domenica 27 gennaio 2013

La storia dei se - (carte estratte: 0 10 14 - tiraggio di Arianna L.)






Di fronte all'esattore c'era poco da fare, niente storie, niente sotterfugi, si era solo costretti a pagare.

Lo sapeva bene Agenore, umile contadino, che in quella situazione proprio non ci si sarebbe voluto trovare.
- …e non accetteremo un fiorino in meno di quelli che sono nostri di diritto.
Fece eco una guardia alle parole del funzionario.
Il povero contadino si guardò intorno, viveva in una catapecchia con moglie e dieci figli, sul paiolo una brodaglia a scaldare e niente più.
Probabilmente se fosse stato un ricco possidente, un tal sopruso non lo avrebbe di sicuro subito.
Tirò fuori tutti i fiorini richiesti e pagò.
Fortunatamente nascosto sotto le assi della stanza, aveva un forziere pieno di ori e pietre preziose: Agenore non era un vero contadino a dirla tutta.

Nessuno in famiglia conosceva la verità sull'uomo, perché egli si era guardato bene dal farla sapere. Il forziere lo aveva messo lì sotto quando ancora non era sposato, quando neanche aveva la benché minima intenzione di avere tutti quei figli.
Il lavoro nei campi era duro, ma di sicuro era sempre stato qualcosa che nella sua vita da ricco signore aveva voluto provare, così si era finto un poveraccio, avevo conosciuto una donna semplice e si erano trasferiti in quella catapecchia.
Agenore in realtà era un ricco possidente, con tanto di castello, valletti e cavalieri al suo ordine.

Il giorno dopo aver pagato la gabella, si rese conto che forse nascondere il forziere proprio in casa non era stata una buona idea, lì chiunque lo avrebbe potuto trovare. Se quelle assi su cui avevan camminato funzionario e cavalieri, lo avessero tradito cedendo sotto al peso delle armature, la sua bella storia sarebbe finita in quel preciso istante: gli avrebbero confiscato tutti gli ori.

Agenore decise così di portare quel tesoro, in un luogo più sicuro.
Caso vuole che il giorno prima portando al pascolo le pecore, aveva trovato un campo in cui c'era un pozzo naturale che il tempo aveva scavato nella roccia.
Ottima idea!
Con lo scrigno in spalla, si mise in cammino.

Poco dopo essersi allontanato dalla strada maestra per tagliare in mezzo al bosco, gli si pararono davanti due individui che sembrava proprio avessero scritto sulla faccia "noi siamo farabutti".
E proprio quello erano, del tutto intenzionati a portarsi via l'intero bottino.
- Contadino! Cosa proteggi in quello scrigno?

Che brutta situazione! Se non fosse stato un riccone, tutto quel putiferio non avrebbe proprio avuto inizio.
Fortunatamente, anche se voi farete fatica a crederci, il ricco Agenore non era mai stato un facoltoso possidente.
Agenore era un ladro, uno dei migliori, tanto che aveva messo in piedi una banda di briganti organizzati.
Passò anni in quei boschi, terrorizzando chiunque passasse da quelle parti e collezionando un vero e proprio tesoro.
Poi come spesso accade, quella vita all'addiaccio gli era diventata troppo stretta e disponendo allora di un considerevole tesoro, pensò bene di comprarsi una vita da signore.
Aveva quindi acquistato dei terreni, fatto costruire un castello, assoldato cavalieri e dato vita ad una vera e propria corte, lasciandosi alle spalle la sua vita criminale.

- Imbecilli ma non mi riconoscete!
Disse Agenore ai suoi due briganti.
Il più scaltro, si strofinò gli occhi e guardò meglio.
- Capo? Con quei lunghi baffi non mi parevi proprio tu.
Così i due da assalitori divennero quelli assaliti dalla furia di Agenore, che li prese a bastonate per non averlo riconosciuto.
Con lo scrigno in spalle proseguirono verso il cuore del bosco, dove avevano una grotta con tutti i loro tesori.

Quella notte fecero baldoria, scolandosi otri di vino e mangiando salsiccie e salami fino a ruzzolare addormentati sotto ai tavoli.
La mattina dopo, ancora con le teste martellanti a causa della sbornia, furono risvegliati da una carica di trombe.
I cavalieri del re avevano circondato la grotta, dando l'assalto alla banda che per anni aveva terrorizzato tutta la regione.
Il grande e temuto brigante Agenore sentitosi braccato, si arrese quasi subito come se fosse una donnicciola, cosa che fece dubitare tutti quanti sull'aver scelto a suo tempo un buon capo.

A dirla tutta però, Agenore o forse dovrei dire Angelica, una donniciola lo era per davvero.
La principessa Angelica, che non voleva sposare il principe Augusto, aveva messo in scena il suo rapimento proprio la sera del gran ballo,
così facendosi dei gonfi e lunghi baffi con il crine del suo cavallo, era diventata quel lestofante di Agenore, dandosi alla macchia verso i boschi, con tutta l'intenzione di mettere in piedi una banda di briganti.
Basta con le buone maniere!

Ma torniamo alla grotta dei briganti, dove caduti i baffi di crine dal viso di Angelica, il cavaliere con il cavallo nero riconobbe la principessa.
La voce si diffuse immediatamente tra le fila dei guerrieri, finalmente dopo così tanto tempo, al re avrebbero potuto recare la più felice tra le notizie.
- Angelica è stata ritrovata!

E fu proprio così.

Al castello venne preparato tutto per il rientro della principessa rapita dai briganti, tenuta prigioniera in quella grotta per così tanti anni che il re e la regina ormai erano entrambi bianchi e gobbi.
In tutta la regione si dichiarò festa con la promessa che nessuno avrebbe pagato gabelle per almeno due mesi.

Ma la povera Angelica si ritrovò suo malgrado, nella situazione da cui con tanta scaltrezza era riuscita a fuggire.
Il principe Augusto era ancora il suo promesso sposo, un gran peccato a dire il vero, visto che Angelica tra i suoi salvatori aveva scorto un uomo che le rapì il cuore dal primo istante.
Le era bastato un semplice sguardo per venire colta dall'amore.
Adolfo era un cacciatore, che conosceva così bene quei boschi da far da guida ai cavalieri.
Con il suo muoversi veloce tra gli alberi, senza perdere mai il senso del dove fosse, portò i salvatori dritti alla caverna dei briganti e sé stesso al centro del cuore della principessa.

Al castello la principessa rimuginava sulla sua situazione.
Come avrebbe potuto farla franca questa volta?
Forse invece di mentire avrebbe dovuto dire il vero.
Anche se voi adesso state pensando che il vero non l'avrebbe salvata, perché sostenere di non amar davvero un principe è di poco conto di fronte alla volontà di un vecchio padre, vi dico che vi state sbagliando, perché a dirla proprio tutta, Angelica non era una principessa e non era neanche una donna, ma bensì un cane.

Quel cane aveva girato il mondo.
Era un artista nel suo genere, viveva al circo e grazie ad esso mangiava tutti i giorni.
La sua specialità da sempre era stata quella di muoversi aggraziato sulle sole zampe posteriori, tanto da essersi guadagnato il nome di Principessa.
Lo spettacolo andava in scena di piazza in piazza, scatenando le risa dei bambini, che si divertivano come matti a vedere Principessa, vestito di tutto punto da damina, fare il giro tra la gente a raccogliere le offerte nel  piccolo paiolo che reggeva in bilico sul muso.
Quando un giorno i saltimbanchi furono chiamati a far divertire il re, la regina e la principessa, successe proprio un grosso guaio: la principessa per le troppe risate, si sentì male e morì seduta stante.
Quei poveri commedianti per non finire dritti sulla forca avevano pensato bene di lasciare lì Principessa, sperando che nessuno si accorgesse di quell'insano scambio.

Il piano funzionò e da quel giorno, se i saltimbanchi ebbero salva la vita lo dovettero al sacrificio di Principessa, che continuò a recitare per anni quella parte.

Ecco come la verità l'avrebbe potuta salvare, poiché Adolfo che era un cacciatore, di sicuro aveva bisogno di un cane e al contrario di quello che ci possiamo immaginare, fu proprio l'uomo ad "innamorarsi" dell'animale.
Così senza che nessuno chiedesse alcuna spiegazione ad entrambi, Adolfo ed il suo cane lasciarono il castello.
I festeggiamenti continuarono anche se non si riusciva più a trovare la principessa.

Che bella la vita all'aria aperta, correre con tutte e quattro le zampe, rinunciando finalmente a quella scomoda postura da essere umano, senza fingere più ed essere davvero sé stessi.
Con il naso teso a terra Artù seguiva la pista, scovava le lepri e recuperava i fagiani, Adolfo finalmente non era più solo.
Poi però uno stupido sasso fu tradì il cacciatore, che scivolando finì dritto in fondo ad una scarpata, si ruppe il collo e terminò così la sua storia.
Artù rimase solo.
Solo come un cane.

Se ne andò vagando senza una vera e propria meta per i boschi, con la fame nello stomaco e Adolfo nella testa, nei pensieri semplici e senza finzione del migliore amico dell'uomo.
Camminò tanto sulle sue quattro zampe, fino a che non si spinse così lontano da non riconoscere più i luoghi intorno a sé.
Giunse ad una catapecchia malferma e fu allora che la vide.

Una donna stava zappando la terra, facendo fin troppa fatica in quel lavoro da uomo.
Fosse stato solo quello, sarebbe andato tutto bene, ma per far andare avanti un campo non solo bisogna zappare, ma anche seminare, irrigare, tagliare, raccogliere e riprendere tutto da capo.
Troppo lavoro per una donna così minuta.

Se Artù fosse stato un cane, probabilmente non ci avrebbe neanche fatto caso, gli sarebbero bastate due coccole per tirare avanti, ma anche se voi non ci crederete, Artù in realtà non era un cane ma un contadino che si chiamava Agenore, che tanto tempo prima aveva un bel gregge di pecore.
Le pecore di Agenore, penso si possa sostenere, erano le più indisciplinate di tutta la regione, tanto che il povero contadino si dovette ingegnare per tenerle tutte insieme.
Così gli venne in mente di buttarsi addosso una vecchia pelle di cane, di rannicchiassi a quattro zampe e di mettere un po' d'ordine tra quelle indisciplinate.
Fino al giorno in cui non arrivò il circo in città.

Agenore quando vide la donna nel campo si levò la pelle del cane di dosso e la raggiunse scendendo la collina.
Si parlarono, si conobbero, si fidanzarono.

L'uomo sentì da subito di amarla così tanto che di sicuro ci avrebbe fatto almeno dieci figli, e nulla gli sarebbe importato se un giorno con l'esattore alla porta, avrebbero dovuto sborsare quei fiorini guadagnati con il sudore di entrambi.

sabato 19 gennaio 2013

I dieci fagioli - (carte estratte: 13 11 17 - tiraggio di Selena B.)




Era ormai buio e si lasciò cadere nel campo incolto di qualcun altro, con la schiena all'indietro.
Fece un suono molle quando batté di piatto nel fango: mai giocare al gioco della fiducia da solo, perché nessuno poi ti raccoglie.
Era un'idea sciocca ma Taddeo aveva voluto provarci lo stesso e mentre colava a picco nella melma, pensò a quanto fosse buffo lasciarsi morire così: non avrebbero dovuto neanche seppellirlo.
Affondò completamente nel fango.
Solo le dita dei piedi ne rimasero fuori.
Quelle non sarebbero mai andate sottoterra.

Sofia non si dava per vinta, si perché anche se quel campo incolto non le aveva mai dato nessun frutto da mettere sotto i denti, lei ci lavorava ogni giorno.
- Fanghiglia!
La definivano i più.
Al campo mi riferisco - ovviamente - anche se a pensarci bene, lei il dubbio di non essere molto amata dagli altri contadini dei dintorni un po' lo aveva.
Sofia era quella stralunata, quella che forse le regole di come si coltiva non le sapeva bene.
- Sono cose da uomini.
Dicevano i contadini.
- Ma sono pur sempre una donna! - ribatteva lei. - E' nella mia natura che prima o poi qualcosa riuscirò a far nascere.
Il campo fangoso era lì ad aspettarla come sempre.
La donna le vide subito quelle piantine che ieri non c'erano, perché sbucavano pallide dalla scura terra melmosa.
Finalmente aveva di fronte a sé la prova che tutto quel lavorare non era stato solo tempo perso, come sostenevano i soliti quattro bifolchi. Con il cuore che batteva in petto, Sofia si precipitò al centro del campo per ammirare da più vicino quella meraviglia.

A guardarli bene sembravano dieci piccoli fagioli in fila, e fagioli di tutto rispetto: avevano persino le unghie.
Era arrivato il momento di agire con la massima cura dopo tutta la fatica che c'era voluta per far germogliare qualcosa, ora tutte le sue attenzioni si sarebbero concentrate su quel fazzoletto intorno ai suoi fagioli.
Quella pianta era davvero strana, cinque fagioli a destra e cinque a sinistra, speculari per dimensioni e posizione, in ordine d'altezza andavano dai due centrali più alti e cicciotti, sino ai due esterni più piccoli e ricurvi a gancio.
La donna con le dita ne tastò la consistenza, si piegavano avanti e indietro senza fare troppa fatica, mentre non c'era verso di spostarli di lato senza portarsene dietro almeno altri quattro.
- Chissà che pianta sarà? Tra tutti i semi che ho lanciato a casaccio nel campo, proprio non mi ricordo di averci buttato dei fagioli.

Da adesso in poi avrebbe dovuto procedere usando il buon senso.
Innaffiarli abbondantemente non gli avrebbe fatto di sicuro male, ma appena versò dal secchio tutta quell'acqua, le piantine cominciarono ad andare a fondo.
- Diamine!
Questo era un bel problema, dopo tutto il tempo che aveva atteso che almeno una pianta sbucasse da qualche parte, rischiava ora di perderla il primo giorno.
Forse il terreno era troppo fangoso, forse tutta quell'acqua era stato un errore sin dall'inizio, avrebbe dovuto evitare di bagnare in continuazione.
Senza perdersi d'animo cominciò a portar via dal campo l'acqua in eccesso, togliendone coi secchi lo strato superficiale, il sole fece il resto e nel giro di pochi giorni il campo era umido al punto giusto, né troppo né poco.
Ma nonostante tutto, quei dieci fagioli non crescevano.

Mentre Sofia se ne stava lì accosciata vicino alle piantine, pensando a quale sarebbe potuta essere la sua prossima mossa, successe l'impensabile: le piantine si scossero come se soffrissero il solletico.
Lei cascò sul sedere, spaventata dall'improvviso animarsi di quei germogli e appena si riebbe, tornò ad osservarli da vicino.
Ecco cosa li faceva tanto ridacchiare, un nugolo di formiche camminavano su quelle piantine cicciotte, mordicchiandole di tanto in tanto.
Avrebbe dovuto trovarvi un rimedio, per farle andare via da lì.
- Care formiche! Perché vi accanite con le poche piantine che ho nel mio campo?

In effetti le venne in mente un bello scherzo.
A differenza del suo, nei campi di quegli antipatici dei contadini che la prendevano sempre in giro c'era molto più ben di Dio, così si mise a cercare la regina delle formiche per farle "un certo discorsetto".
Era quella con il turbante rosso, non fu difficile trovarla.
La prese con delicatezza sul palmo della mano e sollevandola da terra le fece vedere che al di là della collina c'erano dei campi molto più invitanti per banchettare.
La regina delle formiche la trovò una cosa giusta e dopo aver ordinato alle altre di mettersi tutte in fila, si allontanarono dalle piantine di Sofia.
Ma quei dieci fagioli non crescevano.

Così per la rabbia si mise a dar pugni tutt'intorno, dandone di così forti da far girar la terra a gambe all'aria e quello le fece venire in mente che una volta qualcuno, le aveva detto che i campi si devono arare prima di coltivare.
Arò il campo, ma i fagioli non crescevano.

Allora Sofia penso che ora che il campo era umido al punto giusto e che non c'erano più parassiti a minacciarlo e che aveva smosso tutta quella terra, forse un po' di compagnia a quelle piantine non avrebbe di sicuro guastato.
Però doveva essere compagnia di un certo tipo. Lei era solita raccogliere semi qua e là a casaccio nel bosco, senza troppo preoccuparsi di che piante avrebbero dato, mentre i dieci fagioli erano così belli che come vicini di casa si meritavano dei semi comprati al mercato.

Piantò quindi questi altri, i quali cominciarono a germogliare in quel terreno ormai fertile e bonificato.
Ma solo i dieci fagioli non crescevano, allora cominciò a rispettare il ciclo delle stagioni e a piantare al momento giusto sperando che cambiasse qualcosa.
Eppure non crescevano, allora pulì il terreno dalle erbacce.
Ancora non crescevano, mentre tutto il resto era una gioia di colori e sapori, di ottime verdure e frutti succosi; poi concimò, rigirò la terra di nuovo, la accudì, imparò chiedendo agli altri contadini, ascoltò il vento, seguì le lune, diventando infine una vera contadina con un campo straordinario.

Verdura, frutta, fiori, tutto rendeva quel terreno il più bello.
Ora era lei ad essere un punto di riferimento per tutti gli altri contadini, vincendo ogni singola gara di paese, da quella per i più grandi ortaggi a quella per i frutti più succosi.
Eppure i dieci fagioli si ostinavano a non crescere.
- Testardi!

Certo di sicuro stavano bene, si stiracchiavano, si flettevano e se li solleticavi ridevano, ma niente più.
Poi un giorno le venne in mente che forse non crescevano perché erano sempre stati maturi.
Che sciocca! Perché non ci aveva pensato prima?
Così Sofia ci si mise d'impegno e cominciò a tirare tutti insieme i dieci fagioli via dal campo e più tirava, più le lunghe radici si sfilavano dalla terra. Non aveva mai visto radici così grandi in confronto a piante così basse.

Con grande fatica finalmente estrasse tutto Taddeo, che tanti mesi fa era triste perché lanciandosi di schiena nessuno lo aveva raccolto.
Non gli sembrò vero di rivedere il sole, con il cuore colmo per trovarsi di fronte a lei, che in quei mesi lo aveva accudito dimostrandogli un incondizionato amore.

Coltivare qualsiasi campo è cosa dura, che non può essere lasciata all'improvvisazione, forse a volte c'è bisogno di avere una piccola speranza, di vedere con i propri occhi che seppur piccoli, alcuni frutti possono nascere anche dal fango e dal dolore.

Sofia appena lo vide si sentì svenire dalla gioia di aver raccolto l'intera pianta dei dieci fagioli, e portandosi le mani al viso, cadde di schiena.
Non raggiunse il suolo.

domenica 6 gennaio 2013

Le insignificanti avventure di Giovanna Cappotto - (carte estratte: 20 21 11 - tiraggio di Lavinia G.)



- Io da grande voglio essere un dottore!
Di rimando un altro bambino rispose.
- Io invece sarò un cuoco e con il mio coltello infilzerò chi mi pare e piace! Così poi tu li puoi curare.
- Ma che cavolo vuol dire? - Chiese un terzo bambino, per poi proseguire. - Il cuoco mica infilza le persone, io allora sarò un attore che viaggerà per tutto il mondo, così potrò raccontare nei teatri quanto sono scemi i miei amici! Ahahahah.
Poi tutti si voltarono verso Giovanna, mancava solo lei nel gioco del "da grande sarò".
La bimba non ci pensò troppo su e disse a gran voce.
- Io sarò un cappotto!

Quel giorno la vita di Giovanna prese una piega estremamente prevedibile come accade solo a chi ha idee che gli altri non comprendono, tanto che la piccola stralunata che voleva diventare un cappotto, divenne sul momento la prima canzonatura di Diego il bimbo attore, che cominciò a cantilenare "Giovanna Cappotto, con occhi da cerbiatta, esprime desideri, proprio da bimba matta".
Marco il bimbo cuoco, la punzecchio con un rametto.
- Io qui non vedo stoffa da cappotto, ma solo delle magre braccine, una testa e due codini.
Ogni parte del corpo che citava, il cuoco la cerchiava nei contorni col rametto, come in quei disegni che si vedono dal macellaio, dove la mucca o il maiale hanno il corpo diviso da linee tratteggiate.
- Gambe, piedi, spalle… ma! Che dire! Non vedo asole e bottoni.
- Su dai andiamo, è una femmina! Cosa vuoi che capisca?
Con questa arringa l'avvocato scaldò definitivamente gli animi dei tre maschietti, che se ne andarono verso casa ridendo della povera Giovanna, che rimase lì da sola; l'unica che a dire il vero non era ancora diventata quello che voleva diventare.

Probabilmente è davvero facile far qualsiasi mestiere, perché basta seguire la via che già in tanti hanno percorso. Tutto si impara, tutto può essere spiegato, appreso o cucito addosso, tutto tranne voler diventare un cappotto, il che presuppone un certo tipo di allenamento che nessuno ti può di sicuro insegnare, si deve procedere per tentativi.
Poi ci sono le malelingue, che magari non approvano quel tuo bislacco desiderio.
Ma da quel giorno Giovanna cominciò ad intraprendere il difficile cammino di essere un cappotto, senza farlo notare troppo a chi le stava intorno.

I primi timidi tentativi furono quelli che avrebbe potuto improvvisare chiunque, come il nascondersi nell'armadio per una notte intera, ciondolarsi sullo schienale di una sedia, e più difficile tra tutti, cogliere di sorpresa un adulto lanciandosi sulle sue spalle.
Qualcuno aveva pazienza e lo prendeva per un gioco, altri la cacciavano in malo modo, come se quelli fossero solo i capricci di una bimba.
Non sarebbe stato facile diventare un cappotto senza destare troppi sospetti.
Un cappotto tiene caldo quando fa freddo! Per cui bisognava familiarizzare con certe temperature; in inverno Giovanna se ne stava piazzata su un qualche marciapiede, giocando alla campana vicino ad un incrocio, così da poter trovare una bella corrente ancor più fredda che la spingesse più in alto ad ogni saltello.
D'estate la questione si faceva ben diversa. Nonostante la sua incrollabile volontà, sua mamma l'avrebbe spinta di sicuro fuori in giardino, se l'avesse vista starsene per un intera stagione chiusa nel ripostiglio.
- Ma che fai, non sei mica un calzino vecchio!
Così per farla franca si ingegnò anche lì per passare inosservata.
Chi mai avrebbe sospettato di una bimba che mangiava in continuazione gelato o che si lanciava nell'acqua fredda di una qualche fontana?
Imparò a tenere a bada il freddo.
Giorno dopo giorno l'allenamento diede i suoi frutti e senza dover dispensare troppe spiegazioni in giro, Giovanna ormai grande divenne finalmente un cappotto, il giorno che incontrò "Leone il barbone".

Quel disperato se la portò via ai primi freddi, la incontrò che sventolava appesa ad un cancello. Lassù c'era finita mentre stava facendo uno dei suoi soliti allenamenti da cappotto, ma quel giorno il vento era così forte, che era volata via, trascinata per un paio di isolati prima di aggrovigliarsi su quelle creste.
Leone incredulo davanti alla fortuna che gli era capitata, se la caricò sulle spalle e lei subito si accoccolò lì intrecciandogli le braccia intorno al collo, come si fa con le sciarpe.
- Ah! Che fortuna! Sembra nuovo, mai indossato.
Disse Leone mentre se la lisciava addosso per vedere come gli stava Giovanna.
Lei avrebbe voluto rispondergli, ringraziandolo per quella frase così carina, ma dove si era mai sentito dire che un cappotto potesse parlare?
Rimase in silenzio.

Essere il cappotto di Leone era uno spasso, andavano in giro tutto il giorno e non c'era da preoccuparsi troppo, lui sapeva fare un sacco di cose.
Sapeva dormire arrotolato nei giornali, sapeva che quando si bagnava gli conveniva asciugarsi nudo al sole, sapeva addirittura fare cerchi con il fiato quando in inverno c'era davvero tanto freddo.
Ma tutte queste cose, che per i più erano solo "tipiche occupazioni da barbone" per Giovanna erano ben altro.
Lei lo aveva capito. Leone non era un barbone, si stava allenando anche lui per diventare quello che voleva diventare davvero: fragrante tabacco.

L'uomo si dannava perché nonostante fossero anni che portava avanti i suoi allenamenti, mancava ancora qualcosa affinché potesse diventare dalla testa ai piedi completamente tabaccoso.
Giorno dopo giorno con addosso il suo cappotto, si arrotolava nei giornali, faceva i cerchi di fumo con la bocca e soltanto quando si essiccava al sole, rimaneva nudo.
Giovanna lì piegata in un angolo, un po' arrossiva a vederlo spaparanzato senza nulla addosso e poi quando pensava "come è bello Leone", con la manica si ripiegava ancor di più su se stessa, per non farsi scoprire a sbirciare.
- Si sta alzando un forte vento!
Disse il barbone al cappotto, che non rispose per rimanere nella parte.
- Guarda che con me ci puoi parlare… Non lo sai che i barboni sentono le voci e parlano con le cose?
Aggiunse dandogli le spalle mentre si cominciò a rivestire.
- Non lo sapevo… beh allora… anche io ti rivelerò un segreto… so come fare in modo che tu sia davvero fragrante tabacco.
Disse lei timidamente.
- Ah interessante!
Leone si girò guardandola, mentre la sua testa sbucò dalla maglietta stropicciata.
- E come si fa?
Giovanna sorrise.
- Beh come prima cosa, infilami…

Il vento si fece più deciso, Leone si infilò il cappotto che si gonfiò come una vela.
Giovanna aveva imparato a farlo nei suoi tanti allenamenti, quando saltava sulla campana o quando volò via e si andò a fermare sul cancello.
Il cappotto si strinse così forte al collo di Leone che questa volta entrambi presero il volo.
- Wow! Ma questo cosa c'entra con il diventare tabacco?
- Me l'hai insegnato tu, non si può essere cappotto da soli, bisogna trovare chi ha bisogno di indossarti.
- Continuo a non capire, ma va bene lo stesso… e' divertente starsene quassù.
Il mondo là sotto sembrava così piccolo, i ricordi di una vita da esseri umani si facevano sempre più lontani.
Le gambe di Giovanna sventolavano al vento, mentre continuava a tenere le braccia incrociate al collo di Leone, senza lasciarlo neanche per un solo istante, poi gli disse:
- Senza aria che filtra, il tabacco non può bruciare da solo!
- E adesso che c'è aria, come gli diamo fuoco?

Chi fosse passato la sotto in quel momento, probabilmente non avrebbe compreso davvero quella scena, nemmeno se fosse stato un cuoco, un attore o un avvocato di esperienza, che con il naso all'insù avrebbe visto solo un cappotto e del tabacco trasportati dal vento, una scena curiosa ma di sicuro per loro tre, un evento insignificante.
Giovanna lo baciò, come quando tiri una lunga ed intensa boccata di fumo, infine lo aspirò e Leone prese fuoco.

martedì 18 dicembre 2012

Le regole della guerra - (carte estratte: 10 11 7 - tiraggio di Jacopo L.)



Era l'orso che gli aveva strappato via le mani, le teneva strette tra le fauci, ritto in piedi mentre lui ormai quasi privo di sensi, faceva fatica a riconoscerne la sagoma.
Oltre al suo sangue, se ne andava via anche il giorno.
- Stai tornando alla tua grotta?
Fu il suo ultimo pensiero prima di perdere i sensi, e in quella grotta anche lui sarebbe andato per riprendersi le mani.

Tornare da una guerra non è mai come ce lo si aspetta, e Matugenus lo imparò presto sulla propria pelle.
Nessun guerriero era mai stato alla sua altezza, poiché tale era la destrezza che aveva nel polso, da far sembrare ogni arma la naturale estensione della sua gloria.
Spada, arco, mazza chiodata o lancia, si protendeva dal suo corpo per finire in quello dell'avversario, aprendosi la strada tra le carni verso il cuore del nemico.
Matugenus ora non aveva più le mani, e non perché le avesse perse in battaglia - quella a dire il vero non sarebbe stata una macchia troppo scura sul proprio orgoglio - ma perché un orso gliele aveva strappate via senza ragione.
Sulla via del ritorno da una guerra, un eroe può risvegliarsi barzelletta.

Non c'è onore se non si muore in battaglia, se non si è feriti da un'arma o se non è un nemico a strapparti via le carni, lo sapevano bene persino i bambini, che dopo "quell'incidente" non lesinavano sul donare a Matugenus una buona dose di pernacchie quotidiane.
Quello che una volta era un guerriero, ora si ritrovava a partire per riprendersi ciò che era suo di diritto, quelle mani che lo avrebbero fatto tornare unico tra gli unici.

L'inverno era spietato ed avanzando nella tormenta, Matugenus tenne ben salda l'idea che quello fosse un punto a suo vantaggio, avrebbe percorso quelle terre cercando in ogni grotta, staccando la testa ad ogni orso finché non avrebbe ritrovato ciò che gli era stato portato via senza onore.
Non avendo più le mani, cavalcò per miglia tenendo le redini strette tra i denti, scavando così sul suo volto un ghigno che spaventava tutti gli animali del bosco.
La voce si sparse tra le bestie quando i primi orsi caddero nel sonno. Le loro carni vennero strappate a morsi, i crani sfondati dagli stivali, scuoiati e smembrati, lasciati a pezzi senza possibilità di venir fuori dal torpore del letargo.
Matugenus ad ogni caverna, si portò via qualche pezzo d'orso, legandoselo addosso, usando i piedi dove non riusciva a fare un nodo con le dita; tutti avrebbero dovuto temerlo, così come era stato tra gli uomini.
Le regole della guerra ora si sarebbero estese al regno animale.
Con le pelli si fece pellicce, con le zanne pugnali che usava per ferire, le ossa frantumate potevano forare, facendo sperimentare nuovi dolori a chi lo aveva privato del suo onore.
Il guerriero passò un intero inverno a portare in ogni antro il terrore, finché non giunse a primavera, dall'orso che con altrettanta violenza gli aveva strappato le carni.

Matugenus sapeva bene che quella sarebbe stata la sfida più difficile da portare a termine, quell'orso ormai era sveglio, pronto a ricambiare tutta quella violenza con altrettanta.
Il guerriero era consapevole che il dolore che aveva fatto conoscere agli altri orsi, lo avrebbe reso un avversario ancora più detestato da quest'ultimo, aveva di nuovo la possibilità di vincere con onore, stando di fronte ad un nemico che ora finalmente lo odiava.

- Cosa vuoi da me uomo?
Gli disse l'orso appena Matugenus scese da cavallo.
- Sono venuto qui per riprendermi ciò che è mio.
Dalle pellicce alzò i moncherini che tese verso il possente nemico che aveva di fronte, ai suoi avambracci lacci in pelle ben stretti borchiati da zanne d'orso.
- Rivoglio indietro le mie mani!
L'orso scoppiò in una grossa risata, fino a ruzzolare per terra.
La rabbia si impadronì di Matugenus, pronto a riprendersi con ogni mezzo ciò che gli apparteneva.
- Allora hai proprio sbagliato tutto uomo! Le mani non le devi chiedere ad un orso, ma ad un altro essere umano.
Matugenus rimase senza fiato, l'orso continuò a spiegare.
- Hai ucciso molti miei fratelli, ma quello che hai ottenuto sono pelli, zanne e ossa. Puoi uccidermi se vuoi, ma anche in me troverai solo questo: purtroppo niente mani.
E dicendo così alzò le zampe anteriori per farle vedere bene a Matugenus.
- Se vuoi riprenderti quello che pensi sia tuo, uccidi un altro uomo, su quello di sicuro le potrai trovare.

Così a Matugenus fu chiaro, che le mani non gliele aveva portate via l'orso, ma le sciocche regole degli esseri umani.

venerdì 7 dicembre 2012

La moneta sulla fronte - (carte estratte: 8 1 14 - tiraggio di Francesca L.)



Nessuno aveva scampo di fronte al giudice.
L'uomo aveva escogitato uno stratagemma per poter condannare con assoluta certezza ogni colpevole, in aula seduto in alto sul suo seggio, portava appoggiata alla fronte una moneta d'oro.
Potrà sembrarvi ridicolo, ma di sicuro non lo era per nessuno degli accusati, che ad ogni Toc! del martelletto, finivano dietro alle sbarre, chi per furto, omicidio, poco rispetto o solo desiderio.
La moneta sulla fronte del giudice era il suo terzo occhio, quello che riusciva a vedere più a fondo degli altri due.
Nessun imputato era in grado di distogliere lo sguardo dalla moneta, da quando entravano in aula quel disco d'oro catturava la loro attenzione; gli occhi fissi sulla fronte del giudice diventavano un'ammissione di colpa, per lui chi desiderava l'oro era capace di qualsiasi crimine.
Ad ogni sguardo insistito, un colpo di martello assicurava l'imputato alla giustizia.
Quanti colpevoli si erano avvicendati di fronte al terzo occhio del giudice.
Poi un giorno in tribunale, ci venne portato un macellaio fiero dei propri crimini.
Questi, sfacciato con le scarpe ancora grondanti sangue, si era macchiato di orribili crudeltà, scuoiando, sfilettando e disossando tutti coloro i quali avevano osato posare con troppa insistenza gli occhi su Angelica, sua moglie.
Lei era bella, gli altri tutti morti.
Ogni passo del macellaio verso il banco degli imputati, era accompagnato dal suono molle di quelle calzature inzuppate, il sangue formava piccole pozze come se l'uomo avesse ai piedi spugne; la carne era il suo cammino.
Il macellaio si fermò di fronte al giudice, che dall'alto banco colse con la base dell'occhio il rosso che si espandeva. Piegò lo sguardo attratto da quelle pozze, cercando però di non piegare la testa per non ammettere la propria eccitazione.
Era troppo in alto sul suo seggio per riuscire a vedere davvero le scarpe dell'accusato, così mentre quello cominciò a fissare la moneta d'oro, il magistrato si mise a fissarne le calzature cedendo all'inclinare la propria testa, in quel momento furono in equilibrio.
La moneta perse la presa e cadde dalla fronte del giudice colpendo il banco con un sonoro Toc!
Non fu così il martelletto a sancire la condanna, ma la moneta.
Il macellaio fu dichiarato innocente e il giudice perse il proprio mestiere.

sabato 24 novembre 2012

Maddalena incinta nella schiena - (carte estratte: 9 2 16 - tiraggio di Mara A.)



Lo strano caso di Maddalena, fu forse uno degli eventi più significativi che colse il paese di Monabella, senza però che alcuno mai se ne rendesse conto.
Esistono a volte storie così ben celate, che si trovano a toglier ricchezza dove invece potrebbero darne.
Maddalena rimase incinta ma nella schiena, dopo aver conosciuto il giovane Rolando. Lui come seconda cosa che fece, l'abbandonò, immaginando che quell'insana gravidanza lo avrebbe messo in cattiva luce.
Seppur preferendo una classica posizione "missionaria", Rolando si allontanò da lei al solo pensiero che a Monabella, si potesse dire che quel figlio fosse storto come il diavolo, l'unico che a dir di tutti, poteva fregiarsi di poggiare il proprio bastone da tergo e forse metter incinta dove non si doveva.
Quale meraviglia fu la prima volta invece, che Maddalena si trovò un bozzo nella schiena. Nonostante tutto già l'amava, quel piccolo pomo proibito alla base della colonna vertebrale.
Madre.
Finalmente anche lei avrebbe potuto fregiarsi di quella carica e non le importava di certo se quel figliuolo dalla schiena le sarebbe venuto fuori.
Mentre che la pancia… oh perbacco! volevo dire… la schiena le cresceva, nei nove mesi dovette trovare modi inconsueti per viver in quella condizione. Una gravidanza è pur sempre una gravidanza, fatta di nausee, voglie e dolori alla schiena.
Lei pero' li aveva sulla pancia, perché invece di far forza sui lombari, per controbilanciare il pancione, eran gli addominali ad esser tesi per tenersi eretta. Per il resto tutto straordinariamente uguale e insensato.
E la domenica alla messa, quanto ridere!
Non poteva di sicuro sedersi sulla panca, rischiando di schiacciar quel pomo che ormai s'era fatto cocomero, così le era venuto in mente che poteva esser più interessante stare inginocchiata davanti al santo, piuttosto che all'altare: tutti la consideravano la più devota.
Cosa in parte vera, se la devozione si pesasse in amore verso una nuova vita.
Nove mesi così, tenendo nascosto quel frutto, senza preoccuparsi di far capire agli altri che ciò che è differente, non è altro che la massima espressione della natura creativa.
Nacque così la creaturina, bella e sana come nessun altra.
Fu allora che la gente cominciò a raccontare quella storia, poiché è ciò che viene messo alla luce del sole ad attirare l'occhio nelle zone d'ombra.
E da "madre" Maddalena divenne "donna abbandonata poverina".
La voce in città fu che quel figlio era nato dentro un mistero.
Ed era vera, ma non in quel senso. Chi mai lo avrebbe capito.
La straordinaria storia della gravidanza di Maddalena non divenne mai una storia, si fermò ad esser solo "chiacchiera di paese", che si spense pure troppo presto.

giovedì 1 novembre 2012

Horror vacui - (carte estratte: 15 0 14 - tiraggio di Andrea S.)



- Tra un mese esatto, lei perderà la memoria. E' una malattia rara, colpisce una percentuale minima della popolazione, ma ci si può convivere benissimo.

Non era un pensiero rassicurante.

- Alcuni tengono un diario e probabilmente sarà la prima cosa che le verrà in mente di fare prima di cadere nel vuoto. Le consiglio di evitarlo: chi soffre di un disturbo come il suo, tende a legarsi a ricordi che non gli appartengono più. Sò che è difficile accettarlo, ma la consideri una seconda opportunità per ricominciare da capo.

Il dottor Schumann, mi congedò con un abbraccio sincero per la prima volta.
Quel gesto non lo faceva da psichiatra, tanto che prima di stringermi si tolse gli occhiali.
Poi mi scostò tenendomi per le spalle e guardandomi da sotto le folte sopracciglia disse:
- La prossima volta che ci incontreremo, lei non si ricorderà di me, ed è un bene, poiché non avrà più bisogno di nessuna seduta psichiatrica. La sua malattia è l'unica cura che funzioni davvero.

Quel giorno stesso cominciai a scrivere un diario.

Horror vacui

Clara ripose le camicie nella cassettiera. Tendeva a piegarle sempre nello stesso modo, così che non vi rimanesse quell'antipatica piega centrale: bastava chiuderle a libro, non come avevano sempre fatto le altre governanti.
Le altre.
Nessuna fino a lei, era mai riuscita a resistere così tanto a casa Maier, perché il "signore" aveva una strana malattia o forse era meglio dire "aveva avuto". Ora stava bene, ma proprio quella da tre anni era la sua più grande infermità.
Gustaf Maier aveva perso la memoria e da quel momento aveva fatto di tutto per recuperarla, non aveva mai accettato che un certo morbo si fosse preso il diritto di svelargli chi fosse veramente.
L'unica cosa che ricordava della sua vita precedente era che in pochi minuti tutto il suo ego era stato spazzato via; poi subito dopo, un altro Gustaf Maier lo aveva fissato incredulo dallo specchio.
Da quel giorno cominciò a tenere un diario, sul quale annotava ossessivamente, tutte le azioni ed i pensieri che compiva nella giornata.
Quello era il motivo per cui tutte erano andate via.
Nessuno era rimasto con Gustaf, forse nessuno c'era mai stato, poiché in quella casa tre anni prima, davanti allo specchio ci si era ritrovato da solo.
La sua tenuta era in campagna e seppur chiunque giù in paese era riuscito a dargli un qualche riflesso della sua vita precedente, nessuno di quei racconti per sentito dire, erano bastati a ricostruirne l'intera memoria.
Erano solo riflessi.
"Un solitario" lo avevano definito, ricco non si sa bene il perché (tanto da destare nei più, sospetti ed invidie), neanche il dottore lo aveva mai visitato.
A lui questo non bastava.

A Clara invece non sembrava affatto così, in un certo senso lo considerava un filantropo: in quel diario c'era anche lei, tutte le sue mansioni, le parole, le azioni.
Al diario del signor Maier era ormai affidata anche la memoria di Clara.

Poi un giorno, la governante trovò un altro diario.

Accadde un po' per caso che la memoria tornò a galla all'improvviso, rimettendo in ordine dei vecchi libri nello scantinato.
In quelle pagine c'era ogni cosa successa fino al momento in cui arrivò per Gustaf il vuoto.
La sua prima reazione istintiva fu quella di correre dal signor Maier con la scoperta in mano, ma subito dopo Clara si sentì gelosa della "sua" memoria.
Quel secondo diario avrebbe potuto spazzare via in un istante, quello che lei ora aveva di più caro: il Gustaf che conosceva.
Portò sotto la gonna il diario fino nella sua stanza e si premurò di chiuderlo a doppia mandata nel baule, andando ogni sera a scoprire qualcosa di nuovo sull'altro Gustaf.

La vita di Gustaf Maier, fino al momento in cui non venne spazzata via, era una vita felice.
Un uomo dalle tante aspirazioni, un poeta appassionato della vita, che aveva senza alcun dubbio saputo amare.
Decisamente molto lontano dai racconti dei compaesani che lo avevano conosciuto poco, ma estremamente più vicino a quello che Clara aveva sempre desiderato.
Il signor Maier la rendeva felice con il suo diario, le dava tutta l'attenzione che pensava di meritarsi: lei per lui era davvero importante, così tanto che ogni azione veniva registrata su quello.
Certo, tutto quell'interesse nei confronti di Clara era veicolato dall'urgenza di non scomparire una seconda volta, ma per lei era una passione autentica, un legame così forte alla vita, da andare al di là di ogni giustificazione razionale.
Invece al contrario Gustaf Maier aveva amato davvero, ma un'altra donna, di cui non aveva mai scritto il nome.
Sull'altro diario la chiamava semplicemente "la mia sposa".
Clara cominciò così a riscrivere il secondo diario, per aggiustare il Signor Maier.

A Gustaf, Clara era piaciuta subito.
Di governanti ne aveva avuto tante negli ultimi tre anni, ma tutte lo avevano guardato come un pazzo.
In realtà lui non si sentiva un folle, pensava solo di essere guarito nel modo sbagliato, o per lo meno in un modo che non avrebbe voluto.
Forse pensandoci meglio, Clara gli ricordava qualcuno: se tutte le altre proprio non lo avevano soddisfatto, doveva essere perché nella sua vita precedente non c'era mai stato spazio per persone come quelle.
Invece quella giovane governante era perfetta.
Non faceva troppe domande, teneva tutto in ordine e piegava le camicie in un modo tutto suo.
Lui non le avrebbe mai piegate così e questa cosa lo sorprendeva.
Se mai avesse avuto, per abitudine, qualche dubbio nel tenere Clara a servizio, gli fu chiaro che fosse la persona giusta, il giorno in cui lei sorrise nel vedere il proprio nome sulle pagine del suo diario.
Per Gustaf quel diario era più di un semplice libro di memorie: era la memoria stessa, quella vera perché dell'altra aveva imparato a diffidare.
Gli sarebbe piaciuto poterne dire il perché, ma non se lo ricordava.
Da quando Clara era entrata nella sua vita, molte cose erano migliorate, tanto che quel diario, sempre di più stava diventando il diario di Clara invece del suo.
Che cosa bizzarra è la memoria, pensiamo che sia affar solo nostro ma a pensarci meglio è l'insieme delle azioni degli altri.

Di giorno Gustaf scriveva di sé e di Clara, mentre di notte rileggeva.
Era piacevole e rassicurante poter ritrovare ciò che era successo ieri o qualche mese prima.
Poi gli venne in mente che se avesse voluto ricordare ogni cosa, avrebbe dovuto scrivere che in quel momento contemporaneamente stava rileggendo, che adesso era ieri, venendo inghiottito così in un assurdo incastro di matrioske che lo fissavano.
Gli sembrò sciocco e in quel momento di debolezza, sorprese se stesso a pensare a cosa avesse Clara sotto la gonna.
Ne immaginò le cosce e in mezzo a quelle un diario segreto che una volta tanto avrebbe voluto leggere e non scrivere.
Stava guarendo, e questa volta come voleva lui.
Quella notte fecero l'amore per la prima volta.

Da quel momento lui non scrisse più alcun diario e cominciò a chiamarla "la mia sposa".

Tre mesi dopo quella notte, Gustaf Maier rimettendo in ordine tra i vecchi libri in cantina, trovò un altro diario, che risaliva al quando aveva ancora la sua prima memoria.

- Tra un mese esatto, lei perderà la memoria. E' una malattia rara, colpisce una percentuale minima della popolazione, ma ci si può convivere benissimo.

Cominciò a leggere.

Tra tutti i ricordi che vorrei rimanessero con me, questa frase è l'unica che vorrei dimenticare.
Il dottor Schumann ha cercato di curarmi per anni: mi disgusta la depressione.
Non è mai riuscito a guarirmi, ma dice che sarà un morbo a curare definitivamente la mia tristezza.
Ha detto che dopo il vuoto potrò ricominciare a vivere, scegliendo chi vorrò veramente essere.
Io lo so già chi sono ed è per questo che spero di potermelo un giorno raccontare, allora sarò davvero felice.
Sono un uomo solo, che vive lontano dal paese, in una tenuta mia da sempre, non ho mai amato davvero perché non lo volevo fare.
Perché dover portare anche lei nel vuoto?
Non voglio che "la mia sposa" soffra vedendomi triste e poi allegro e poi ancora triste.
Dopo che il dottor Schumann mi ha detto di non scrivere un diario, per rabbia gli ho portato via il suo o quello di un altro, non lo so.
E' stato dopo aver letto quello, che ho deciso di scrivere il mio.
Prima dello scadere del mese, quando vedrò ormai il vuoto nel cortile che si starà avvicinando, li metterò entrambi in cantina, tra i vecchi libri che non rileggo più.
Dopo essere sparito, scriverò un altro diario.

Clara in vestaglia in cima alle scale che portavano alla cantina, lo richiamò alla realtà.
- Gustaf cos'hai che ti preoccupa tanto?
Lui la guardò, chiuse il diario e cominciò a risalire le scale. Si incontrarono a metà strada.
- Qui ci sono io, o per lo meno credo di esserci, non voglio saperlo.
Le passò il diario.
- Adesso che ho te, so chi è Gustaf Maier e questa memoria non sono sicuro sia la mia. Il diario parla di un altro diario, ci sono troppi Gustaf Maier in questa cantina.
Poi Gustaf la superò per tornare in superficie.

Due diari, uno vero ed uno falso: quale dei due Clara aveva falsificato?
Doveva saperlo!
Quale dei due aveva sposato?

La sposa tornò nella stanza da letto, prese anche l'altro diario, quello che aveva riscritto, e il terzo che Gustaf non aveva più voluto continuare.
Si tolse la vestaglia e mise un vestito. Lo studio del dottor Schumann distava tre ore di treno.

L'appartamento in cui il medico esercitava, era all'incrocio tra due strade, in pieno centro.
Clara camminava svelta sul marciapiede, questa volta i diari non erano nascosti sotto alla gonna, ma li teneva stretti incrociando le braccia; se un qualche rapinatore in un vicolo buio le avesse sparato, sarebbero stati quelli a salvarla, invece di una più classica bibbia.
Salì in fretta le scale, passò la nuova segretaria ed entrò nella stanza dove Schumann riceveva i pazienti.
Di vederla entrare all'improvviso non ne fu contenta la signora in abito giallo distesa sul lettino.
Clara scaricò i libri sulla scrivania del dottore.
- Qual'è quello autentico?
Lui la guardò senza capire come mai lei fosse lì.
- Clara?
La donna in giallo strinse la borsetta e si fece rigida, il dottore la guardò, poi si alzò ed alzò l'indice verso la donna dicendole:
- Signora Palmer, se ci vuole scusare...
Strinse la mano attorno al braccio di Clara e spostandola di peso la portò fuori, chiuse la porta.
- Sei forse impazzita? Piombi qui dopo tutti questi anni, mi aggredisci e spaventi i miei pazienti.
- Qual'è quello autentico?
- Ma di che diavolo stai parlando?
- Il diario di Gustaf Maier! Mio marito! Qual'è il diario autentico?
Schumann (mentre la segretaria li guardava senza sapere bene cosa stesse succedendo) continuava a non capire, ma si ricordò di Gustaf Maier.
Era stato suo paziente tre anni prima, quando Clara era ancora la sua segretaria, poi Maier contrasse quello strano morbo che dava un mese di tempo prima di cancellare completamente la memoria.
- Clara… Gustaf è tuo marito? Vi siete conosciuti qui in studio.
Ora era Clara a non ricordare, di pazzi ne aveva visti tanti passare in quel posto - tutti uguali - era per quello che aveva voluto cambiare mestiere.
- Oh bella questa! Te ne vai via senza preavviso, perché non ne puoi più dei folli, e ti fai assumere a tempo pieno da uno di loro.
- Forse Gustaf era pazzo! Ma il morbo l'ha guarito. A lui interessava solo salvarsi scrivendo di noi.
Schumann sembrava divertito da quella storia, poi gli tornò in mente.
- Il diario che pensavo di avere perso! Ma certo! Ecco a cosa ti stai riferendo… si mi ricordo bene… allora ce lo aveva Maier!
Lo psichiatra scoppiò a ridere.
Aprì la porta dello stanza e Clara rimase indietro, mentre Schumann continuava a ridere si accostò alla libreria.
La donna sul lettino era ancora nella stessa posa in cui l'avevano lasciata, si limitava a seguire quella scena ruotando solo gli occhi.
Poi la sposa entrò, vedendo che lo psichiatra stava tirando giù dalla libreria troppi diari, andandoli ad ammucchiare sopra a quei tre che Clara aveva scaricato lì poco prima.
- Eccoli! Sono tutti autentici! Tutti scritti dalla stessa persona! Il tuo Gustaf deve aver preso quello che non riuscivo più a trovare.
Clara non riusciva a distogliere lo sguardo da tutti quei diari, che ormai avevano completamente fagocitato i tre che aveva portato lei.
- Sei venuta qui per scoprire chi è veramente Gustaf Maier? beh! mi dispiace ma non posso esserti d'aiuto nel senso che intendi tu. Ma una cosa è certa: posso dirti chi è Vincent, andando per esclusione troverai Gustaf.
A Clara per un attimo tornò in mente Vincent e nonostante si sforzasse di ricordare tra tutti i pazienti chi fosse stato Gustaf, non ci riusciva.
Anche Vincent contrasse il morbo, ma la sua malattia divenne cronica ed ogni mese si ripeteva.
Quell'uomo non faceva in tempo a finire un diario, che tutto ricominciava da capo, ne scrisse tanti e tutti differenti, tutti contraddittori.
Lui e Gustaf non si incrociarono mai, perchè quando contrasse il morbo, Vincent era già ammalato da anni ed internato in manicomio per esser guarito troppe volte.
- Non posso dirti nulla di Maier, veniva per curare la sua depressione, chissà quante mezze verità mi avrà raccontato su quel lettino.
La donna in giallo annuì.
Clara senza dire una parola, cominciò a cercare tra tutti i diari quello in cui si parlava di lei.
Poi quando lo trovò se ne andò via.
A dire il vero non ricordava più quale dei diari aveva modificato, se quello trovato la prima volta in cantina o quello che la sera Gustaf rileggeva.
Non se lo ricordava più.
Salì sul treno e tre ore dopo era di nuovo a casa.
Tre mesi dopo il dottor Schumann andò a trovare gli sposi, ma Gustaf Maier non riconobbe lo psichiatra.