La chiamavano la sirena e viveva senza allontanarsi troppo da una vasca con quattro dita d'acqua, costretta a bagnarsi le gambe ogni qualvolta queste cominciavano a farsi secche.
Fu dopo esser stata una bambina che la pelle delle sue leve aveva cominciato a degenerare in tanti rotolini affastellati, che a vederli non troppo da vicino parevano le squame di un pesce.
La pelle che cascava in balze si era seccata in strati come la base di una candela accesa, rigida come il cuoio doveva essere lavata per divenire un po' più molle.
Ma dicevo, la chiamavano la sirena e in ogni posto in cui si fermava la carovana, venivano a vederla da tutti i luoghi li vicino, e proprio grazie a quella dama il circo faceva sempre il tutto esaurito.
Ah! Perchè dimenticavo, lei era l'attrazione di un circo assai famoso, che tra le pieghe dei tendaggi ospitava acrobati e giocolieri, maghi e buffoni, artisti e zingari lanciatori di coltelli.
Il padrone dei tendoni era un tipo assai curioso a vederlo, mangiato dalla lebbra poco di se gli rimaneva, che negli anni un pezzo dopo l'altro aveva perso quasi tutto il corpo e di volta in volta lo aveva sostituito con qualche oggetto.
Così ora al posto delle gambe aveva due colorate ruote di carro, l'avambraccio sinistro era una delle trombe dell'orchestra, un'occhio il cuore della sfera di cristallo della zingara, la calotta cranica le punte del cancello, e poi le spalle, che dire di quelle, che le aveva arrangiate con due tazze del servizio buono, gli davano un'aria autorevole.
Ora questi aveva anche un fratello, gemello, che li dentro faceva il prestigiatore senza troppo successo, ma si sa che son questioni di famiglia e non lo si può cacciar via solo perchè da un cilindro invece di un coniglio tirava fuori solo patate arrosto.
Teneva una colomba appoggiata sul collo.
Ma tutti al circo ci andavano per vedere la sirena, e dopo i buffoni, i giocolieri e il mago inetto, le luci si abbassavano e al centro della pista appariva la vasca.
Lei li seduta, immersa in quattro dita d'acqua era nuda di fronte a tutti quei curiosi.
Prendeva le sue brocche e si bagnava quelle gambe da pesce e tutto intorno si faceva il silenzio poco prima che lei, la sirena, si mettesse a cantare.
Oh lettore, te lo dico io, che quel canto ti strappava il cuore dal petto, quelle note sciabordavano come le onde del mare, che venivi trasportato senza muovere un passo.
Ogni singolo oggetto appiccicato al corpo martoriato del padrone prendeva a vibrare, dalle stecche del cancello, fino alle ruote che cigolavano, fremito così intenso da far produrre un flebile “la” che soffiava leggero dalla tromba che aveva per braccio.
Ma la sirena non era del padrone, e anche se lui avesse raccolto tutto l'amore che aveva per lei nelle tazzine che aveva per spalle, lei non lo avrebbe mai amato.
Tra le pieghe di quelle gambe solo al mago era concesso accedere, ma ben consapevole che non poteva far torto al fratello se voleva continuare ad avere un tendone sopra al capo, teneva all'occhio di vetro ben celato ogni slancio d'amore verso la donna.
Ma non poteva tenersi tutto il sentimento che aveva ficcato dentro al cuore e i calzoni, che a lungo andare sarebbe scoppiato, troppo carico.
I due segreti amanti affidavano ogni parola gentile alla colomba ammaestrata che teneva appoggiata al collo, compagna nel suo numero di magia.
E quella bianca messaggera ogni notte volava tra la trachea e la vasca, per rendere meno distanti i due.
Ma si sa che un uomo che ha perso quasi tutto del suo corpo è destinato prima o poi a perdere anche il cuore, e una notte che non riusciva a dormire per un suono ammaccato della tromba vide la colomba posarsi sulla vasca.
Nessuno li vide mai più, né il mago né la sirena.
I compagni del circo, dicevano che i due erano finalmente volati via per vivere per sempre il loro amore, ma senza farsi sentire dal padrone, che non avrebbe mai dovuto saperne niente.
E da quel giorno, per ogni spettacolo, in ogni città, tra le tante pieghe del tendone il numero della sparizione della colomba lo eseguì il padrone, che nessuno capì mai quale fosse il trucco di quella dissoluzione.
Ma se tu avessi avuto l'orecchio buono, caro lettore, il frullo di quelle ali lo avresti sentito venire dritto dal petto del padrone.
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