lunedì 4 luglio 2011

I capelli dell'imperatore - (carte estratte: 18 19 4)



L'imperatore aveva così tanti capelli in testa, che se lo si vedeva da dietro potevi persino scambiarlo per un leone.
Era così fiero della sua capigliatura che gli incorniciava il viso severo, da non voler mai portare la corona; affermava addirittura che quei bei riccioli che una volta erano stati d'oro, potevano sostenere da soli tutte le pietre preziose del copricapo regale.
Era per questo che se ne andava bel bello con tutti i preziosi infilati nei capelli.
L'imperatore aveva anche un figlio, che con il peso di avere un padre così ingombrante, non poteva fare a meno di passare tutto il giorno a impomatarsi i gonfi boccoli.
Ma al ragazzo quel cespuglio, a dire il vero, non piaceva affatto, lui era portato alle armi e in cuor suo tra una pettinata e l'altra pensava alle spade, ai cavalli e agli attacchi.
Ma non voleva fare un torto al padre, che ogni volta che lo incrociava, invece di un paterno abbraccio riceveva una qualche carezza sull'ingombrante chioma.
Passò giorno dopo notte e notte dopo giorno, finchè un dì dopo il tramonto, che la luna era già alta in cielo, finalmente arrivò la guerra e il castello fu sotto assedio.
In cielo volavano frecce infuocate e dalle valli l'esercito nemico continuava a radunarsi in massa per violare le mura.
Il principe vide pronta per se l'occasione di dimostrare il proprio valore, ma quell'enorme elmo che il padre tanto si era raccomandato indossasse per non rovinare il ciuffo, non gli faceva fare un buon mestiere, che dirigeva le sue truppe in tutt'altre direzioni a dove gli sarebbe servito.
E allora adesso basta! Perché se anche avesse contravvenuto al genitore, almeno l'avrebbe fatta franca quella notte.
Con una mossa decisa fece volare via l'elmo lasciando a tutti i ricci la possibilità di svolazzare al vento, ma neanche un istante dopo quello slancio di ribellione, una freccia infuocata gli accese il capo come un cerino.
Passate poche ore, l'esercito nemico fu costretto alla resa sotto la furia del principe guerriero dalla testa di fuoco, e mentre l'invasore tornava verso valle di gran carriera, egli ormai completamente liscio in capo come la luna in cielo, non aveva altri pensieri che la delusione che avrebbe dato al padre.
Arrivò poi il giorno e il sole alto nel cielo annunciava l'inizio della cerimonia in onore dell'eroico principe .
Cosa fare per nasconder quel disastro che ora aveva in capo?
Rimuginando sulla cosa, aspettò nelle stanze dell'imperatore, dove avrebbe dovuto incontrare il padre che si voleva congratulare; quando ad un certo punto, vide nella gabbia dell'imperatore il tanto amato pappagallo d'oro.
Così in fretta e furia gli venne un'idea, acchiappò il pennuto che aveva le piume dello stesso colore dei suoi capelli e se lo legò in testa, sperando che il padre non notasse la differenza.
Si guardò allo specchio e si ritenne soddisfatto.
Ma poi pensò: "E se mio padre si accorgesse che manca il suo pennuto?"
Allora tirò fuori un cuscino dal letto dell'imperatore e lo strappò, infilando tutte le piume nella gabbia.
Solo che adesso, quando il padre fosse andato a letto non avrebbe trovato niente su cui poggiar la testa, bel problema.
Allora uscì dalla stanza col pappagallo che reggeva in testa e vide una guardia che si era appisolata appoggiata al muro del corridoio; senza farsi sentire gli sfilò uno stivale, che ripiegato mise al posto del cuscino.
Ma la guardia appena sveglia avrebbe dato l'allarme!
Il principe prese una tovaglia dal tavolo del banchetto in suo onore e ci avvolse il piede della guardia, poi sfilò dal muro del castello file di mattoni che dispose affiancate sulla tavola a mò di tovaglia, al posto dei mattoni mise dei pani di burro, allora i libri andarono nella dispensa fredda, nella libreria ci finirono delle balle di fieno, mucchi di lenzuola ripiegate andarono nei campi, le bandiere presero posto nel magazzino dei domestici, sulle aste issò i cannoni, in armeria mise le botti di vino, in cantina le ruote dei carri, e poi di qua, e poi di là, qui, su, giù, destra, sinistra…
Quando l'imperatore giunse nella sua stanza per complimentarsi con il figlio del successo ottenuto in battaglia, non trovò il giovane, ma constatò che il pappagallo stava bene, che il cuscino era morbido come sempre e che i calzari della guardia erano lucidi e comodi come al solito.
Del principe non si seppe più nulla, ma io che sono narratore onnisciente, vi posso assicurare che rimase per lunghi anni a rimpiazzar oggetti.

sabato 2 luglio 2011

Ogni cosa che si solleva - (carte estratte: 0 19 12)



Ogni cosa che si solleva, prima o poi torna in terra, e non importa con quanta forza viene lanciata in aria, lo ridico, torna in terra.
Se tagliamo i rami di un albero, quelli scendono giù, e dalle ferite sulla corteccia, la linfa come sangue trova la propria strada finchè non arriva al suolo.
E così a testa in giù, esattamente in quel modo era appeso un uomo sopra ad una voragine che pareva non avesse fondo, il giorno stesso in cui il viaggiatore giunse sulla sponda.
Il viandante aveva percorso così tanta strada da non ricordarsi neanche quando fosse partito, tanto che spesso gli veniva il dubbio di averlo mai fatto.
Certo, mica che qualcuno di voi ha così lunga memoria da ricordarsi l'attimo esatto della propria nascita.
Camminava da sempre e aveva visto talmente tanti luoghi che faccio fatica a immaginarlo stupirsi di qualcosa, ma a dir la verità credo che quell'uomo appeso avrebbe avuto modo di sbalordire anche lui.
- Cosa osservi viaggiatore?
disse l'uomo a testa in giù.
- Guardo i rami ai quali sei vincolato, osservo i tuoi capelli che si allungano verso il baratro e mi chiedo fin dove potresti arrivare se non ci fosse alcuna terra in fondo a quell'abisso.
L'appeso rivolse gli occhi all'insù, che poi per noi sarebbe all'ingiù, ma proprio la sotto non si scorgeva un appoggio.
- Camminare così a lungo ti ha dato molte più certezze di quante io ne disponga.
All'uomo appeso, una lacrima rigò il volto, ma la strada che percorse fu all'inverso, perché è vero che se noi conosciamo bene il sapore del pianto che ci raggiunge la bocca, ad egli al contrario ne era sconosciuto il gusto; perché la lacrima dopo aver fatto una curva sulla fronte ed essersi trattenuta sulla punta di un capello, si abbandonò al baratro.
Ma quella singola lacrima non cadde, rimase sospesa, in perfetto equilibrio tra la forza che riporta tutto verso il suolo e la brezza che giungeva dal profondo.
Il viaggiatore rimase stupefatto e vide che in realtà non vi era corda che cingesse la caviglia dell'uomo a testa in giù.
Poi molte altre lacrime si fecero strada sul volto dell'appeso, tutte andarono in perfetto equilibrio a disporsi in fila.
L'uomo disse al viaggiatore
- Ci sono ancora molti luoghi che non hai visitato, ti auguro buon viaggio amico mio.
Il viandante si sporse oltre il bordo del precipizio, sentì la brezza accarezzargli il volto, poi distese la gamba nel vuoto sino a trovare con il piede la lacrima a lui più vicina e vi si appoggiò; col bastone cercò la seconda, mentre l'altro piede era già di strada verso la terza che stava un pò più in su.
Quella scala di lacrime lo portò così in alto che da lassù si poteva vedere quasi tutto il mondo e mentre dal di sotto quell'uomo all'incontrario gli donava nuovi scalini, lui fece un bel respiro e poi un sorriso, perché aveva davanti a se ancor più strada di quanta non ne avesse mai percorso.

giovedì 2 giugno 2011

Il naufrago - (carte estratte: 10 0 12)



Nel momento in cui le acque decisero di saldare il conto con il nostro veliero, non ci fu più via di scampo.
L'oceano pareva un groviglio di corde che si stringeva attorno alle membra di un poveretto, tutto intorno alla nave si era scatenato un inferno di pece ribollente.
Gli uomini del capitano cercavano in ogni modo di domare quella bestia, ma tutto era vano, la rotta era persa, la speranza anche, e ogni singola trave cominciò a schiantarsi sotto la furia del mare.
Senza un'ancora non ci si può salvare, senza un punto fermo dove appoggiare i piedi si comincia a sprofondare, e quel mozzo lo sapeva bene, che chi fosse rimasto su quella nave sarebbe stato destinato a non tornare più indietro.
Fu così che spinse fuori bordo il più giovane fra tutti, perché gli si strinse il cuore pensando che quello avrebbe potuto toccare ancora una volta la terra ferma.
Il ragazzo cercò in ogni modo di rimanere a galla tentando di afferrare alla bell'e meglio una qualche trave che potesse fargli da supporto, ma l'acqua rendeva ogni cosa scivolosa, mentre il veliero si piegava su se stesso scendendo nella pece e sparendo prima ancora che il ragazzo potesse sbattere le palpebre.
Poi un dolore lo inchiodò e tutto divenne nero.
D'apprima fu solo silenzio, poi un rumore, e un altro seguito da un altro ancora, sembravano le onde; che per uno finito in mare non dovrebbe esser cosa rara, se non fosse che in mezzo all'oceano, senza una spiaggia su cui infrangersi, non può esserci il rumore del mare.
Il ragazzo aprì gli occhi, tutto intorno a se non più pece, ma sabbia bianca e fina, così impalpabile non ne aveva mai vista.
La sua ancora di salvezza la vide subito, era stata una delle tante travi della nave a fargli da puntaspilli, trapassata fino all'osso dalla sciabola del capitano, e tra la trave e l'arnese c'era la manica del giovane.
Ci mise un pò a liberarsi per tanto che la lama era calata nel profondo di quel legno, ma dopo uno schiocco di schegge il ragazzo era già in piedi a contemplare il riflesso del sole balenare sulla lama.
Ora entrambi i piedi poggiavano per terra e sollevarne uno voleva dire fare un passo, e uno dopo l'altro percorrere un cammino.
Camminando, il giovane, scorse oltre le dune della spiaggia qualcosa che pareva una testa mozzata.
Cominciò allora a correre in quella direzione e vi trovò un ragazzo, un altro, che era stato sepolto ben in fondo nella sabbia, gli spuntava fuori solo la testa.
Il ragazzo gli si avvicinò un pò di più e vide che era ancora vivo.
Subito ebbe paura, perché se quell'altro fosse stato un criminale, liberandolo lui stesso avrebbe potuto andar contro la legge, ma anche egli era appena stato prigioniero del mare e se non fosse per il mozzo, a quest'ora sarebbe stato a far da cibo ai pesci.
Si aiutò con la sciabola per scavare tutto intorno e tirò fuori dalla terra, quasi fosse un seme, l'altro ragazzo.
Il prigioniero sottoterra era stretto da corde che gli serravano tutto il corpo tenendolo bloccato, ma quando fu libero per la gioia cominciò a ballare e a saltare, tanto che il naufrago cominciò a chiedersi dove prendesse tutta quella energia; lui al contrario si sentiva esausto, tanto che non riuscì a trattenere la sciabola in mano che cadde sulla sabbia.
Il ragazzo allora si fermò, si avvicinò e dopo aver raccolto la lama lasciò libero il suo sguardo tutt'intorno, sino ad abbracciare il mondo intero, e dopo aver sollevato la sciabola sferrò il suo colpo più forte, così da tagliar di netto la testa del poveretto, che rotolò sulla sabbia.
Ora non più nella fossa, entrambi i piedi poggiavano per terra e sollevarne uno voleva dire fare un passo e uno dopo l'altro, percorrere un cammino.

sabato 28 maggio 2011

Troppi occhi per l'illuminato - (carte estratte: 18 12 7)



C'era un viaggiatore che girava il mondo per trovar l'illuminazione, ma al suo cavallo mancava un'occhio e non seguendo sempre diritto la strada, fu così che arrivò una sera sulla riva di un lago.
Decise allora di accamparsi li per riposare, ma a notte inoltrata due uomini incappucciarono nel sonno lui e il suo destriero e poi li caricarono su una barca.
Al di là del lago sorgeva un villaggio che era stato assai modesto prima che un padre spirituale vi fece edificare all'ingresso, due imponenti torri che troneggiavano sui lati.
I due iniziati portarono il viandante ed il suo cavallo ancora incappucciati al cospetto del maestro, che disse:
- Ti propongo uno scambio viaggiatore, so che aneli all'illuminazione che io ti posso dare e per questo ti chiedo di farmi dono del filtro che ti tiene lontano dal veder il mondo per quello che è, dopodiché sarai un illuminato.
Al viaggiatore non parve vero di poter trovare la giusta via per così poco, troppo abituato al suo cavallo che non sapeva andare in linea retta, e accettò di dare in dono al maestro gli occhi suoi e quelli del suo destriero.
Cominciò così il rituale per intraprendere il cammino e il bipede e il quadrupede, con ancora il cappuccio calato sulle teste, furono messi a gambe all'aria fino al levarsi del sole.
Quando giunse l'ora, nella piazza centrale davanti a centinaia di adepti senza occhi, il maestro disse:
- Grazie a questa posa mistica, ogni singola goccia di sangue è tornata nelle orbite e rinunciandovi potrete finalmente vedere ogni cosa.
Due discepoli tolto il cappuccio ai nostri, presero dai crani gli occhi così di sangue ricolmi; ma solo tre invece di quattro bulbi, perchè al cavallo già mancava un occhio.
Il servitore che teneva in mano quella singola sfera in quel momento ebbe una gran paura di deludere il suo maestro, che sempre aveva ricevuto occhi in numero pari, così tacque l'accaduto rimuginando su quale potesse essere la soluzione.
Il maestro continuò il rituale:
Ora gli occhi di destra andranno riposti nella torre est e gli occhi di sinistra in quella ovest.
Dopo aver pronunciato queste ultime parole, il viaggiatore e il suo cavallo vennero quindi accettati tra i discepoli del padre spirituale e accolti tra gli abbracci della gente.
Alle torri furono dati altri occhi ancora e i due sinistri andarono a ovest, ma solo uno andò ad est, nelle mani del discepolo, che lì per lì terrorizzato per essere in difetto, nella torre buttò un solo occhio e un uovo sodo per bilanciare.
Ma appena l'uovo cadde in mezzo a tutti quegli occhi, le torri cominciarono a tremare e tutti i bulbi vennero rigettati fuori come quando metti in pancia qualcosa di indigesto.
E avresti dovuto vedere quale pioggia di sferette lattiginose si abbattè sul villaggio, che quelle torri parevano vulcani inferociti.
Occhi da tutte le parti, per le strade e sopra i tetti.
Poi per la gioia e la curiosità di rivedere ancora il mondo, ogni abitante del villaggio si ricacciò in testa due occhi a casaccio; e così io potevo vedere con i tuoi occhi, tu con quelli di un cane, lei con uno blu e l'altro marrone.
Il viaggiatore si accaparrò tre occhi tra quelli che si trovò a tiro, due per lui e uno per il cavallo, e filò via da quel villaggio prima che a qualcuno venisse in mente di volerlo riacciuffare.
Al maestro che sin da bambino era stato in difetto dei suoi occhi, non rimase altro che un uovo sodo.

martedì 24 maggio 2011

La chiamavano "la sirena" - (carte estratte: 1 7 17)



La chiamavano la sirena e viveva senza allontanarsi troppo da una vasca con quattro dita d'acqua, costretta a bagnarsi le gambe ogni qualvolta queste cominciavano a farsi secche.
Fu dopo esser stata una bambina che la pelle delle sue leve aveva cominciato a degenerare in tanti rotolini affastellati, che a vederli non troppo da vicino parevano le squame di un pesce.
La pelle che cascava in balze si era seccata in strati come la base di una candela accesa, rigida come il cuoio doveva essere lavata per divenire un po' più molle.
Ma dicevo, la chiamavano la sirena e in ogni posto in cui si fermava la carovana, venivano a vederla da tutti i luoghi li vicino, e proprio grazie a quella dama il circo faceva sempre il tutto esaurito.
Ah! Perchè dimenticavo, lei era l'attrazione di un circo assai famoso, che tra le pieghe dei tendaggi ospitava acrobati e giocolieri, maghi e buffoni, artisti e zingari lanciatori di coltelli.
Il padrone dei tendoni era un tipo assai curioso a vederlo, mangiato dalla lebbra poco di se gli rimaneva, che negli anni un pezzo dopo l'altro aveva perso quasi tutto il corpo e di volta in volta lo aveva sostituito con qualche oggetto.
Così ora al posto delle gambe aveva due colorate ruote di carro, l'avambraccio sinistro era una delle trombe dell'orchestra, un'occhio il cuore della sfera di cristallo della zingara, la calotta cranica le punte del cancello, e poi le spalle, che dire di quelle, che le aveva arrangiate con due tazze del servizio buono, gli davano un'aria autorevole.
Ora questi aveva anche un fratello, gemello, che li dentro faceva il prestigiatore senza troppo successo, ma si sa che son questioni di famiglia e non lo si può cacciar via solo perchè da un cilindro invece di un coniglio tirava fuori solo patate arrosto.
Teneva una colomba appoggiata sul collo.
Ma tutti al circo ci andavano per vedere la sirena, e dopo i buffoni, i giocolieri e il mago inetto, le luci si abbassavano e al centro della pista appariva la vasca.
Lei li seduta, immersa in quattro dita d'acqua era nuda di fronte a tutti quei curiosi.
Prendeva le sue brocche e si bagnava quelle gambe da pesce e tutto intorno si faceva il silenzio poco prima che lei, la sirena, si mettesse a cantare.
Oh lettore, te lo dico io, che quel canto ti strappava il cuore dal petto, quelle note sciabordavano come le onde del mare, che venivi trasportato senza muovere un passo.
Ogni singolo oggetto appiccicato al corpo martoriato del padrone prendeva a vibrare, dalle stecche del cancello, fino alle ruote che cigolavano, fremito così intenso da far produrre un flebile “la” che soffiava leggero dalla tromba che aveva per braccio.
Ma la sirena non era del padrone, e anche se lui avesse raccolto tutto l'amore che aveva per lei nelle tazzine che aveva per spalle, lei non lo avrebbe mai amato.
Tra le pieghe di quelle gambe solo al mago era concesso accedere, ma ben consapevole che non poteva far torto al fratello se voleva continuare ad avere un tendone sopra al capo, teneva all'occhio di vetro ben celato ogni slancio d'amore verso la donna.
Ma non poteva tenersi tutto il sentimento che aveva ficcato dentro al cuore e i calzoni, che a lungo andare sarebbe scoppiato, troppo carico.
I due segreti amanti affidavano ogni parola gentile alla colomba ammaestrata che teneva appoggiata al collo, compagna nel suo numero di magia.
E quella bianca messaggera ogni notte volava tra la trachea e la vasca, per rendere meno distanti i due.
Ma si sa che un uomo che ha perso quasi tutto del suo corpo è destinato prima o poi a perdere anche il cuore, e una notte che non riusciva a dormire per un suono ammaccato della tromba vide la colomba posarsi sulla vasca.
Nessuno li vide mai più, né il mago né la sirena.
I compagni del circo, dicevano che i due erano finalmente volati via per vivere per sempre il loro amore, ma senza farsi sentire dal padrone, che non avrebbe mai dovuto saperne niente.
E da quel giorno, per ogni spettacolo, in ogni città, tra le tante pieghe del tendone il numero della sparizione della colomba lo eseguì il padrone, che nessuno capì mai quale fosse il trucco di quella dissoluzione.
Ma se tu avessi avuto l'orecchio buono, caro lettore, il frullo di quelle ali lo avresti sentito venire dritto dal petto del padrone.

sabato 21 maggio 2011

I sassolini bianchi di Melindola - (carte estratte: 20 3 8)



E' nella notte che si può scorgere meglio la luce.
Se fosse stato in pieno sole, non è che si sarebbe visto bene il raggio di luce ambrata che si faceva strada dal cielo.
Là nel bel mezzo del campo che quest'anno aveva dato solo troppi pochi frutti, c'era un raggrinzito melo e dalla finestra della casa lo si poteva vedere incorniciato, stretto tra le quattro linee degli infissi che formavano un quadrato.
Melindola se ne stava li a fissare la misera pianta pensando a tutti i debiti che aveva fatto per mangiare, quando pian piano scorse un raggio di luce che veniva giù dritto dalle stelle.
Era come quando in una giornata fosca, tra le nubi si fa strada un filo di sole, ma nello scuro quella lama era più decisa e puntuta, indicava con una certa insistenza qualcosa nel campo.
Lei decise di andare a vedere meglio.
L'aria della notte era impertinente e un po' per quello e un po' per timore, Melindola tremava leggermente.
Dove aveva visto la luce toccare la terra, scorse un sassolino bianco di fiume, liscio e freddo pareva aver poco a che fare con quei luoghi, il corso d'acqua più vicino era infatti a tre chilometri.
Lo liberò dalla terra.
Melindola ritornò in casa e mise il sassolino in uno dei due bauli vuoti che aveva in camera, poi andò a dormire.
La seconda notte, stette nel campo per vedere se la luce fosse tornata, ma nulla accadde.
Scoraggiata e delusa per non aver potuto assistere ad un secondo miracolo, tornò in casa.
Ma appena si sedette nella stanza, proprio come la sera prima, e il melo fu incorniciato dal quadrato della finestra, pian piano la luce ridiscese nel campo ad indicare lo stesso punto della notte precedente.
Li ad aspettarla c'era un nuovo sassolino bianco.
La terza notte, attraverso la finestra, la terza lama di luce le indicò il terzo sassolino.
La quarta notte il quarto, la quinta notte il quinto, la sesta notte il sesto e dopo sei mesi buoni, il centottantaquattresimo fu riposto nel baule.
Ma la notte successiva accadde un fatto che cambiò drasticamente la prospettiva della nostra storia.
Melindola si mise alla finestra fiduciosa di poter andare a raccogliere un altro sassolino una volta che la lama glielo avesse indicato, ed eccola la luce ancora una volta farsi strada dalle stelle.
Lei si portò le mani alle guance perchè una vampa di calore la invase, nonostante trovare sassolini fosse ormai una consuetudine, l'emozione estatica ogni volta era tanta.
E allora... la lama di luce non c'era più.
Tiro giù le mani per la sorpresa, e la lama di luce tornò la ad indicare nel campo.
- Oh bella questa, che stanotte è indecisa.
Lei riprova a mettere su le mani e la lama sparisce, poi giù e su, giù e su, giù e su e fuori dalla finestra c'è e non c'è ad ogni movimento.
Melindola strinse gli occhi per vederci meglio e la lama di luce cominciò a svelare la proprio natura.
Spostava le mani prima veloce poi lenta, in alto poi in basso cercando la posizione e non tralasciando il destra e il sinistra, coprendo con le mani tutto il quadrato della finestra.
Ed eccola lì la lama di luce, che nasceva da un riflesso sul vetro: la candela che rischiarava appena la stanza si rifletteva su una vecchia bilancia a due piatti, appoggiata su una mensola alle spalle della ragazza.
Che scherzo sciocco le aveva tirato una bilancia, che le aveva fatto collezionare centottantaquattro sassolini bianchi.
E infatti quella sera nel campo non trovò nessun altro sassolino.
La mattina seguente, le venne da ridere nel vedere da dietro la finestra quel campo malconcio che in questi mesi le aveva dato solo sassi.
Ma poi come in tutte le notti precedenti, vicino al melo cominciò a scorgere qualcosa, ed era il carro dei tributi con le guardie a bordo.
Da li a quando le sfondarono la porta a calci non passò molto e mentre l'ufficiale leggeva a voce alta le accuse, i militari trovarono sia la casa vuota che i due bauli nella camera da letto.
- Questo non pesa niente, è vuoto!
E poi aggiunsero
- Eccola! si è nascosta in quest'altro.
E via a tirare il baule pieno di sassolini bianchi, che ad ogni curva pareva lamentarsi per lo scrosciare delle pietre.
Così lo caricarono sul carro per andare a giustiziarlo e giunti al bordo del fiume, tre chilometri più in la, in quell'ansa dove era più profondo, ce lo calarono dentro con tale forza che andò in frantumi e tutti i centottantaquattro sassolini tornarono al loro fiume.
Dal baule vuoto venne fuori Melindola, così magra da non pesare quasi nulla, per colpa d'un melo raggrinzito.

domenica 6 febbraio 2011

Quanti sono i mattoni della città d'oro? - (carte estratte: 19 20 4)



Era impresa ardua contare di quanti mattoni d'oro fosse fatta la città oltre il fiume.
Di giorno il sole vi batteva forte e ne rifletteva una luce tale che era impossibile volgere gli occhi in quella direzione.
La notte le fitte nebbie che si sollevavano dalle acque che circondavano la città, la celavano in egual misura allo sguardo di chiunque si sentisse in grado di indovinarne il numero.
Mattone su mattone, strato su strato da sempre la città d'oro – così era stata chiamata in un patetica mancanza di fantasia – rappresentava un enigma per chiunque ne avesse voluto scoprire il segreto.
Era sempre stata là come un sole gemello sulla terra, ne si poteva scorgere il fulgore anche da molto lontano, e se aveste voluto raggiungerla partendo da oltre le montagne, come un faro diurno il bagliore vi avrebbe guidato sino a lei.
Attraversando prima le valli, poi i deserti, oltre i mari e tutte le pianure conosciute, fino al fiume che la separava dalla terra ferma e che le faceva da anello intorno, per voi sarebbe stato un lungo viaggio.
E fu proprio al fiume che due fratelli si ritrovarono per provare a risolvere una volta per tutte il mistero del numero dei mattoni.
Erano gli ultimi discendenti di una famiglia nobile d'animo, che da centinaia di generazioni aveva provato a risolvere l'arcano.
Ma si sa, che la speranza pervade i pensieri di ogni uomo, guidandolo a percorrere inevitabilmente strade già battute.
Sfidare la corrente del corso d'acqua era a detta di tutti un'impresa impossibile, e a dimostrarne questa tesi vi era il fiume.
Ogni tentativo non veniva perso per sempre, anzi veniva riproposto all'infinito agli occhi di chi si impegnava nell'impresa, perchè il fiume che procedeva tutto intorno alle mura era un anello che ruotava sempiterno senza sbocco sul mare, e dalla riva opposta alla città, si poteva scorgere trasportato dalla corrente, ogni singolo marchingegno che avesse provato a guadarlo e ogni singolo animo nobile che vi avesse creduto.
Tronchi di legno legati con corde di canapa, catapulte, trampoli, preghiere e dighe per deviare la corrente, non furono idee abbastanza efficaci per giungere sull'altra riva, e venivano trasportate dalla corrente a ciclo continuo, insiema al padre dei fratelli, al padre del padre, al nonno del padre del bisnonno del trisavolo del padre di quell'altro nonno, che mentre ormai da centinaia di anni sbracciavano in quelle acque per non affogare, cacciavano consigli a chi si apprestava a compiere l'impresa.
Non sempre le frasi che gridavano ai nuovi arrivati sulla riva erano chiare, perchè trasportati dalla corrente, solo per un breve periodo potevano essere seguiti nel discorso.
- Provate con della legna più spessaaaaa...
- Costruite una nave più grannnnn...
- Più in alto! Saltate più innnnn...
E alla fine il nuovo arrivato con il marchingegno messo a punto, finiva inevitabilmente per far parte di questo carosello.
Torniamo dunque ai nostri cari fratelli, che si scervellavano ormai da settimane su quale fosse il modo migliore per superare il fiume, ma gli antenati le avevano provate ormai tutte, che forse sarebbe convenuto esser nato qualche centinaio di anni prima, almeno qualche cosa avrebbero combinato.
Si, in quel caso probabilmente sarebbero finiti nel fiume a galleggiare all'infinito, a dar consigli finchè la voce reggeva, ma almeno si sarebbero levati il fastidio, di essere gli ultimi arrivati senza la benchè minima idea di cosa doversi inventare di nuovo, visto che le opzioni sembravano esaurite.
Allora ad uno dei due venne un'idea, e senza fare troppe parole fece un balzo lungo, cercando di saltare da un oggetto galleggiante ad un altro, come se fosse una sorta di ponte smozzicato qua e là, tanto ormai di legna in quel fiume ce n'era già abbastanza.
Ma fatti 10 balzi, finì tutto bagnato e cominciò a galleggiare in tondo, aggiungendosi al marasma.
E di li in poi gli antenati giù a rimproverarlo.
- Ma non fai attenzioneeeee, il trisavolo del nonno del cugino del parente terzoooo, usò la stessa tecnicaaaaa...
- Più in alto! Saltate più in altoooooo! Che genere di significato credi che abbiaaaaa...?
-Ci vuole più ingengno, l'avevo detto, barche più grosseeeee, tronchi più grossiiiiii...
Il fratello rimasto che per fortuna era sordo, decise di tentare l'ultima, perchè non aveva neanche figli da sperare che si gettassero nell'impresa.
Così si avvicinò all'acqua resa inquieta da tutte quelle cose che vi sbracciavano dentro e cominciò a soffiare dolcemente, delicatamente, piano... piano... sino a chetare la corrente, manco fosse una fiammella di candela e l'acqua fu allora ferma.
Le voci si erano zittite, gli animi si era calmati lasciando strada allo stupore, poi volse le spalle alla città d'oro, perchè sapeva che attraversare il fiume avrebbe generato nuove onde.
Il nonno uscì dall'acqua, il bisnonno del trisavolo si asciugò le mutande, il padre del parente del quinto si strizzò la giacchettina e uno ad uno misero i piedi sulla terraferma, al di qua del fiume.
La città d'oro rimase immacolata, il numero dei mattoni un mistero che alimentò per ancora molte centinaia di anni le dicerie su quanti davvero fossero e tutti gli antenati levarono finalmente le membra dalla gelida corrente.