giovedì 22 settembre 2011

Le maledettissime sette frecce - (carte estratte: 6 3 4 - tiraggio di Leandro B.)



Che cosa c'è di più perfetto se non l'amore, che crea equilibrio speciale tra occhio e cuore.
La incocco lì così come rima facile con quasi sbaglio, manco fosse la settima freccia di cupido.
Si, perché quello che voi forse non sapete è che al dio per eccellenza del sentimento sacro, poco gliene cale di dove va a finire quella punta in eccesso. Che mica si diverte a tirare, egli se ne vuole solo sbarazzare per mantenere l'equilibrio del suo numero: sei.
E si sa che dopo aver ricevuto in dono sul sedere uno di quegli spilli, a noi del razionale più nulla importa.
Mentre il povero Cupido ne fa questione grave perché di frecce nella faretra se ne ritrova sempre sette, tanto che ogni volta ne esce pazzo volendone possedere solo sei.
Sei è un numero bello, un doppio 3 che si guarda in viso. Assorto appunto come due amanti che si completan per sguardo, dove occhio verso occhio crea profondissima coscienza.
- Maledette ancora sette! Che di quella freccia in eccesso me ne ero appena liberato.
Ma niente da fare, e più sulla terra sbucan amanti e più a quello gli viene la bocca storta per disappunto.
Scaglia e amanti, lancia e amanti, getta e amanti…
Incocca infine un'altra settima per levarsela di mezzo. Poi le riconta tutte quante, ma sono ancora sette!
- Sette, sempre sette e solo sette! Questo amore mi trafigge sol la bile!
Sta quello tutto il giorno a gridare, cercando nuove natiche maldestramente da centrare.
Ma forse il trucco per davvero è da scovare altrove, che se chiedi ad un innamorato "tre per tre?" lui non ti risponderà di certo "nove".

domenica 18 settembre 2011

I quattordici strati - (carte estratte: 13 3 4 - tiraggio di Gianluca C.)



Nessuno nasce orfano.
Vi è invece un istante preciso in cui lo si diventa, che fa da lama tra un prima e un dopo.
E se è vero che ogni condizione può esser sovvertita, Geremia aveva trovato allora la sua leva.
Potrei adesso aprire la danza con un "C'era una volta", per poi capitombolare su "un bambino di nome Geremia, che aveva le mani così piccole da non riuscire a tenere quei due sassolini incrostati di fango, trovati tra le pietre tombali il giorno del funerale dei suoi genitori".
Ma cadrei in errore, perchè fu solo molti anni più tardi, che egli cominciò a dimostrare quanto fosse abile a dare forma alla terra.
Il primo strato che tosto Geremia stese, fu il giorno del tredicesimo anniversario. Era crudo ma riusciva a dare un'idea generale della fisionomia: le teste, le gambe, le braccia, i seni per lei, un busto fiero per lui.
Non passò molto, che grazie al secondo strato, colmò con più personalità entrambe le figure. Quando il fango tendeva a sfaldarsi su alcune pieghe, le abili dita di Geremia sapevano arrangiare sempre una soluzione.
Il terzo strato, definì senza ombra di dubbio facendoli fiorire, che si trattava di una donna e di un uomo; e dai cinquanta centimetri si passò nel giro di un paio di mesi, ai sessanta del quarto strato, che li rese stabili.
Il quinto strato fu più difficoltoso perchè si presentò il problema di far essiccare compattando bene la superficie. Il sole poteva aiutare, ma muovere le statue all'esterno richiedeva fatica e ingegno: il peso di quella massa la rendeva una norma assai tortuosa.
Geremia doveva così legarsi un corposo baule sulla schiena e chino sotto quel carico, prima la donna e poi l'uomo, li portava fuori dalla bottega per lasciarli qualche ora all'aria vegliando su di essi.
La superficie ormai pareva solida e le fattezze erano sempre più affini a quelle di veri esseri umani: con ogni vena, pelo e imprecisione della pelle fatti di fango.
Con il sesto strato, Geremia vi si potè cominciare a specchiare: lo stesso suo naso aveva l'uomo, così come l'attaccatura dei capelli; ma il taglio degli occhi era come quello della signora.
Al settimo strato portò in ammirazione per l'intero paese la sua opera, cominciando a girare tutto il giorno con ben due bauli legati alla schiena, non sopportando l'idea di separare i compagni.
La gente li squadrava senza crederci, domandandosi se quelli fossero davvero fatti di solo fango. Persino i colori erano quelli del reale.
Geremia aveva imparato che di terre di diverse sfumature ne è pieno il mondo, e che tutti quei colori che davano vita quasi vera alle sue statue, per differente consistenza schiacciavano col peso quel buon figliuolo. La conseguenza fu che prese ad andare sempre più lento.
L'ottavo strato si pose oltre ogni significato di perfezione e dimensione. Ma dovette rinunciare all'idea di andare in processione, che anche a trascinarsi con le mani, le statue avevano accumulato così tante incarnazioni da inchiodarlo al suolo.
Al nono strato di fango straordinario, quei due colossi presero posto in pianta stabile fuori dalla bottega, perchè i soffitti non avevano dimostrato rispetto né tantomeno vergogna di esser così volgarmente bassi.
- E se voi non capite l'importanza della dimensione, io vi priverò del farvi sentire utili ed amorevoli nei miei confronti.
Da quel momento andò a vivere al di fuori.
Il decimo strato fu quello che gli spaccò di più il cuore, perchè non riusciva a darsi pace per non avere abbastanza da donare alla sua creazione.
Dormiva la notte ai piedi delle statue, e di giorno faceva centinaia di prove per trovare il modo di dar strato robusto alle sue convinzioni, ma fu con l'undicesimo spessore che risolse l'equazione.
Duri come il granito, non avrebbero più dovuto temere nulla, neanche il fulmine.
Il dodicesimo strato eliminò il superfluo, levigando i lineamenti, cercando di trovare una linea essenziale, che esprimesse con un solo gesto tutto ciò che per lui era indispensabile.
Al tredicesimo strato cominciò a piovere.
Nulla avrebbe potuto preoccupare ormai Geremia: l'opera era indissolubile.
Ma continuò a piovere.
Passando le mani sulla superficie, un sottile strato gli rimase sui polpastrelli.
Altri furono i giorni, ma non smise di piovere.
L'ansia gli diede problemi a deglutire. Poi appoggiò le mani per verificare la compattezza dei colossi, ma queste affondarono fino ai gomiti e per il peso dei due Geremia vi rimase incastrato.
Continuò a piovere ed egli ad affondare, come quando stai fermo sul bagnasciuga sabbioso del mare e pian piano ti assorbe sempre più dal di sotto.
Geremia gradualmente faceva sempre più fatica a respirare, perchè compresso ormai nelle statue ci era finito quasi del tutto dentro.
Arrivò in modo naturale che con un filo di voce, tirandosi indietro disse:
- Perdonatemi, ma ora vi devo lasciare.
Con estremo dolore fece un passo indietro, poi un'altro, lasciando al posto del suo corpo un vuoto al negativo nelle statue.
Era il quattordicesimo strato.
Poco dopo, per quella mancanza i colossi si piegarono su loro stessi, non essendo più.
Geremia non si accorse subito di tenere stretti quei due sassolini trovati al cimitero, su cui aveva cominciato a stendere il primo strato.
Le sue mani erano molto più grandi di allora. Si portò poi i sassi al naso e li odorò ad occhi chiusi, perchè si ricordò di aver letto non si sa dove, che sono solo alcune pietre a conservare ancora un odore umano.
E finalmente Geremia fu solo Geremia.

venerdì 9 settembre 2011

I tiri mancini del giovane sovrano - (carte estratte: 4 20 1 - tiraggio di Valeria M.)



Cosa fa di un anziano sovrano, un anziano sovrano?
Il fatto di essere stanco di essere anziano.
Che se fosse sovrano senza essere anziano, raccoglierebbe per se molto più godimento da una vita di comando senza impedimento.
E come tutti anch'egli sapeva che è destino comune che tocca al povero come al ricco, che prima o poi ti annoi sin tanto che morte ti coglie per vizio.
Fatto sta' che se sei sovrano però, ti accade almeno una qualche piccola intercessione: che la tua posizione più alta degli altri, ti permette di esser meglio ascoltato dalle cerchie esterne del regno celeste.
Grazie a questa circostanza, già che le parole devon fare meno strada, il nostro sovrano annoiato si ritrovò a chieder ad un angelo di passaggio, di poter riporre nell'armadio la sua vecchierellezza.
L'angelo che per natura non si tira mai indietro da estendere indulgenze al di là del suo cielo, accordò al nostro anche questa concessione.
- Quando il sole ti sarà dinnanzi rimarrai sovrano annoiato, per impegno e allegrezza del tuo popolo; ma al calar di esso potrai rallegrar te stesso come fu un tempo.
La grazia era bell'e fatta.
Ed il sovrano per tutto il giorno rimase così allegro in attesa della sera, che quello sarebbe già bastato a non farlo sembrare così vecchio.
Poi quando anche l'ultimo raggio del padre sole si ritirò oltre i torrioni del castello, tutte le rughe e gli acciacchi si sciolsero in un giovinetto.
Il sovrano ritornato allegro e senza rughe cominciò così a correre per tutte le stanze del castello, finché il fiato glielo permetteva, e a far di quelle capriole che nemmanco una scimmia se le sarebbe mai immaginate, facendo sollevare come fosse egli stesso una girandola, tutte le sottane delle cortigiane del regno.
Mangiò di gusto dalla dispensa ogni ben di Dio, sfidò ogni singolo cavaliere in armatura facendolo capitombolare con la sua spada nuova di zecca, e andò avanti in questo modo fino al mattino.
Tra le lenzuola soffici, il sole porse i suoi omaggi all'anziano sovrano, che come destatosi da un sogno, si chiese se ciò che vagamente ricordava fosse davvero sepolto al di sotto delle sue stesse rughe.
Poi per tutta la giornata ne ebbe riprova, ricevendo elogi ed abbracci da tutti i cuochi che si complimentarono con lui per l'appetito dimostrato in quella notte; da tutti i cavalieri che con onore erano finiti gambe all'aria, e da tutte le cortigiane che tali girandole non ne avevano mai viste in una vita intera.
L'anziano seppur non ricordasse bene cosa fosse successo, si colmò l'alma di gioia e impaziente aspettò la notte successiva.
Non è però da me annoiarvi con troppi dettagli, fino a farvi diventare vecchi, e per restar nel succo vi dico, che per molti mesi quel giovinetto ebbe di che divertirsi notte dopo notte, ma poi si sa che giovinezza e vecchierellezza insieme non possono andar d'accordo per troppo tempo.
Il giovane cominciò a trovar troppo noioso quel vecchio che gli impediva di prolungare il proprio divertimento oltre i cancelli del mattino, e cominciò così a far dei bei tiri gobbi al pover'uomo, ridendosela della grossa.
Per prima cosa gli nascose i vestiti, che per tutto il giorno successivo, il sovrano fu costretto a rattopparsi di lenzuola e per il freddo gli duolse ogni osso che aveva in corpo.
La notte seguente firmò tutte le leggi al contrario, e all'anziano re non bastarono tutte le erbe del regno per farsi passare il mal di testa.
Poi passò tutta la notte a nuotar sotto le stelle, nel lago oltre le mura del castello, così che furono i reumatismi a far da morsa il giorno successivo.
Infine si stropicciò per tutta la notte la faccia, che le rughe del giorno dopo parevano scavate del doppio.
E fu così che dopo mesi di tiri mancini, il sovrano si addormentò per l'ultima volta; perché è esclusiva sola, di chi ha avuto un giovane in sé, di poter vivere almeno un giorno da re.

sabato 3 settembre 2011

I litiganti di Pietrabella - (carte estratte: 14 15 6 - tiraggio di Simone V.)



Se lui diceva sinistra, lei diceva destra e dove l'uno contava solo i numeri dispari, l'altro prediligeva i pari.
Così non si poteva più andare avanti, perché anche se Pietrabella era solo un piccolo borgo edificato ai margini della valle, meritava di sicuro qualcosa di meglio che due padroni in costante disaccordo.
La signora del borgo era bella, pareva quasi un angelo. I suoi pensieri erano delicati e per ogni singolo abitante avrebbe fatto qualsiasi cosa: dal dare monete d'oro a piene mani, a evitar per tutti di aver la schiena a pezzi per il troppo lavoro nei campi.
Il signore del borgo, che era il di lei marito, pareva invece non aver cuore alcuno, e chiamarlo diavolaccio era uso comune per gli abitanti di Pietrabella.
Quegli di dar oro a piene mani o sollevar da fatica la gente, proprio non ne aveva concezione e se poteva calcare la mano per aver miglior raccolto, non si faceva di certo troppo scrupolo.
E nel palazzo principale del borgo era tutto il tempo battaglia, e senza tregua potevi sentire sia di giorno che di notte, la fracassano canzone dei cocci rotti che si rincorreva da una stanza all'altra.
L'intera economia del borgo ruotava attorno ai cocci rotti, che fuori dal palazzo si poteva scorgere la fila dei carri dei mercanti di ceramica, dipanarsi neanche fosse un serpente fin giù alla base della valle.
Tirarsi piatti in testa l'un l'altro era ormai l'unico punto in comune che avevano i due amanti.
Ma per fortuna che ogni forte contrasto può essere calmato con il suo contrario, e se la storia di quei due sinora si era fatta troppo amara, due gocce del miele più dolce di Pietrabella potevano diventare la soluzione.
Fu così che un fidato consigliere di entrambi, provò a mettere in atto ciò che la saggezza popolare mista al buon senso gli venne a suggerire.
Approfittando della breve pausa creata dall'avanzar tra un carro e l'altro, egli fece scivolare una goccia di miele sul fiore che la signora portava tra i capelli, e una goccia invece dritta sul naso del signore.
La canzone dei cocci rotti riprese di li a poco, ma il miele cominciò a fare il suo gioco, e un'ape per ciascuno si posò sul vischioso elemento.
Il signore per vedere bene l'ape che gli si era posata sul naso, incrociò a tal punto gli occhi tra di loro, da non veder più null'altro che l'insetto che zampettava sulla sua protuberanza.
E altrettanto fece la signora, che levati gli occhi al cielo per scrutare il fiore che le impreziosiva la fronte, distolse lo sguardo da quella marea di ceramiche.
- Ho un'ape che mi cammina addosso.
Disse lui.
- Anch'io e chissà per quanto tempo lì ci vorrà stazionare.
Replicò lei tutta assorta e concentrata.
I due così presi dall'insetto, non si riconobbero più e cominciarono a conversare di quando entrambi erano sposati; ma adesso che il rispettivo compagno era sparito, si sentivano davvero soli.
Il signore cominciò a fare una corte spietata alla bella signora, che sembrava così simile a lui perché condivideva quel problema lì dell'ape, e la signora tutta emozionata per le attenzioni di un così valoroso pretendente, di volta in volta cedeva un pò di più le sue difese.
Finì così che si sposarono, perché finalmente avevan trovato l'anima gemella e a Pietrabella tutti furon da quel momento contenti perché al palazzo, la canzone dei cocci rotti aveva finalmente trovato un degno epilogo.
Zan zan!

venerdì 26 agosto 2011

Dante - (carte estratte: 18 8 20 - tiraggio di Davide S.)



Girando di piazza in piazza, devo dir la verità, di storie ne ho narrate tante e altrettante ne ho collezionate; ma tra tutte quante, quella che mi appresto a raccontarvi a breve, di sicuro può fregiarsi del titolo di questione assai complessa.
Ma vi avverto sin da adesso, seguitemi con attenzione tra tutte le parole, perché a chi farà errore vedrò cader la testa.
Dante era solito girar di villaggio in villaggio, perché era un cantastorie.
Con il suo strumento incantava ogni piazza in cui sfilacciava le sue trame, manco fossero il filo che spunta dal maglione, che se tirato a dovere ti lascia in mutande in una sola mossa.
Egli era così bravo con le parole, che prima o poi tutti li lasciava in mutande.
Dante faceva il contadino ed era felice così, passava le sue giornate a seminare, a raccogliere e a lavorare la terra.
Aveva anche un pollaio di cui andava molto fiero, tanto che il suo miglior gallo, alla festa di paese, di premi ne aveva vinti almeno uno per ogni piuma che portava sulla coda.
Per scherzo a quel gallo, Dante aveva messo nome Dante.
I polli di Dante erano i più buoni di tutta la contea ed egli li vendeva a caro prezzo ai mercanti.
Dante fra tutti i cuochi del regno era quello più appassionato e nella sua osteria non c'era mai silenzio, si mangiava e cantava, e il buon vino esaltava i sapori che lui con gran maestria sapeva mettere in fila.
Egli era convinto che la materia prima fosse tutto perché un buon piatto riuscisse bene, e aveva così a cuore l'onestà del macellaio che gli vendeva la carne, che a lui dava da mangiare senza mai chiedere nulla in cambio.
E poi sarà stato segno del destino, ma anche quest'altro si chiamava Dante e soleva dirgli:
- Ricordati Dante, che qui tra Danti ci si intende!
E i due ogni volta che pronunziavano questo scioglilingua, scoppiavano a ridere.
Dante sul banco della sua macelleria al mercato, vendeva solo i polli migliori della contea, certo gonfiava un pò i prezzi ma era sicuro di non fare torto a nessuno; che se ciò che è troppo buono "non ha prezzo", di sicuro a fare un prezzo, meno di quello che "non ha" egli faceva.
Dante per stare sul sicuro comprava i polli di Dante, che non so se ve lo avevo già detto, ma egli possedeva anche un gallo che aveva vinto tanti premi quante erano le piume della sua coda.
Al mercato quel giorno c'era un pò di agitazione, perché si era sparsa la voce che la sera ci sarebbe stato in piazza lo spettacolo di Dante, un talentuoso cantastorie.
Dante quando venne l'ora del pranzo decise di andare all'osteria, e guarda te la fortuna, vi ci trovò Dante che intanto accordava il suo strumento; che a suonar con la pancia piena è tutta un'altra storia, infatti poco prima Dante gli aveva servito un pollo di Dante.
Al che quando si seppe che quello era il prodigioso cantastorie, subito tutti gli chiesero di farsi raccontare una storia.
Dante disse:
- Una storia val bene un pollo!
e Dante fu subito d'accordo.
Cominciò così la storia di Dante.
Dante andava in giro per il mondo e a camminar tanto gli venne fame, ma nelle tasche aveva così poche monete che invece di mangiarsi un gallo, dai suoi piedi colse e poi si cucinò un callo.
Proprio sul callo, Dante disperato entrò nell'osteria gridando:
- Mi hanno rubato il gallo!
Eh si! Perché la notte prima, qualcuno si era intrufolato nei luoghi che sono privati di Dante e il gallo da lì aveva trafugato.
Subito nell'osteria si fece un gran silenzio, chi poteva esser stato così vile a far sparire il gallo?
Certo ognuno aveva i suoi buoni o cattivi motivi, ma tra tutti chi è che aveva più ragioni di far torto a tutti gli altri?
Dante sapeva che fine avesse fatto il gallo, perché lo aveva preso lui per i suoi scopi, e gli sovvenne proprio in quel momento, che in piena notte aveva pensato:
- Se sono abbastanza scaltro nessuno capirà mai che ho preso io il gallo.
Per venire a capo della faccenda, di sicuro ci voleva qualcuno che fosse al di sopra di ogni questione.
Dante che ormai da una vita controvoglia faceva il giudice, caso vuole che quel giorno fosse proprio all'osteria e in quattro e quattro sedici, si vide costretto a portar tutti in tribunale, per venire a capo dell'intreccio.
Dante fece resistenza per andare in tribunale perché proprio non gli andava, Dante invece pensò che fosse giusto, perché anche se di cose ne aveva tante da fare in quel giorno, era anche un bene che la verità venisse a galla.
Dante incalzò facendo tante accuse, mentre Dante si difendeva; ad un certo punto anche Dante, che stranamente fino a quel momento era stato in silenzio, si alzò in piedi e ne disse quattro a tutti.
Improvvisamente Dante si accorse di qualcosa e gli fu tutto chiaro, così disse a gran voce:
- Il gallo l'ha rubato Dante e con le piume che son tante, quante i premi che il gallo stesso ha vinto, ci si è fatto un capello per essere il più bello.
Era vero!
Come era stato possibile che nessuno sino a quel momento se ne fosse accorto?
Perché Dante per tutto il tempo, aveva portato in testa un copricapo di piume nere di gallo dai riflessi verdi.
Ora era tutto chiaro, Dante in persona fu portato al patibolo, perché gli vollero tagliar via la testa sulla quale aveva portato il copricapo per tutto il giorno.
Il boia levò la scure e poi calò un colpo secco e la testa di Dante rotolò giù dagli scalini; ma da quel collo diviso con precisione sbucò subito dopo un'altra testa, manco fosse la coda di una lucertola, che il boia con prontezza di riflessi ristaccò di netto.
E ve l'avevo detto io all'inizio della storia, che chi non si sarebbe districato tra tutte le parole gli si sarebbe staccata la testa.
Ma neanche il tempo di fare questo ragionamento, che da quel collo sbucò fuori un'altra testa.
E il boia pronto staccò la nuova testa, poi la nuova ancora e quella dopo, e le teste furono ancora tante che faccio fatica a raccontarvele tutte, ma diciamo che furono almeno una per ogni storia che vi posso cantare e una per ogni piuma nera che il gallo portava sulla coda.

domenica 21 agosto 2011

Dove nasce l'arcobaleno? - (carte estratte:10 21 19 - tiraggio di Gianluca F.)



Sin da bambino, aveva sempre desiderato conoscere l'origine dell'arcobaleno.
Con i suoi sette colori se ne stava fisso lassù a contemplare il mondo, tirava fuori la testa dopo ogni temporale, e per incorniciare l'orizzonte aveva sempre tempo.
Poi crebbe e cominciò a cercare.
Ma voi ci pensate che nella vostra pancia ci sono così tanti metri di intestini?
Che sotto la sottile pelle, metri di vene sono così ordinatamente arrotolate e intrecciate, che a metterle in fila ci vorrebbero troppi passi per camminarci intorno in un sol giorno?
Beh! Anche il mondo è così, un misto di gomitolo e matassa che a districarlo tutto mettendolo poi in linea sarebbe impresa ardua.
Gustavo aveva cominciato da piccolo, un pò per gioco camminando intorno a casa, a immaginare che sotto i suoi piedini ci fossero tutti e sette i colori dell'arcobaleno, e che ad ogni suo passo potesse tingere la terra che calpestava.
Dopo ogni temporale, nel cielo compariva quell'arco colorato che tanto lo affascinava e lui con il naso all'insù, stringeva con forza gli occhi a fessura come a volerlo imprimere con maggior convinzione nella sua memoria.
Aveva cominciato a districare una teoria su di esso: forse quando la pioggia lavava per bene il mondo rendendolo lucido, quello che vedeva così in alto era il riflesso dei colori dei suoi piedini.
Gustavo continuò così giorno dopo giorno ad accarezzare con i suoi colori ogni angolo che riusciva a raggiungere, perché se fosse riuscito a colorare tutto il mondo avrebbe potuto ammirare un arcobaleno senza confini.
D'apprima camminava girando intorno alle cose, poi ne riempiva gli spazi vuoti salendoci sopra, da quei primi tentativi se ne era dovuto inventare di tutti i modi per poter dipanare ogni singolo centimetro percorribile.
Giorno dopo giorno il mondo di Gustavo si colorava un pò di più e dopo aver percorso tutto il giardino di casa, cominciò a colorare la contea, poi tutto il regno, per finire a colorare anche tutti i mari.
Per la strada ci vai dritto, sull'albero di lato in verticale per far bene aderire la pianta del piede alla corteccia, sull'erba colpetti leggeri ad ogni filo così non rischi di rovinarli, nei fossi invece aveva capito che era meglio scendere di schiena e l'acqua la si doveva trattare con particolare cura, perché ha sia una superficie che un fondo.
E il mondo pian piano si svolgeva, strato dopo strato venne sbucciato dai piedi di Gustavo, che calmatosi ogni temporale, guardava soddisfatto la volta celeste che si perdeva sempre più in là oltre l'orizzonte.
- Quando avrò percorso tutto il mondo, l'arcobaleno non avrà più confini, perché il riflesso delle sfumature abbraccerà ogni cosa.
Fatto stà che dopo tanti lunghi anni di cammino per terra e per mare, Gustavo si trovò alla base della ripida parete di un vulcano.
Cominciò come suo solito a percorrerne le pendici tutto intorno, non tralasciando neanche un granello di polvere e sulla cresta ne calpestò la corona intera prima di affrontarne l'interno ormai spento, che scendeva giù a voragine.
Lì dentro si scendeva parecchio, ma la troppa fatica non lo aveva mai spaventato e scese così tanto in basso che ormai il cielo sopra la sua testa era incorniciato in un perfetto tondo azzurro.
Mentre teneva il naso in su per contemplare quello spettacolo, gli capitò di mettere un piede in fallo.
Precipitò per diversi giorni, tanto che ci fece l'abitudine a dormire, mangiare e lavarsi in volo, finché poi non arrivò alla fine del budello che sempre più stretto andava a terminare in una stanza.
Quello era il centro del mondo.
La dentro si sudava parecchio perché faceva molto caldo, il buco da dove era arrivato era stretto stretto che c'era passato appena, poi quando gli occhi si abituarono al buio, si accorse che in lontananza il foro del vulcano era diventato un puntino chiaro, laggiù in fondo.
Si guardò intorno e vide un altro puntino ed un altro ancora, perché in quella stanza confluivano tutti i pozzi di tutti i vulcani del mondo, che a vederli così quei buchini parevano quasi un cielo stellato.
Poi tese l'orecchio e cominciò a sentire tutte le parole del mondo, che l'eco portava sino a quella stanza da ogni direzione.
Gustavo che così tanto aveva viaggiato, ora era in tutti i luoghi del mondo.
Se aveva sonno dormiva, se aveva bisogno di compagnia parlava verso una stella, sicuro che le sue parole sarebbero uscite da un qualche vulcano, e se aveva sete beveva, ma poco poco, perché aveva preso l'abitudine per nostalgia del cielo, di guardare i piccoli arcobaleni che si formavano dall'acqua che evaporava per il caldo del centro del mondo.
Il vapore leggero saliva facendo danzare i colori a mezz'aria verso le stelle, poi lui lo seguiva con lo sguardo oltre esse, per un ultimo saluto.
E ogni volta che Gustavo beveva, dai vulcani di tutto il mondo, si districavano arcobaleni senza confini.

giovedì 28 luglio 2011

L'innamorato volante - (carte estratte: 6 8 0)



Si sa che quando ci si innamora, per le farfalle che nascon nello stomaco, ci si ritrova a camminare a qualche metro dal suolo.
Guido questa cosa pareva l'avesse presa proprio in parola, e quella volta che si trovava in piazza a dichiararsi di fronte alla sua bella, scivolò via dal buco del collo della camicia manco fosse un'anguilla, ritrovandosi nudo a volar almeno quattro metri sopra le persone.
I vestiti rimasero ritti sul posto come se ancora dentro vi ci fosse stato un corpo, e Claretta che era la sua bella, si fece tutta rossa per la vergogna di trovarsi lì di fronte a quei vestiti nudi di Guido.
Al povero giovane che se ne stava in volo là sopra, non gli serviva a niente sbracciarsi per farsi notare, che tutte le persone erano così scandalizzate dai suoi vestiti privi di corpo, che non si degnavano di alzare i loro nasi in quella direzione.
- Ma guarda che sconceria! Presentarsi in questo modo in piazza! E quella povera ragazza, la vuol far morire di vergogna?
Dicevano qua e là tutti quanti.
I vestiti si guardarono intorno imbarazzati, anche perchè quella situazione non l'avevano mai vissuta da svegli; qualche volta l'avevano sognata, ma mai avrebbero pensato…
Ma dicevo, i vestiti nudi in quel modo, per la vergogna proprio lì non volevano stare, così cominciarono a scappare tutt'intorno per la piazza cercando una via d'uscita da quella situazione e il povero Guido in volo non poteva far altro che seguirli come se fosse un palloncino leggero attaccato per un filo invisibile ai suoi indumenti impudichi.
Claretta lì per lì svenne, e Guido che nudo come un verme dall'alto la vide cadere, cominciò a maledire quei vestiti zozzoni, che bellamente si erano messi in testa di crear scompiglio tra la gente.
- Ma che maleducazione!
Arrivarono le guardie e raccattati i fuggitivi, ci misero un pò a capire come infilare le manette agli abiti, che non avevano nè polsi nè mani su cui far presa.
Guido se ne stava lì a mezzaria, a dire il vero, lui avrebbe voluto tornare indietro da Claretta, ma era costretto a seguire un'altra strada perchè i vestiti finirono presto in tribunale.
Con gran sorpresa il giudice, che era una bella signora, si ritrovò davanti i vestiti di Guido e li riconobbe.
Ella qualche tempo prima aveva spasimato per quell'uomo, e di certo non aveva mai accettato di buon grado il fatto che egli pendesse per quell'altra, così si fregò le mani pronta a sfruttar quell'occasione ed esordì:
- Quale motivo vi ha spinti ad uscir di casa stamane senza un corpo? Non avete un minimo di pudore?
I vestiti non poterono replicare, perchè non avevano nè testa nè bocca, e lo stesso Guido da quattro metri sopra, si unì al coro di bestemmie della folla, che accusavan gli indumenti di aver fatto svenire un'anima pura come quella di Claretta.
Il giudice che di fatto sa come rigirar le cose, non fu clemente, e oltre ad accusare quel paio di calzoni, camicia e scarpette rosse, di atto impuro alla luce del sole, gli venne la bella idea di dire che era stato tentato omicidio:
- Perchè mettendo in mostra tutte le vostre vergogne, avete attentato al cuore della povera Claretta portandola presso alla morte.
Ma in cuor suo la donna se la rise di gusto, pensando alla rivale stesa esanime in mezzo alla piazza, tra sterco di cavallo e piedi di villani.
Anche Guido svolazzante fece un bell'applauso: giustizia era fatta!
Ma pian piano, mentre le guardie cominciarono a scortare i vestiti verso la prigione, si rese conto che anche lui era legato ad essi, e la stessa condanna l'avrebbe dovuta subire anch'egli suo malgrado.
Lui che nonostante avesse il pimpirlino di fuori e se ne stava a mezz'aria, non si sentiva volgare come quelli la sotto: loro in galera ci dovevano finire, ma lui cosa aveva fatto per meritarsi questo?
Maledette farfalle dell'amore!
Tra il clangore delle grate della cella finirono tutte le belle speranze di quei vestiti allegri, e al piano di sopra ci fini Guido, perchè quattro metri di distanza erano troppi per star nella stessa cameretta.
Guido così tutto nudo, potè poggiare nuovamente i piedi al suolo, che era freddo ma almeno lo reggeva.
Nella cella con lui c'era un pazzo che non amava assolutamente prendere il tè senza zucchero.
Guido si arrotolò una coperta tutt'intorno, perchè a star nudo a svolazzare, un pò ti viene anche freddo.
Ogni mattina, quando le guardie portavano una certa brodaglia per colazione, era dura sentire tutte le bestemmie che quel folle gridava al loro indirizzo; il povero ragazzo non era abituato a tutta quella confusione e si ranicchiava sotto le lenzuola per fare in modo che gli schiamazzi sembrassero venire da lontano.
- Nel mio tè ci voglio lo zucchero! La vita amara non fa per me!
Il pazzo andava avanti per un pò, poi si quietava dicendo
- Anche oggi lo zucchero lo devo aggiungere da me, un cucchiaino e non di più.
E tutte le mattine quella tiritera.
- Anche oggi lo zucchero lo devo aggiungere da me, un cucchiaino e non di più.
Passarono quattordici lunghi anni, e quella mattina dopo almeno 10 minuti buoni di bestemmie e grida del pazzo, Guido decise di cacciare fuori la testa dalle coperte per dirgliene quattro per la prima volta, ma quello che si trovò davanti lo lasciò senza fiato.
Nel muro della cella vi era un foro grande così tanto che ci potevano passare tranquillamente due persone una al fianco dell'altra, e il buco dava direttamente sulla strada.
Senza parole si guardò intorno e vide il pazzo con un cucchiaino in mano, che raccoglieva dal muro della calce.
Il ragazzo si alzò dal letto, passò oltre il muro e fu libero.
Mentre si allontanava dalla prigione senti per un'ultima volta il folle scriteriato in lontananza urlare:
- Anche oggi lo zucchero lo devo aggiungere da me, un cucchiaino e non di più.

Qualche anno dopo, finita la condanna, i vestiti di Guido furono lasciati liberi, e Claretta che per tutto quel tempo li aveva aspettati non credendo mai alle gravi accuse del giudice, li riabbracciò non avendo più vergogna di loro.