetto, due signore e mezzo sindaco; giù verso la scuola si diresse.
Tutti i bambini a gridar come matti quando quell'abominio ne spezzò in quattordici pezzetti buona parte, quand'ecco che il nostro scemo gli si parò dinnanzi e cominciò il suo momento.
- Se di strisce io mi raccapezzo, nel pudor mi invento delle mele tutte; non son stato in orzo, ma nella tua mi si rincorre!
Poi proseguì puntando il dito verso il mostro.
- Di fuochi cotti si fa per dire, che legni in fila si può sapere, sempre se la lucertola non vende vino solido! Zam zam!
Che il mostro non ci capì una scarpa al cubo, ma son discorsi che ti fan pensare, così sinceri che ti toccan nel profondo e fece retromarcia senza mai più tornar indietro.
E tutto il villaggio fu in festa, anche se parecchie vite erano state masticate, ma quello scemo si prese una medaglia e fece dei corsi per insegnare a parlare male.
Che devo dire il vero, io di gonfi sandali mi ci cullo l'intelletto e il cuore.

lunedì 4 luglio 2011

I capelli dell'imperatore - (carte estratte: 18 19 4)



L'imperatore aveva così tanti capelli in testa, che se lo si vedeva da dietro potevi persino scambiarlo per un leone.
Era così fiero della sua capigliatura che gli incorniciava il viso severo, da non voler mai portare la corona; affermava addirittura che quei bei riccioli che una volta erano stati d'oro, potevano sostenere da soli tutte le pietre preziose del copricapo regale.
Era per questo che se ne andava bel bello con tutti i preziosi infilati nei capelli.
L'imperatore aveva anche un figlio, che con il peso di avere un padre così ingombrante, non poteva fare a meno di passare tutto il giorno a impomatarsi i gonfi boccoli.
Ma al ragazzo quel cespuglio, a dire il vero, non piaceva affatto, lui era portato alle armi e in cuor suo tra una pettinata e l'altra pensava alle spade, ai cavalli e agli attacchi.
Ma non voleva fare un torto al padre, che ogni volta che lo incrociava, invece di un paterno abbraccio riceveva una qualche carezza sull'ingombrante chioma.
Passò giorno dopo notte e notte dopo giorno, finchè un dì dopo il tramonto, che la luna era già alta in cielo, finalmente arrivò la guerra e il castello fu sotto assedio.
In cielo volavano frecce infuocate e dalle valli l'esercito nemico continuava a radunarsi in massa per violare le mura.
Il principe vide pronta per se l'occasione di dimostrare il proprio valore, ma quell'enorme elmo che il padre tanto si era raccomandato indossasse per non rovinare il ciuffo, non gli faceva fare un buon mestiere, che dirigeva le sue truppe in tutt'altre direzioni a dove gli sarebbe servito.
E allora adesso basta! Perché se anche avesse contravvenuto al genitore, almeno l'avrebbe fatta franca quella notte.
Con una mossa decisa fece volare via l'elmo lasciando a tutti i ricci la possibilità di svolazzare al vento, ma neanche un istante dopo quello slancio di ribellione, una freccia infuocata gli accese il capo come un cerino.
Passate poche ore, l'esercito nemico fu costretto alla resa sotto la furia del principe guerriero dalla testa di fuoco, e mentre l'invasore tornava verso valle di gran carriera, egli ormai completamente liscio in capo come la luna in cielo, non aveva altri pensieri che la delusione che avrebbe dato al padre.
Arrivò poi il giorno e il sole alto nel cielo annunciava l'inizio della cerimonia in onore dell'eroico principe .
Cosa fare per nasconder quel disastro che ora aveva in capo?
Rimuginando sulla cosa, aspettò nelle stanze dell'imperatore, dove avrebbe dovuto incontrare il padre che si voleva congratulare; quando ad un certo punto, vide nella gabbia dell'imperatore il tanto amato pappagallo d'oro.
Così in fretta e furia gli venne un'idea, acchiappò il pennuto che aveva le piume dello stesso colore dei suoi capelli e se lo legò in testa, sperando che il padre non notasse la differenza.
Si guardò allo specchio e si ritenne soddisfatto.
Ma poi pensò: "E se mio padre si accorgesse che manca il suo pennuto?"
Allora tirò fuori un cuscino dal letto dell'imperatore e lo strappò, infilando tutte le piume nella gabbia.
Solo che adesso, quando il padre fosse andato a letto non avrebbe trovato niente su cui poggiar la testa, bel problema.
Allora uscì dalla stanza col pappagallo che reggeva in testa e vide una guardia che si era appisolata appoggiata al muro del corridoio; senza farsi sentire gli sfilò uno stivale, che ripiegato mise al posto del cuscino.
Ma la guardia appena sveglia avrebbe dato l'allarme!
Il principe prese una tovaglia dal tavolo del banchetto in suo onore e ci avvolse il piede della guardia, poi sfilò dal muro del castello file di mattoni che dispose affiancate sulla tavola a mò di tovaglia, al posto dei mattoni mise dei pani di burro, allora i libri andarono nella dispensa fredda, nella libreria ci finirono delle balle di fieno, mucchi di lenzuola ripiegate andarono nei campi, le bandiere presero posto nel magazzino dei domestici, sulle aste issò i cannoni, in armeria mise le botti di vino, in cantina le ruote dei carri, e poi di qua, e poi di là, qui, su, giù, destra, sinistra…
Quando l'imperatore giunse nella sua stanza per complimentarsi con il figlio del successo ottenuto in battaglia, non trovò il giovane, ma constatò che il pappagallo stava bene, che il cuscino era morbido come sempre e che i calzari della guardia erano lucidi e comodi come al solito.
Del principe non si seppe più nulla, ma io che sono narratore onnisciente, vi posso assicurare che rimase per lunghi anni a rimpiazzar oggetti.