sabato 25 agosto 2012

L'altalena del marinaio - (carte estratte: 21 10 8 - tiraggio di Simone C.)



Se io fossi un vero scrittore, vi narrerei di come le assi del vascello gridavano piegandosi, vi terrorizzerei parlandovi del mare buio che aggrediva il nostro nero veliero, vi inchioderei alle panche per evitarvi il destino crudele di chi viene inghiottito in mare aperto dai venti della tempesta; ma poiché io sono un qualsivoglia mozzo, vi racconterò invece cosa ci stava a fare un ragazzo solo, sull'albero maestro, in bilico tra i vortici.
Quello era come me un mozzo (ma tutto intero) che ogni cosa aveva a cuore, perché la marineria era la sua più gran passione.
Non gli importava di doversi spaccar la schiena a pulire i ponti, né tantomeno si tirava indietro quando si doveva montar la guardia tutta notte.
Il mare è luogo misterioso e pieno di pericoli, sotto la cui superficie si raccolgono creature, morte e storie.

Ogni notte il vascello solcava la pece, nel cuore dei Caraibi per conquistar tesori, e il mozzo se ne stava aggrappato all'albero maestro, senza che alcuna corda lo reggesse in quella scomoda posizione; del resto cosa può valere l'ultimo dei valorosi? Un ragazzo che per tanta magrezza le sue cosce insieme potevano entrare in competizione con la sola gamba di legno del capitano.
Quel capitano che con un solo occhio, lo spediva a faticare in ogni dove.
La ciurma era formata di maledetti tagliagole, uomini che di mare ne avevano persino l'odore, che come barracuda si muovevano anche sulla terra ferma, non fermandosi di fronte a niente, pagando tutti con la sola moneta che sapevano contare: il pretendere.
Tutti forti e possenti, tanto che la loro nave era la più temuta: come fosse invisibile, perché il terrore che induceva era così profondo che che anche chi l'avesse vista sulla propria rotta avrebbe fatto finta di non esser attaccato e più di ogni altra cosa, avrebbe fatto finta di non esser mai morto sotto i colpi delle sciabole, convincendosi anche nel momento dell'ultimo respiro, di essere ancora lì in mare aperto, tra le onde quiete.
Non vi è più morto di chi non vuol morire!

Il mozzo era l'unica virgola in mezzo a tutti quei punti fermi.
Magro come un chiodo, senza forza e malmesso, l'unico che aveva davvero l'onere di tenere bene a mente che tra tutti quei terribili era l'unico che poteva morire.
Ma un giorno si scatenò la tempesta.
Arrivò di notte all'improvviso, come un ospite inatteso, cogliendo nell'ultimo istante della veglia sia la ciurma che il capitano.
Io vi ho già raccontato di quanto fossero solidi quegli uomini, di quanto pesante fosse il valore della leggenda che li circondava; tanto che quella, che era la tempesta peggiore di sempre, per loro fu solo una delicata ninna nanna.
Il vento sibilava, spostando l'asse del veliero da babordo a tribordo, come se fossero in un enorme culla a dondolo, così soave che il sonno li raccolse tutti, facendoli cadere addormentati.
Per un bimbo è sufficiente la delicata mano di una madre, che dondolando piano da un lato all'altro il suo bambino, lo lascia un poco tra le braccia di Morfeo; ma qui trattandosi di indicibili e spietati tagliagole, fu questa peggior tempesta ad esser per loro soporifera.

Anche l'uomo più forte nel sonno muore, stroncato da quel dondolio che lo porta così vicino al bordo della nave da farlo rotolare in mare; e come tante botti, tutti quelli, continuavano a rotolare da babordo a tribordo addormentati.
Il mozzo, così debole da esser come noi, che di fronte ad una tempesta non ci addormentiamo ma tremiamo, da quella posizione aggrappato alla cima dell'albero maestro, vedeva i marinai persi tra i dondolii e in un estremo gesto disperato, per salvarli tutti dal mare aperto, si mise in piedi sul pennone sfidando il vento.
Tira e spingi mozzo, come un equilibrista in mezzo alla tempesta, cominciò a controbilanciare da solo col suo misero peso tutta la nave, che ad ogni piegamento ad est, faceva corrispondere un suo tendere il collo ad ovest, per riportare tutti quei corpi addormentati al centro del veliero, lontano dai bordi.
Coma il contrappeso di una lunga bilancia tra la chiglia ed il suo corpo, compì l'impresa più eroica che quegli uomini avrebbero mai potuto vedere.

Ma per loro fu come un sogno nel dormiveglia, lavato via presto dagli occhi la mattina successiva, quando ormai il mare calmo aveva dimenticato la pece e la tempesta.
- Mozzo! cosa fai ancora lì aggrappato al palo? Scendi presto che un nuovo giorno è pronto a raccontar di noi solo, una nuova storia.

E quello, gracile, scese scivolando giù per il legno stringendo le cosce, con tutta la consapevolezza di chi in quella leggenda non aveva messo un punto ma solo una piccola virgola,

giovedì 16 agosto 2012

La minchia del parroco - (carte estratte: 5 21 13 - tiraggio di Alessandro S.)



Quando Don Angelo chiudeva gli occhi danzava.
Danzava allegro, compiendo ampi circoli senza l'abito talare, nudo, libero e fresco; a volte apriva un solo occhio per vedere un po' di fedeli e un po' di danza.
La musica lo aveva da sempre ispirato, tanto che nel punto più alto della sua predica domenicale, con slancio cercava sempre parole nuove per intonare qualche canzone; ed era ormai pratica comune tra i fedeli, seguire le melodie di Don Angelo, senza troppo preoccuparsi di regger in mano alcun librello.
Ma un grosso problema per il parroco venne a galla, il giorno che lui stesso si rese conto di aver “la minchia” in bocca.
Ora non vorrei che da ciò voi intendeste male, perché non si trattava affatto di cosa blasfema: “la minchia” di cui io parlo non è di sicuro ciò che ora voi state pensando, ma bensì la sola parola.
Si perché un giorno, di punto in bianco, senza sapere neppure da dove quella fosse giunta, Don Angelo si ritrovò a dir soltanto: - La minchia!
Come se quella avesse sostituito tutte le sue parole.
Oh Diavolo di un destino birbante!
Così se un fedele si mostrava devoto al padre, cercando una qualche sorta di assoluzione, rischiava di sentirsi dire “la minchia!” dopo aver vuotato il sacco davanti al suo confessore.
Che tragedia!
Don Angelo benché fosse pastore del signore, abituato ad aver confidenza con questioni “da pescatore”, a quel punto non seppe più che pesci prendere e rispondeva solo con un sorriso ed il gesto della croce, dispensando a destra e a manca più benedizioni di quante non ne fossero necessarie.
Ma nella sua testa, la risposta ad ogni domanda continuò a rimanere insistente “la minchia!”.
Potrei scriverlo di continuo: la minchia, la minchia, la minchia...
Più di cento o mille volte non basterebbe purtroppo a  farvi capire, quanto fosse il disagio del pover'uomo.
Ripercorrendo all'inverso il momento in cui si era ritrovato a ripetere per la prima volta quel mezzo mantra ed anatema, si accorse che accadde al terzo giro di danza della domenica precedente.
Lì con gli occhi chiusi, nel bel mezzo della predica ai fedeli, mentre ballava nudo nella testa per trovare parole sincere, si immaginò di far tre belle piroette ed alla terza si volse verso tutto l'imbarazzo che aveva in mezzo alle gambe: la minchia!
Se quando immagini qualcosa tieni gli occhi ben stretti, quella fantasia rimane tua per sempre, ma ad aprir anche solo di poco mezzo occhio piccolino, ogni tua idea si affaccia al mondo.
In quel preciso istante, con un occhio chiuso nell'estasi fantastica e l'altro mezzo aperto per ritrovare il concreto dei fedeli che ascoltavano la messa; quell'immagine fin troppo forte e che fa a pugni con la santità del Cristo, saltò fuori dall'occhio semiaperto per aggrapparsi alla bocca di Don Angelo.
“La minchia!” come conclusione della funzione, benché potesse esser piena di poesia, fu prontamente ingoiata dal prete per non deludere i suoi fedeli.
Ma da quel preciso istante lei cominciò a farsi strada dallo stomaco alla gola, fino a prendere dimora stabile sulla lingua del sant'uomo.
“La minchia” per un uomo di chiesa è un grave problema, che non poteva ancor per troppo tempo stazionare lì senza uno scopo ben preciso e anche se virtuosamente Don Angelo era uscito da quell'impiccio per tutta la settimana, alla predica della domenica, il popolo di Dio avrebbe voluto sentir da lui sante parole.
Giunse così il giorno benedetto e com l'abito talare indosso il prete fece il suo ingresso di fronte ai fedeli.
Sforzandosi così di nulla immaginare, tenendo gli occhi ben aperti per non doversi ritrovar nuovamente troppo libero a danzare; Don Angelo decise che fosse giunto il momento tanto atteso della predica: così cominciò com'era suo solito a cantare.
- Laaaaaa… Laaaaaa... Laaaaaaaa... Miiiiiiiiiinnnn... chiiiiiiiiiii... aaaaaaaaa...
e tutti in coro giù a cantar ancor più forte.
- Laaaaaaa… Miiiiiiiii... nnnnnnn... chiiiiiiiii... aaaaaaaa...
e poi ancora con più vigore, sino a far vibrare per suono pieno i vetri ornati della chiesa.
Così forte che noi tutti, presi dal canto non si bada alle singole strofe, rapiti dalla melodia che armonizza con lo spirito.
Tanto più grande è qualcosa, che si fa fatica a distinguerla, poiché gli occhi son troppo piccoli per trattenerla nel suo insieme.
Così da quel giorno, per Don Angelo e i suoi fedeli “la minchia” divenne della chiesa la più bella canzone.

sabato 28 luglio 2012

Il pagliaccio che non c'era - (carte estratte: 10 12 0 - tiraggio di Nicoletta C.)



Per ogni trapezista, pieno e vuoto fanno la differenza, soprattutto in un numero di abilità senza rete.
Firmino morì per questo, e mentre il suo sangue si confondeva con la terra rossa della pista, poco più in alto sulla pedana di lancio, il pagliaccio guardava suo fratello verso il basso.
Non sapeva che anche lui sarebbe morto quella stessa notte.
Nerina invece, avrebbe fatto sparire il circo due giorni dopo.


I

IL FUNERALE

La morte al circo, risulta più curiosa che nella vita degli altri esseri umani, per la forma bizzarra delle bare.
Immaginate cosa voglia dire seppellire l'uomo più alto del mondo, la donna barbuta con tutti quei chili di troppo, un nano o le gemelle siamesi. Un abile beccamorto non può esimersi dal venire incontro alle esigenze più insolite, ma fortunatamente questo funerale sembrava essere molto più usuale nella forma.
Due bare regolari, affiancate con poco spazio vuoto tra l'una e l'altra, e se non fosse stato per le persone intorno, nessuno avrebbe notato la differenza tra un normale funerale e questo.

Non era morto l'uomo più alto del mondo o le gemelle siamesi che si scorgevano tra gli altri, tutti vestiti di nero e con le lacrime agli occhi; non era morto il nano, che non lo si scorgeva proprio, non era morta la domatrice di leoni, né tantomeno l'uomo lupo, né il direttore.
Erano morti Firmino il trapezista e suo fratello il pagliaccio: alti normali, leggeri quel tanto che bastava per poter volare, giovani e forti.
Un altra cosa che dovete sapere, è che al circo il funerale lo si lascia celebrare al direttore, poiché non serve un parroco che mostri la giusta direzione per andare in cielo, a chi ha passato un'intera vita a volare.

- Poche sono le parole che vorrei spendere in questa occasione. - disse il direttore. - Firmino era amato da tutti, e seppur nel suo nome portasse il seme della pietra che non la si smuove, egli ha saputo levarci i cuori con la sua maestria. Non doveva finire così.

Poi prosegui.
- Firmino è morto per colpa di un pagliaccio traditore, che pare una bestemmia ricordar che fosse il suo amato fratello.

Si, perché dovete sapere che sull'altro trapezio a raccoglier Firmino, il pagliaccio questa volta non c'era, lasciando per un'ultima volta il vuoto sotto alle mani del fratello.
Sembrava tutto tranquillo fino a quel momento, poi quando il pagliaccio doveva saltare sul secondo trapezio per reggere il fratello, qualcosa andò come nessuno avrebbe mai potuto immaginare.
Il pagliaccio rimase immobile sulla sua piattaforma, condannando a morte il fratello.
Per ogni trapezista, pieno e vuoto fanno la differenza, soprattutto in un numero di abilità senza rete.

- Da oggi non ci saranno più pagliacci nel nostro circo, perché non avremo più bisogno di ridere, e perché Firmino non sia dimenticato.

Tutti i mestieranti della compagnia si strinsero tra loro intorno a quelle parole, spalla a spalla come a voler chiudere tutti i vuoti, per fare in modo che non ci fosse aria tra di loro che li potesse far cadere nel dolore.
Ma scostando la testa dalla bara del pagliaccio, mentre posava un fiore sul legno di Firmino, Nerina vide in opposta direzione, che per un attimo, un attimo solo, tra il nano e la domatrice di leoni si era creato un vuoto, largo abbastanza da poterci far stare un uomo ritto in piedi.


II

IL PAGLIACCIO CHE NON C'ERA

Nerina nel suo carro, ripose il coltello tra gli altri normali, dopo averlo pulito dal sangue del pagliaccio: quanto lo aveva amato.
Poi si mise il costume: le prove per lo spettacolo della sera stavano per cominciare. Si affrettò non prestando particolare attenzione al modo di intrecciarsi i capelli, ed uscì per raggiungere il grande tendone

- Questo è il luogo di tutte le meraviglie, tenuto insieme da corde, pali e cuciture, un'opera così ingegnosa da esser essa stessa la più grande attrazione. Eppure nessuno se la ricorda, perché pochi la sanno guardare davvero. Quando il circo non è in città, tutti si ricordano solo di me: il pagliaccio.

Nerina lo guardava ammirata, lo amava tantissimo anche se era la sposa di Firmino, il fratello del pagliaccio.

- In ogni città questa tenda la montiamo e smontiamo. Dove non c'era nulla, ora c'è qualcosa e dove prima c'era, poi non c'è più. E' questa la meraviglia del circo. Anche tu per esempio Nerina, non ci sarebbe meraviglia nel vederti se prima non ci fosse la stessa meraviglia nel non vederti.

Nerina scacciò via questo ricordo, non ne aveva bisogno, soprattutto adesso che stava per cominciare la prova del suo numero: il contorsionismo nella scatola.
Al centro della pista c'era una scatola così piccola che nessuno avrebbe mai detto che dentro poteva raggomitolarcisi un'intera persona, ma prima una gamba, poi l'altra, passando per tutto il resto del corpo sino a far sparire la mano che si portava dietro il coperchio, Nerina sosteneva ogni sera il contrario.
Dentro alla scatola non si poteva respirare, i polmoni compressi sino allo sfinimento, stretti nella morsa della gabbia toracica non rendevano possibile un solo fiato, e tutto quel silenzio prima di tornare fuori era così vuoto per Nerina che la faceva sentire bene, le sembrava di volare in un non luogo senza confini.
Ma appena riemergeva, il boato della folla piena di meraviglia, la accoglieva come aria fresca, e i polmoni si rilassavano.
Alle prove però, quel boato non c'era.
Poco più in là, dove la tenda era tenuta aperta da un nodo, entrò il pagliaccio che non c'era, che sfruttando quel vuoto venne a chiedere di poter lavorare nel circo.


III

27 SEDIE

Il pagliaccio che non c'era, si era preparato bene per quell'occasione: vestito di tutto punto, come vuole il mestiere, si era portato da dove veniva, la sua valigina con gli attrezzi per fare i suoi numeri.
Quando vide risalire dalla scatola Nerina, rimase folgorato dalla sua bellezza, ma essendo un pagliaccio inciampò almeno sei volte prima di poter arrivare fin dove era posizionata la scatola, e a quel punto ormai era troppo tardi, la ragazza era già andata via.

Rimase lì per qualche istante. Non era venuto al circo per perdere tempo in questo modo, quindi si ricompose, prese la sua valigina e andò nel vuoto davanti al direttore, per fargli vedere di cosa fosse capace.
Prese tre palline che non c'erano e cominciò a farle roteare, proprio davanti al naso dell'uomo, che non sembrava prestargli troppa attenzione.
Il pagliaccio che non c'era, interpretò questa reazione come il massimo dello stupore. Eh si! probabilmente quell'uomo era rimasto davvero senza fiato vedendo la maestria con cui faceva volare quelle tre palline e ad ogni giro che ne perdeva una a terra, si abbassava per recuperarla, iniziando ogni volta il suo numero da capo.

Lo so che è difficile, ma provate ad immaginare il pagliaccio che non c'era.
Potrei dirvi che aveva i capelli a punta, le scarpe larghe, il trucco spesso in viso, ma non lo so, perché non c'era.
Il pagliaccio che non c'era si muoveva nei vuoti, in ogni luogo in cui tu ti aspetteresti di vedere in un circo un pagliaccio, ma dalla morte di Firmino in quel luogo di pagliaccio non ce n'era. Così aveva pensato che potesse essere per lui un'ottima opportunità di lavoro.
Per un pagliaccio che non c'era, trovare lavoro in un circo dove i pagliacci ci sono, era davvero un dramma, perché non vi trovava vuoti da riempire.
Ma la grande idea gli era venuta il giorno del funerale, quando il direttore aveva detto che lì di pagliacci non ce ne sarebbero mai più stati: era perfetto!
L'unica ad aver visto quel giorno il vuoto tra il nano e la domatrice, era stata Nerina, che lo aveva emozionato così tanto che lui aveva fatto un passo indietro per timidezza, e in quell'istante il vuoto si era colmato lasciandolo in disparte.

Comunque, il direttore di fronte al numero del pagliaccio che non c'era, non espresse alcun giudizio, non disse un bel niente perché non lo vide mai, e anzi se ne andò via lasciando un bel po' di spazio a quello: allora era stato assunto! avrebbe cominciato ad esibirsi la sera stessa!

Quando non ci fu più nessuno sotto al tendone, perché le prove erano finite, il pagliaccio che non c'era si sentì a casa. Che spettacolo! intorno a lui tutto quel vuoto da riempire con la sua non presenza.
Una campanella annunciava a tutti che il cuoco del circo era pronto a servire la cena, bisognava essere in forze per affrontare la serata, così il pagliaccio che non c'era usci in tutta fretta dalla tenda aperta e si diresse nel cortile sul retro, dove tra tutti i carri in cerchio, si era imbandita la grande tavolata.

Fortunatamente avevano pensato a lui, anche se erano tutti già seduti pronti a mangiare, gli avevano lasciato una sedia vuota: quella di Firmino, che tanto ormai non ne aveva più bisogno.
Quella sera c'erano ventisei sedie tutte intorno alla tavola imbandita, anche se fino al giorno prima erano state ventisette: a quella del pagliaccio assassino era stato dato fuoco.


IV

IL TRAPEZISTA

Quella sera c'era grande fermento tra il pubblico, perché dopo la morte di Firmino, la gente si chiedeva se ci sarebbe stato comunque il numero del trapezio.
Sembrava che non si aspettasse altro, tanto che anche ai numeri più incredibili la gente rispondeva con scarso entusiasmo.
Il pagliaccio che non c'era aspettava con ansia che arrivasse il suo momento, continuava a provare e riprovare negli spazi vuoti dietro alle quinte, a far volare le 3 palline con maestria e grazia, ma quelle continuavano a scappargli di mano una per volta: che inetto.
La piccola scatola era posizionata al centro della pista e Nerina si avvicinò. Calò il silenzio.
- Quella era l'amante del pagliaccio…
Una voce appena percebile.

Nerina aprì la scatola e vi infilò un piede, poi il secondo
- Quel maledetto ha lasciato cadere il fratello per lei…

Incrociò le gambe, e cominciò a scendere verso il nero della scatola, sparendo pian piano nel nulla.
- Firmino l'amava…

Poi il coperchio si chiuse e lei trattenne il fiato.

Il pagliaccio che non c'era, perse contemporaneamente tutte e 3 le sue palline, mentre guardava Nerina che non c'era più, era sparita nel vuoto della scatola, ed era bellissima.
Dentro nessun suono, nessun respiro e nessuno spazio, compressa nel niente, il pagliaccio che non c'era capì che era il suo momento e raggiunto il centro della pista, cominciò il suo numero con le tre palline.
Se lei gli era affianco, lui non poteva sbagliare.
Un, due, tre, perse la prima, ma la recuperò prima che cadesse a terra.
Un, due, una seconda.

- Non riemerge…

Andò avanti, un, due, tre, quattro… inciampò ma non cadde.

- Nessun respiro, nessun rumore, nessuno spazio…
- Non riemerge…

Poi la scatola si riaprì, dentro era nera, sembrava vuota e il pagliaccio la guardò, finché lei non riemerse e la folla scoppiò nel più fragoroso applauso di sempre.
Al pagliaccio che non c'è, caddero proprio all'ultimo giro tutte e tre le sue palline, e mentre lui si inchinò per riprenderle, Nerina si inchinò per accogliere l'applauso.
Rimasero in quella posizione speculare per un attimo.

Poi la gente stupita, guardò verso l'alto, perché era iniziato il numero del trapezio.


V

E' ORA DI TAGLIARE LA CORDA

Lassù, appeso al trapezio vi era il nano, che aveva preso il posto di Firmino nel momento stesso in cui la terra aveva ricoperto la bara del trapezista.
La bara era stata calata con le corde avanzate dal telone, che erano spesse e robusto, tanto da poter sorreggere tutto il peso di quell'addio.
L'altra, quella che nessuno osava neanche nominare, era stata invece fatta cascare nella fossa, come a volersi vendicare fuori tempo.
Ci sono alcune ferite che esistono ancora prima che la lama vi affondi dentro, sono le ferite a custodia.

Il pagliaccio ne aveva una, proprio tra la quarta e la quinta costola, all'altezza del cuore.
Nessun dubbio che fosse una ferita a custodia.
Si accorse di averla il pomeriggio prima della morte di Firmino, mentre dalla cima della collina, si era fermato con Nerina a guardare il tendone del circo.
Anche se sapeva di essere il pagliaccio, a volte avrebbe voluto essere il tendone, non essere così popolare tra la gente, potendosi permettere di esserci o non esserci, sperando a volte di non dover essere così importante.

- Un pagliaccio è sempre al centro dell'attenzione, un pagliaccio non può permettersi di non esserci.
Nerina a volte trovava certi suoi discorsi un po' sciocchi, ma anche lei era un po' sciocca, del resto si era innamorata del fratello di Firmino.

- E se io non ci fossi più? - Gli disse Nerina. - Non staresti male?
Il pagliaccio non rispose, fece solo un mezzo sorriso.
- Se tu non ci fossi più… forse dovrei trovare il coraggio di tagliare la corda per averti tutta per me.

A Nerina non fu chiaro cosa volesse dire il pagliaccio, poi i due cominciarono a ridiscendere la collina, c'erano le prove al trapezio.
Firmino stava controllando le corde.


VI

TUTTO QUELLO CHE SAPEVO, ORA NON LO SO PIU', OVVERO L'IMPORTANZA DEL VUOTO

Il nano, si stava dimostrando un funambolo virtuoso, tutti lo seguivano con stupore: come poteva un uomo così piccolo riuscire a fare salti tanto ampi?
Come se l'altezza fosse una questione importante, ma a ben vedere è il tempo il vero segreto di un trapezista.
Sapere dove è l'altro trapezio, conoscere ciò che è pieno e ciò che è vuoto in un certo lasso di tempo, può salvargli la vita.
Il pagliaccio che non c'era, ancora con l'amaro in bocca per non essere riuscito a completare il suo numero con le tre palline, era affascinato da quei movimenti, ma da lì a poco ad attrarre la sua attenzione fu la pedana di lancio opposta: era vuota.

Forse era quello il suo momento, del resto la situazione era chiara, da un lato c'era un trapezista che non lo era affatto e dalla parte opposta un trapezio vuoto.

Raggiunse così in tutta fretta la pedana, e quando il trapezio vuoto fu di ritorno vi saltò sopra aggrappandosi alla bell'e meglio.
I due erano l'uno di fronte all'altro, ad ogni andata e ritorno, ad ogni movimento sempre più sfasati, perché il tempo che non è materiale sentiva il vuoto del pagliaccio che non vi era appeso, e ad ogni oscillazione la distanza tra i due impercettibilmente si allungava.
Poi il salto.

Il nano volò verso il trapezio vuoto, che ormai era troppo distante per la sua minima altezza.

E per un attimo, ma solo per un attimo, Nerina come il giorno del funerale, vide quello spazio vuoto tra il nano e il trapezio, uno spazio giusto per poterci far stare una persona in piedi.

- Non ce la fa!
Gridò la folla, ma il pagliaccio che non c'era, con uno sforzo enorme afferrò il nano per le mani.

- Non lasciarmi cadere, sotto di me c'è solo il vuoto.
Gli disse il nano.

Da sotto la gente si alzò in piedi ed esplose in un fragoroso applauso, e cominciarono a cantare, a battere i piedi, mentre il nano oscillava nel vuoto con le mani a un metro e mezzo dal trapezio.

Poi qualcosa cadde e colpì il suolo.
Le tre palline del pagliaccio erano scivolate ancora una volta a terra.
Neanche questa volta aveva completato il numero.

- Firmino mi manchi.
Nerina si inginocchiò e sentì in sé tutto il vuoto, non era bastato riempire una ferita a custodia per sentirsi meglio.


EPILOGO

- Pagliaccio che non ci sei… sei proprio negato!
Si disse tra sé e sé il pagliaccio che non c'era, mentre faceva i bagagli per andarsene via.
- Doveva essere la tua grande serata! Dovevi strabiliare il pubblico e invece niente… Gli applausi non son mai stati per te, ma per tutti gli altri.
Chiuse la valigina dopo averci infilato dentro le tre palline.
- Non sei neanche riuscito a conquistare Nerina.

Che strano è il senso di vuoto che può provare un pagliaccio che non c'è.

Poi andò via.
Voltandosi un'ultima volta in direzione del circo.
- Ho proprio sbagliato carriera.

Nerina seguì quel vuoto che passava tra i saltimbanco, le gemelle siamesi, la domatrice, il direttore ed il nano.
Poi quando il vuoto si richiuse capì che ora il pagliaccio che non c'era, non c'era più.
Si alzò ed andò nella sua carrozza, prese tra tutti i coltelli normali quello che era stato sporco di sangue e poi tornò al tendone.
Ne guardò la struttura, le cuciture e tutte quelle corde, poi ne scelse una e la tagliò di netto.
Il tendone si afflosciò su tutti loro, proprio nel bel mezzo delle prove.

- In ogni città questa tenda la montiamo e smontiamo. Dove non c'era nulla, ora c'è qualcosa e dove prima c'era, poi non c'è più. E' questa la meraviglia del circo.

E così da sotto il tendone, trattenendo il fiato come se fosse nella scatola, Nerina regalò a tutti un circo che non c'era.

domenica 1 luglio 2012

Le domande del figlio del prete - (carte estratte: 12 5 6 - tiraggio di Giulia B.)



Gli eventi di questa storia, che altrimenti sarebbero stati molto differenti, cambiarono all'improvviso il giorno in cui il figlio del falegname fece una domanda a suo padre falegname:
- Padre ma voi amate più me, che sono il figlio del falegname o i legni su cui guadagna il pane quello stesso falegname?
La questione che posta così potrà sembrar banale, scatenò una serie di circostanze dalle quali fu difficile riuscirne ad uscire: ogni domanda esige la sua risposta, ed ogni risposta necessita la sua ricerca.
Dovendo andare ad acquistar chiodi per il suo mestiere, il falegname partì per il villaggio riservandosi di dar quella sera stessa una risposta al figlio, ed essendo scrupoloso preferì prendersi del tempo per capire se amasse di più i suoi legni che quell'unico figliolo che gli era rimasto.

Per tutto il tragitto continuò - come ognuno di noi fa con le proprie domande - a rimasticar le parole del figlio, che suonavan tanto inaspettate per un padre che non avrebbe mai voluto dover mettersi a fare paragoni, tra ciò che è il proprio futuro e ciò che quel futuro lo rendeva possibile. Poiché l'artigiano quasi tutti e troppi figli aveva perso a causa della carestia del grano, quell'ultimo che gli era rimasto lo portava come fosse un gioiello nel cuore, e sui legni ci passava il giorno per non dover far mai mancare a quello il companatico sulla tavola.
Per quanto inaspettata possa essere una domanda, la risposta nella nostra società pare sia buona cosa non darla in modo troppo affrettato, che se si dà l'idea di dar giusta importanza ad una questione, si rende ancor più nobile e vera la replica alle orecchie di chi ti ascolta.

- Ma è mai possibile, che mi si chieda se il falegname ami più il figlio del falegname, che i legni del falegname?
E quella se la ripeteva cento volte in testa con la smania di colui il quale deve andare a verificare, tanto che giunto al paese, cominciò a chieder a destra e a manca la medesima questione.
Gli rispose bene a suo modo di pensare il fabbro, mentre egli comprava i chiodi dalla moglie.
- Questione semplice da districare - cominciò l'uomo mentre batteva sull'incudine -  Come può il falegname amare più i legni del falegname, che il figlio che gli chiede se il falegname ami legni o il figlio stesso del falegname?
- E' quello che sostengo anch'io, mio buon amico, torno indietro e glie lo dico io, che come può il falegname amare i legni del falegname del figlio del falegname?
Il fabbro disse:
- Esatto! Il falegname non può amare più i legni del figlio del falegname che i proprio legni: è giusto che ogni buon cristiano ami i legni suoi - continuò il fabbro. - Per fare un caso, saresti in errore a venir qui ad amare il mio cancello, che io che son fabbro non amo i tuoi legni… e figuriamoci i legni del figlio del falegname.

Il falegname pensò che fosse una risposta sensata, poiché non aveva mai pensato neanche per un sol istante di amare il cancello del fabbro: a qual pro inoltre lo avrebbe dovuto fare?
Vagando per il paese prima di rimettersi in cammino verso casa, continuò a pensare a ciò che aveva detto il fabbro, e più pensava che non amava nessun cancello, più per contrapposizione vedeva intorno a sé quanto bello ed utile fosse stato il proprio legno nella società.
Molte di quelle case avevan dentro la sua mano: chi aveva avuto una finestra, chi una porta, chi si era fatto fare uno steccato, chi un mobile, un tavolo o le ruote del carro.
Quanti legni suoi in quel paese: quasi come fossero tanti suoi altri figli.

Benché convinto di aver trovato una buona risposta da dare al proprio figlio, vide la Rosina affacciata ad una delle finestre che egli stesso aveva messo insieme, e volle avere anche da lei un'opinione.
- Rosina! ma secondo te: è giusto che il falegname ami più i cancelli del fabbro che i legni del figlio del falegname?
E tutto questo lo faceva abbracciato alla staccionata della casa (l'amava molto la sua opera).

La Rosina, un po' stranita da quella situazione, cercò di dare una risposta al falegname, che nel mentre si strusciava di vero amore ai legni che per le vie eran sparsi.
- Falegname, la risposta alla tua domanda è presto detta, più che ferro ami il legno di cui i tuoi figli son fatti - alludendo a ciò che l'uomo in quello stesso momento abbracciava. - Dopo tutte quelle morti di carestia, non par vero neanche a te di trovarti con tanta prole.
- Grazie Rosina! Ora è tutto chiaro: il falegname ama i legni del falegname e non i cancelli del figlio del fabbro! Devo tornar subito alla mia casetta per dirlo a tutti i legni che reggono i cancelli dei fabbri. Ma prima me ne vado dal prete che mi voglio confessare. Ho pensato a cose brutte per essere padre, che a certe domande non si deve cercare una risposta, ma la si deve solo dare.
La Rosina di corsa se ne rientrò in casa, perché quello che aveva visto lo doveva subito andare a raccontare: il falegname oltre ad amare i legni con trasporto, aveva peccato tanto che gli era necessario andarsi a confessare!

Le donne cominciarono a parlare, e alla fine la verità venne a galla.
I fedeli a dirla tutta, una cosa così non la potevano accettare.
Eh si! perché quello stesso giorno, fu chiaro che il falegname peccatore andò dal prete per poterlo ricattare, e nel buio della sacrestia, di figli amati si sarebbero di sicuro ritrovati a parlare: e cosa aveva detto il falegname?
Se non sbaglio la domanda era: Ma il prete ama più il proprio figlio dei legni che reggono il cancello del figlio del fabbro, glie la farò pagare?

Per la santa misericordia! il prete nonostante i voti aveva un figlio, e tutti cominciarono davvero a mormorare, tanto che vedendo quello parlar con il falegname capirono subito come erano andate le cose: dovevano salvare il figlio del curato, rapito da quell'immorale.
Seguendo il falegname sino a casa videro che in effetti un bimbo gli venne ad aprir la porta.
- Sembra il figlio del falegname.
- Ma non eran tutti morti i figli del falegname?
- Chetati Bertrando! Facci sentire!
E zitti zitti, da lontano, si misero ad ascoltare.
- Caro bimbo nonostante non sia ancora giunta sera, ora è chiara la risposta alla domanda che mi volevi domandare: io che sono falegname non amo i cancelli del prete, che coi legni del figlio, farebbe cancelli più solidi di quelli del padre del fabbro.
- Ma allora mi ama mio padre?
- Solo il prete lo sa!
E i contadini:
- Visto che è il figlio del prete!
Gli furono addosso prima che il bimbo potesse replicare, sacco in testa con due belle bastonate e figlio del prete salvato dal rapimento.

Il curato a questo punto venne accusato di peccato mortale e immorale, ma a qualcuno venne in mente che sono in due che quel peccato lo avrebbero dovuto scontare: si accusò così la perpetua che al prete aveva svolto il servizio del dargli un figlio.
Quella in tutta questa confusione si difese sostenendo che poiché l'infante aveva ben cinque anni, all'epoca del concepimento lei non era in quei luoghi, avrebbero quindi dovuto chieder bene a quell'altra ex perpetua di confessare: la Rosina!

La corda non si fece troppo attendere, e la Rosina finì anch'ella gambe all'aria nella piazza del paese, insieme a quel prete blasfemo ed al rapitor ricattator falegname.
Giunse così la sera che eran tutti pronti ad accendere un bel fuoco sotto a quei tre polli, e me lo ricordo proprio bene, come se quell'istante si fosse congelato, che il figlio del curato in quel momento fece la domanda che non era riuscito prima a fare al padre.
- Ma cos'è che il prete sa che mio padre non può sapere?

Il fabbro disse: - Ah non lo so! Io so che amo i miei cancelli.
- E' vero! - dissero tutti
- Io amo Bertrando!
Disse la Rosina a testa in giù, e Bertrando cominciò a fare i salti di gioia.
- Io amo tutti i miei figliuoli, quelli morti per la carestia e quello vivo che fa domande strane!
Disse il falegname, ancora appeso a testa in giù.
Fu il momento del prete, che non capiva bene cosa fosse successo e perché si trovasse in quella situazione.
La piazza si guardò tra sé e sé, aspettando.
- Per l'appunto: ma cos'è che il prete sa che non può sapere?

L'uomo di Dio non disse nulla: probabilmente perché eran più le domande che in quel momento si voleva fare, che le risposte che poteva sostenere.

Slegarono tutti e tre, che mica li potevano bruciare senza una buona risposta ad una buona domanda.

La Rosina fini tra le braccia del Bertrando, il falegname tra quelle del figlio, e il prete non finì tra le braccia di nessuno, ma tra gli sguardi di coloro i quali aspettavano una risposta.
E nessuno fu messo più al rogo. Non perché fossero stati perdonati, ma la questione veniva solo rimandata al giorno in cui il curato si fosse deciso a dare una risposta convincente a chi da lui andava, per porre quella sola e singola domanda:
- Cos'è che uno sa che non può sapere?

sabato 23 giugno 2012

Il vascello del Maccaferri - (carte estratte: 10 0 6)



Oltre la piazza, poco dopo le prime due case, c'era un enorme vascello poggiato sui sampietrini, e tutta intorno l'Emilia.
Ve lo dico signori, che pareva proprio strano vederlo in quella posizione, senza un dove che si potesse navigare, né un perché a cui poter attraccare, lì tra le case piantato tra un'àncora e un ancòra… veleggiava immobile quella nave.
Tale fu la mia curiosità nel vedere quell'intrico pesante di legni, corde e vele che cominciai a chieder a chi passava, che ci facesse lì quella.
- Mio buon cantastorie, una cosa così non dovete averla vista mai in tanti anni di carriera: una barca senza il mare.
Mi disse una pienotta rezdora, che tra una risatina e l'altra con l'amica lì vicino aggiunse:
- Il vascello del Maccaferri qui c'è sempre stato, l'ha costruito l'Emilia un pezzo dopo l'altro.
Oibò si stava già svelando il mistero, non mi restava altro da fare che trovare questa signora Emilia, così aggiunsi:
- Ma l'Emilia quella che dà da bere all'osteria, che è sì bella e generosa? O se non ricordo male c'è l'Emilia quella con la treccia… quella che va alla messa senza dirlo al marito… o le sorelle! buone quelle! sempre a fare scherzi: l'Emilia e l'Emiliana la più piccina…
E senza rispondermi quelle due se ne andarono, ridendo e parlottando tra loro, come fanno le donne che si reggono l'una al braccio dell'altra.
Poi si fermarono e una si volse verso di me, dicendomi da lontano:
- L'Emilia messere… - fece un cenno con la mano puntando dietro le mie spalle. - Quella che abita sulla collina: andateci a farle visita, le piace chiacchierare…
E se ne andarono ridendo ancora.

Il vascello del Maccaferri, pensai tra me e me, ma sto Maccaferri sarà il marito dell'Emilia?
Io però questa matassa la volevo sbrogliare amici miei, che vedo già che siete più svegli di me intuendo dove quelle mi avevano indirizzato; ma così come il goloso non può esimersi dall'aver le dita unte, io questa curiosità me la volevo cavare ad ogni costo, e dopo un'ora buona di cammino nell'afa dell'estate giunsi in cima alla collina.
Ridete, ridete pure di questo stolto cantastorie, che io lo feci meno quando realizzai che lassù non c'era l'ombra né di una casa, né di un Emilia, né tanto meno una di quelle sotto cui poter trovar riparo.

Bello scherzo! mi avevano tirato quelle due disgraziate, che non mi stupirei se si fossero chiamate entrambe Emilia.
Da lassù però lo devo dire, il vascello del Maccaferri era maestoso da toglierti il fiato. L'albero maestro svettava oltre i tetti delle case, e tra le finestre di una di quelle intravedevo la polena; e anche se in estate in questi luoghi non si muove foglia, attraverso l'aere che il calore distorce, pareva che le vele si muovessero gonfie.
Il grano nei pressi del paese dondolava piano come le onde, ma nonostante tutto il vascello restava immobile.

Alla fine far tanti passi forse aveva dato i suoi frutti, che se anche non avevo trovato la casa dell'Emilia, un pezzo smangiucchiato di una storia a casa me lo potevo pur portare.

- Dio bono! guarda oggi come naviga lontano il vascello del Maccaferri!
Ci rimasi quasi secco per lo spavento, perché quella non era mica la mia voce né il mio intelletto, e voltandomi di appena una mezza capriola vidi al mio fianco un vecchio pastore, arrivato da non so bene dove e con tanto di mucche al seguito.
- Ieri era solo agli ormeggi, valli a capire tu sti marinai… un giorno a gozzovigliare e il giorno dopo pare che abbiano il diavolo alle calcagna.
Continuando a tener lo sguardo fisso sul vascello lo salutò con la mano, mentre io mi riprendevo dal batticuore. Recuperai il fiato in tempo per chiedergli:
- Chi ha costruito un vascello senza intorno il mare?
- L'ha costruito l'Emilia, un pezzo dopo l'altro.
E con la strana sensazione di recitare un preciso copione chiesi per la seconda volta:
- Ma l'Emilia quella che dà da bere all'osteria, che è sì bella e generosa? O se non ricordo male c'è l'Emilia quella con la treccia… quella che va alla messa senza dirlo al marito… o le sorelle! buone quelle! sempre a fare scherzi: l'Emilia e l'Emiliana la più piccina… di sicuro non quella che vive su questa collina.
Il pastore rise - Tutte quante! ah! ah! ah! l'Elvira li spedisce tutti qui i forestieri. Ecco! allora ti presento l'Emilia...
E fece un giro per abbracciare l'orizzonte, poi aggiunse:
- E' lei che ha costruito il vascello.
- E il Maccaferri? - chiesi io.
- Il Maccaferri c'ha messo solo i chiodi.

Avete mai avuto a che fare con un emiliano?
E' solido, lavoratore e dà tutto per scontato, ma per fortuna è generoso e così cominciò a raccontarmi di come fu messo insieme il vascello.

- La vedi quella punta figliolo? L'albero maestro… una volta da queste parti passò il circo e un fulmine incendiò il tendone. E quella volta che al Codeluppi gli si schiantarono tutte le botti d'aceto? Quante risate. Era così infuriato che le buttò tutte fuori, senza vedere dove andavano a finire.
Il Nanni ci accatastava le sue stoffe di scarto in quella piazza, e le sorelle Donati? A forza di tirar la sfoglia spaccarono più mattarelli di quelli che non tiravano dietro ai loro mariti.
L'Emilia non è di nessuno, senza simbolo e senza bandiera, ma un po' di tutti i popoli che su di essa ci son passati: tante culture sono come tante cose, una sopra all'altra messe così… a casaccio.
E più quegli strati si appoggiavano uno sull'altro e più prendevano la forma di una nave fuor dal mare.
Nessuno scambiò posto ad un solo pezzo. Per anni ed anni si ammassarono, finché un giorno il Maccaferri, che faceva il falegname ed era abituato ad aggiustar le cose, decise di unire tutte quelle idee mettendoci solo i chiodi, e per quanto paresse strano che una cosa così potesse navigare, il primo giorno che si alzò il vento… prese il largo, e tutti noi con lei.

Poi il pastore, mi diede una pesante pacca sulla spalla, che fu più chiara di mille parole.
Mi voltai e tornai a guardare il vascello del Maccaferri, che adesso non mi pareva più immobile.

mercoledì 20 giugno 2012

Ogni fiume dorme nel proprio letto - (carte estratte: 10 20 16 - tiraggio di Erika F.)



Quanto è allegro il fiume mentre scivola via nel suo letto, che ad ogni balzo si ripiega su se stesso come fosse un soffice impasto, ad ogni curva prende brio più vivo del solito, e quando si appresta alla caduta si fa tanto e piccino che lo potresti tenere in una mano: te ne basta una goccia del fiume.Ci avete mai fatto caso che l'acqua chiacchiera mentre si fa strada verso il mare? Mentre si infila tra le pietre floffeggia vocaboli se ci fate attenzione; ve lo potrebbe assicurare Edda, che anche se ha solo cinque anni, con quelle orecchiette lo ha sentito bene.
Edda si auto definiva una guerriera, perché una volta aveva preso una mosca al volo. Devo dir la verità, secondo me era successo così tutto per caso, ma vederla agitare la mano con tanta foga proprio quando ti raccontava l'impegno messo per acchiapparla a mezz'aria, dava una certa autorità alla sua versione.
Ma questa non è la storia di Edda, anche se la narro con una certa convinzione, ricordandomi che dovrei far ora ritorno a cose più importanti di una mosca: vi devo raccontare di questo fiume.
Dicevamo.
Il fiume, che benché fosse sempre in movimento stava tutto il giorno a letto, una bella sera nei pressi del decimo villaggio prima di arrivare alla foce, cadde addormentato. Così senza tanti se, né ma, né però... e si fermò.
Il primo che se ne accorse fu il mugnaio, perché la macina sembrò fare troppi capricci; ma anche le donne chine a lavare i panni ebbero i loro grattacapi, visto che la fase del risciacquo gli venne inibita; per non parlare poi di quel vecchio col setaccio, che invece di andare a cacciare la pesante vanga nella terra in cerca di tesori, si era dato ormai da tempo al pettinare il fiume.
Ne vennero altri richiamati da quello strano fenomeno del fiume addormentato, che fermo e pacioso, congelato in quella posizione pareva davvero rilassato.
E tutti giù a chiedersi perché e per come.
- Quel il fiume era sempre sembrato contento di scivolare verso il mare.
Edda tra tutti quelli, fu la meno esterrefatta, perché a far meravigliare un bambino ce ne vogliono di più belle, mica come questa di un fiume che si addormenta.
Non è normale che dopo tanto gioco si vada a nanna?
Non è corretto infilarsi sotto le coperte verso sera?
Ma a chi la volete raccontare voi grandi, il fiume dormiva perché era stanco.
- Chiamate il sindaco che saprà trovare una soluzione!
Qualcuno gridò tra quelle persone, e il sindaco non si attardò ad arrivare; constatò la situazione di "sta proprio fermo" e chiamò le guardie per farlo pungolare dalle lance; ma il fiume niente, e per tutta risposta si girò dall'altra parte, continuando a dormire della grossa.
Poi di nuovo:
- Chiamate il prete! Che se deve tirar le cuoia, almeno gli si dia l'estrema unzione.
E quando anche il prete fu lì, si constatò che non era necessario il sacramento: il fiume cominciò a russare.
Che russasse lo si intuiva dal gorgoglio ritmato delle bolle, che qua e là cominciarono a scoppiettare.
- Qui va a finire che mentre quello dorme, siamo noi che rimaniamo ritti tutta notte.
E il solito da dietro gridò:
- La banda del paese!
- Come?
- Chiamate la banda del paese, che quando io voglio dormire, loro se ne vanno in giro a far canzoni… e non si dorme… più.
- Bravo!
Applausi.
E tra fiati, corde e tamburi, si cominciò a far tutto il repertorio delle processioni.
Niente da fare, non lo volevano capire che non si fa così per risvegliare un fiume addormentato?
Edda che guardava la sua mano guerriera, fece un passo in avanti guadagnandosi la prima fila da buon soldato, e stringendo il palmo a cono disse agli altri:
- Dovete fare così!
Appoggiò le labbra a quell'improvvisata trombetta e soffiò dentro una ninna nanna all'incontrario.
Nei pressi dei suoi piedini, l'acqua prese il solito brio prima di ricadere di nuovo nel sonno.
- La piccola guerriera ha ragione! Serve una ninna nanna all'incontrario, ma il fiume è così vasto che servirà qualcosa di più di una sola mano.
Edda la grande guerriera, col dito indicò senza esitare verso il paese e a tutti fu chiaro il da farsi, perchè se una sola mano aveva potuto prendere una mosca al volo, tutte quelle centinaia avrebbero portato lì la tromba più grande: la torre della chiesa.
Come strumento si difendeva bene, con i suoi dieci metri di altezza, segata alla base e fatto un foro sulla punta del campanile, fu pronta ad amplificare la voce armonica di tutti quanti.
E la "annin" e la "annan" funzionarono entrambe per benino, tanto che all'alba - anche se a voi potrebbe parer normale - in tutta la valle risuonò quel canto.
Ora puoi andare verso il mare, il mulino può macinare, ci possiamo anche lavare e trovare tesori, possiamo ascoltare le parole tra le pietre, stare sotto alla cascata a prender al volo quella sola goccia che vogliamo prendere.
E da quel giorno il valore di Edda fu finalmente preso in considerazione, senza che si dovette sforzare neanche più di tanto a dar autorità alla propria versione.

sabato 9 giugno 2012

La storia stretta - (carte estratte: 16 20 19 - tiraggio di Antonella Z.)



Stretta è la cinghia, e stretta la morsa del carpentiere, poi venne stretta la mano tra le due famiglie: - L'accordo è preso! I nostri figli si andranno a maritare.
Si perché di storia stretta qui si parla, così stretta che per farla ancor più breve ve la voglio raccontar tutta d'un fiato.

Allora vado a cominciare.

Adalgisa i genitori, la cacciarono a viver nella casa più stretta che fu mai costruita, insieme a quel discreto partito lungo e stretto che si chiamava Aimone, anche lui costretto dai propri genitori. Così stretti dovevano stare, che quei due fecero un figlio per prossimità.
Il pargolo lì dentro proprio non ci stava, e si mise a volare per scappare, ma Adalgisa e Aimone ormai a loro volta genitori, per non farlo allontanare a cuor leggero, lo legarono con un piedino ad una cordicella lunga, lunga, lunga… e stretta.
Volò però lontano il bimbo gonfio, mentre i genitori con la mano dalla finestra gli lasciavan corda, ancora corda, sempre più corda; che dopo aver fatto uno, due e tre giri del mondo, quella si tese e tagliò il creato in due come fosse una mela, passando proprio in mezzo alla casa stretta.
Ah! che liberazione, quanto spazio fuori da quella maledetta e stretta.
Ma il mondo diviso a quel modo aveva preso a girare mezzo in un verso e mezzo nell'altro, come le lancette dell'orologio che solo una volta per giro si ritrovano; e così anche Adalgisa e Aimone sfiorandosi la mano una volta per rivoluzione, cercavan di rimettere insieme quello che loro malgrado ormai era stato tagliato.

Si lo so! questa storia non è più stretta, troppe parole.
Mi devo concentrare per farla più stretta.

Adalgisa e Aimone si ritrovarono a vivere in una casa stretta stretta, così vicini naso a naso che fecero per caso un bambino, che lì dentro non ci stava ma volava; gli allacciarono una cordicelle al piedino per farlo sentire libero quel tanto che basta, ma a forza di circumnavigare il globo legato in quel modo, il pargolo suo malgrado tagliò a metà la storia dei propri genitori.

Lo so avevo detto stretta, ma è difficile poi renderla comprensibile, ma ci provo.

Adalgisa e Aimone nella casa stretta, fecero un figlio volante, ci misero la corda al piedino e quello tagliò lo spazio tra i due genitori.

Così comincia ad esser stretta! Ancora un piccolo sforzo.

A e A tanto stretti, fecero un figlio che volava a tagliava.

Bella, bella! Così mi piace, ma ci voglio riprovare: ZAC!

Perfetta!
Vado in giro a raccontarla così, è essenziale e stretta stretta.
Signori e signori, vi narro la mia nuova novella: ZAC!
Applausi?
Niente!

E come dare torto a tutti quelli che mi sentono, che non possono capire per ristrettezza di parole, cos'è successo ad Adalgisa e Aimone nella loro vita troppo stretta.
Neanche Adalgisa e Aimone hanno capito bene cosa gli sia successo.