mercoledì 21 marzo 2012

Il bracciale del domatore - (carte estratte: 11 6 21)






La storia che oggi vi voglio raccontare è sporca e puzzolente, e a dire il vero cambia di molto in base al verso per cui la si prende.

C'era un domatore di leoni che era prossimo al matrimonio, per la sua bella teneva da parte come dono un prezioso braccialetto in oro senza ricami né pietre preziose, ma liscio e puro così come lui pensava sempre al loro amore.
Visto che tra saltimbanchi, giocolieri e trapezisti non ci si può fidare, per evitare che qualcuno gli portasse via quel bel regalo, lo tenne per parecchi mesi sotto al polsino della sua camiciola, indossandolo sul braccio sinistro che va diretto al cuore.
Neanche a farlo apposta, nel giorno prima delle nozze, il numero con il leone andò storto e quando tra quelle fauci ci infilò la mano per dar prova di coraggio, la fiera si ingoiò il braccial senza ferirlo.
Oh sventurato domatore che lì per lì neanche ci fece caso, così preoccupato che qualcun altro si portasse via il suo bracciale, da non veder che quello era finito nella pancia del leone dal tocco gentile.
Così quando giunse il momento di far sfoggio del suo "valore", al proprio polso trovò solo un bracciale d'aria e niente.
Perdindirindina il prezioso se l'era pappato il leone, e per facilitarne l'espulsione gli diede da mangiar doppia razione di carne condita con tanto, ma tanto, olio.
Niente da fare. Perché il nostro domatore non mise in considerazione un fatto: che far uscire un buco da un altro buco, non è cosa banale.
Eh si! perché se ingoio una moneta, il cibo ingerito la spinge in fondo verso il buco, ma se ingoio un bracciale che altro non è che un secondo buco, il cibo non spinge ma gli passa nel mezzo.
Ora questo spiega perché questa mia storia è sporca e puzzolente, ma sopratutto l'importanza del verso in cui una questione la si prende.
Dov'era il bracciale tra quelle viscere? Più vicino alla bocca o più al culo?
Perché una decisione andava ben presa se si voleva con mano salvare il proprio amore, nel giorno prima che l'anello trovasse posto, su una tra le cinque dita della propria mano.

giovedì 16 febbraio 2012

Squinch, squiiiiinchhh, crrrrr, squinch - (carte estratte: 9 19 3 - tiraggio di Silvia B.)



Quand'ero molto piccola, vivevo con la mamma in una minuscola catapecchia di legno marcio.
Un giorno giunse un messere in armatura ed edificò per noi una casa di solidi mattoni, dandoci un tetto caldo sotto cui vivere: è per questo motivo che ora lo odio con tutta me stessa.


I

Nel bel mezzo del niente, che aveva il colore di una pianura erbosa tra tre colline, c'era una traballante catapecchia di legno marcio.
La cosa che tra tutte vi avrebbe catturato l'attenzione se foste passati da quelle parti era l'odore delle travi rese molli dalle molte piogge, un marcio di cui si aveva il sentore anche a cento metri di distanza, e le fessure tra asse ed asse parevano il vuoto tra i rebbi di una forchetta.
La casa quasi non si reggeva in piedi e non c'era un solo chiodo che tenesse quelle assi salde, traballava ad ogni leggero soffio del vento, tant'è che chi l'abitava viveva fuori per non rischiar di vedersela cadere addosso.
Un tetto è bello io dico, ma se non te lo vedi calar troppo vicino al capo.
Serenella, così si chiamava colei che viveva lì, aveva solo due cose: sedici anni e una figlia di appena tre mesi, che si chiamava Serena.
Certo c'era la catapecchia, ma dico che aveva solo due cose perché chi mai vorrebbe dire di possedere una dimora di legno marcio? E poi vivendo fuori era come non averla.
Oltre a queste quattro mura, un pò più in là c'era una vacca malconcia, che girava spersa per i campi e qualche volta dava quel poco latte che aveva alla piccola Serena. Qualche radice strappata qua e là invece teneva in piedi Serenella.
Il destino era stato infausto per quelle due povere anime, ma un giorno che era ormai quasi sera, Serenella vide arrivare dritto dalla collina un cavallo che pareva fosse alla carica. La ragazza strinse forte Serena e diede le spalle a quello, così che se l'animale le avesse travolte entrambe, ella avrebbe fatto scudo con la schiena alla figliuola; ma il cavallo, si dimostrò particolarmente educato e non solo si fermò ad un metro dalla donna, ma la salutò anche con garbo.
- Mia dama le rendo omaggio.
Serenella non aspettandosi un cavallo tanto educato si girò di scatto trovandosi viso a muso con quello, il quale le fece uno sbuffo sul naso girandole i capelli dal verso opposto.
- Mio gentile cavallo, la ringrazio di aver avuto pena di noi ed essersi fermato, ho temuto per la mia vita e per quella della mia piccolina.
- Madamigella a dire il vero anch'io ho temuto per la mia stessa salute, tant'è che me medesimo ringrazio il cavallo per essersi quietato.
A Serenella qualcosa non venne chiaro, ma il cavallo continuò a favellare.
- Or le sarei tanto grato se mi potesse sbrigliare da questa angusta posizione.
Il cavallo seppur parlasse non muoveva le labbra, e poi a dirla tutta la voce sembrava venire più dal basso. Serenella si piegò e testa al contrario diede una sbirciata tra le gambe del cavallo: appeso come un pipistrello alla pancia dell'equino vi era un cavaliere all'incontrario, con tanto di armatura ed elmo pien di bozzi con tutte le pietrate in capo che doveva essersi preso in quella posizione.
- Che ci fate li sotto messere? - domandò Serenella con Serena che si reggeva stretta in grembo pure lei in quella scomoda posizione.
- So bene che può sembrare sciocca codesta condizione, ma quando ho sellato il mio cavallo devo aver lasciato troppo largo il cuoio, così che in marcia da posizione a mezzogiorno, mi son trovato alle sei.
Slacciata la cintura sulla schiena del cavallo, il gentiluomo ribaltato finì per terra con un tonfo sordo e rimessosi in piedi si inchinò a Serenella.
- Mia signora, vi devo la salute della testa, un solo colpo in più e sarei andato fuor di senno.
Il cavallo senza più quel fardello appeso al ventre, si voltò e riprese a galoppare, lasciando lì il povero messere che non poté far altro che salutar da lontano la bestia.
- Mi vedo costretto a chiedervi ospitalità per questa notte mia dama, non vi arrecherò disturbo, dormirò qua fuori e voi potrete stare nella vostra splendida dimora. Ho come la sensazione di essermi dimenticato qualcosa, saran state tutte quelle botte in capo. - disse il cavaliere bussandosi con il guanto in ferro sull'elmo - Ma son convinto che una notte di riposo mi schiarirà le idee.
- Non se ne dispiaccia, ma un messere come voi mi vedo in obbligo di farlo stare al riparo. - disse Serenella sapendo bene che non era cosa sana per la bimba star sotto quel tetto - E non voglio sentire il contrario: ve lo chiedo come dama a cavaliere.
Il messere non poté controbattere e accettò di dormire nella catapecchia.
La vera ragione poiché Serenella spinse l'uomo a dormir lì dentro fu per non entrar nel merito di una qualche situazione sconveniente. Non poteva di certo dormir nella stessa stanza con un uomo di cui non si fidava, soprattutto nella sua condizione di madre, e poiché la loro vera stanza da letto era sempre stato il prato, le sembrò naturale confinare quello tra le quattro mura di legno. Ma la mattina dopo anche questa si dimostrò esser stata un'altra infausta decisione.
Si perché quando le prime luci del sole fecero capolino tra le colline, il legno scricchiolò per l'umido che cominciava a ritirarsi, una scheggia si sollevò poco poco e un briciolo di polvere dal tetto scese giù, andando a finire nell'elmo che il cavaliere rincitrullito com'era non si era tolto. La polvere giunse al naso, ed un sonoro starnuto si portò giù tutta la catapecchia, schiacciando ancora una volta il povero cavaliere nella sua armatura.
Serenella si levo di scatto, mentre Serena esplose in un pianto, la casa si era ripiegata sul messere e alla ragazza tornarono in mente le parole di quello: Mia signora, vi devo la salute della testa, un solo colpo in più e sarei andato fuor di senno.
Fu così che il cavaliere uscì definitivamente fuor di crapa.


II

Serenella piantò una delle assi nell'elmo del cavaliere e spinse con tutta la sua forza, ma non per far male a quello: lo voleva liberare. L'elmo a causa del crollo si era tutto piegato ed ammaccato e non veniva più via dalla testa del messere, che benché fosse passata almeno un'ora, non proferiva una sola parola.
Era sveglio, perché dalle fessure la ragazza riusciva a vederne gli occhi, che ruotavano in tutte le direzioni.
Serena strillava a squarciagola, non si era ancora calmata e se ne stava sgambettando adagiata sul prato. L'asse si spezzò, sotto il peso del corpo di Serenella facendola cadere seduta a terra.
- Maledette assi marce! - disse la donna.
Il cavaliere improvvisamente si girò verso la piccola, e quella nel veder quel ammasso di ferraglia tutta storta che le veniva incontro cigolando, cominciò a ridere.
Quello muovendosi cigolava così: Squinch, crrrrr, e la piccola come un coretto faceva eh eh eh…
Lui di contro squinch, squinch, crrrrrr, squinc… e la frugoletta eh eh ah eh eh.
Il cavaliere sollevava un braccio, squinch! Muoveva un piede, crrrrr! E la piccola rideva: parevano un'orchestra.
Il messere tutto storto, si guardò intorno, girò su se stesso un paio di volte e poi si incamminò verso le macerie della baracca. Aveva completamente perso il senno: non parlava più, si muoveva in un modo completamente insensato, a volte andava di lato, poi usava una gamba e un braccio, tornava indietro e cigolava ad ogni movimento. La giovane Serenella lo guardava senza capire bene cosa quello stesse facendo, lui si avvicinò alle assi, le prese e cominciò a tagliarle sfregandole su parti dell'armatura che piegata e ritorta erano diventate affilate, le incastrò tra loro e ne fece tante piccole cassettine.
Partì e andò nel bosco lì vicino.
Serenella prese in braccio la piccola, che rideva ed indicava l'uomo che andava avanti e indietro senza fermarsi un solo istante, lo seguì con lo sguardo da lontano: quello scavava nella terra con un furia mai vista, tanto che sollevava polvere manco fosse una fontana, che al posto dell'acqua faceva zampillar la terra.
Andò a prendere l'acqua dal fiume, impastò la terra, ci aggiunse una fine ghiaia che andava man mano a sbriciolare a suon di cazzotti e infine usò le cassettine per modellare ed essiccar mattoni: tantissimi mattoni.
Mattone su mattone, il cavaliere storto e fuor di senno cominciò ad edificare una casa fatta di solido cotto, ed ogni notte dopo una carezza col guanto ruvido a Serenella, andava a rimboccare le coperte alla piccola.

Un'anno dopo, la prima parola che Serena pronunciò fu: Squinch, squinch, crrrrrr, squinc.


III

Ci fu una volta, quando Serena avrà avuto cinque anni e mezzo, che il cavaliere ammaccato fece scappare a gambe levate un orso bruno.
Sarà stato perché adesso Serenella non era più costretta a mangiar radici strappate qua e là, o forse perché la piccola amava il miele e ne avevano sempre un pò in casa, ma fatto sta' che un giorno arrivò un orso bruno nei pressi dell'orto vicino alla casa di mattoni.
Casa non ancora per davvero, molti muri erano stati edificati, scale, tettoie e un piccolo viottolo, ma c'era ancora molto lavoro da fare.
Il punto è che quella mattina il cavaliere spiegazzato, era alla ricerca di rami flessibili per intrecciare cestini e suppellettili. Squinch, crrrrrr, squinc, crrrrrr, si inoltrò nel bosco camminando sulle mani, deciso a risolver tutto entro il pranzo, ma per il suo modo alquanto bizzarro di deambulare si andò ad incastrare con quell'armatura puntuta in un arbusto pieno di foglie e rametti fini.
L'orso dopo essersi fatto un giro per l'orto, raccogliendo un pò di verdure cominciò a fiutare tra le mura della casa due prede facili facili: una donna e una bambina croccante.
Si avvicinò alla porta e cominciò a grattare sul legno: crrrrr, crrrrr, crrr.
- Che strano! - disse la piccola Serena alla madre - Qui fuori c'è il cavaliere che dice "Pietre piene di pane", cosa vorrà dire?
E andò ad aprire la porta senza pensarci due volte.
VRAAAAAMMM!
L'orso entrò in casa pregustando il suo pranzetto: verdure e bambina, con una spolverate di mamma.
Ma le nostre due che erano alquanto tenaci, si arrampicarono sino ad aggrapparsi alle travi del mezzo tetto completato, l'orso pigro com'era si sedette li sotto pensando che prima o poi sarebbero scese.
- Squiiiiiinncch! Crrrrrr! - gridava Serena verso il bosco per richiamare il cavaliere - Crrrrrrr! CRRRRrrrrrr! Squiiiinch.
Ma niente, nessuna risposta.
Passò almeno un'ora. Dove diavolo si era cacciato il cavaliere compresso? Poi pian piano in lontananza: Squinch, squinch, squinchhh, crrrr… Squinch, squinch, squinchhh, crrrr...
Che voleva dire: non temete! Stò arrivando!
Tutto arrotolato il foglie e arbusti, il cavaliere non avrebbe mai più permesso a nessuno di far del male alle due donne, al costo della propria vita.
Dalla finestra entrò come una furia quell'ammasso di foglie, rametti e cigolii, che l'orso neanche sommando le sue tre vite precedenti e le dodici successive, aveva mai assistito ad un simile trabiccolo infernale.
Il cavaliere come sempre fuor di senno usava braccia e gambe per muoversi manco fosse una ruota.
Crrrr, squinch, squinch, crrrrr.
E l'orso volava di qua.
Squinch, squinch, crrrrr, squinch.
E se ne volava di là, che alla fine se ne andò correndo all'impazzata, dopo che il messere gliele ebbe cantate tutte nella sua lingua cigolante.
Da quel giorno l'orso ogni volta che vedeva un cespuglio, si scusava e se la dava a gambe levate dall'altra parte.


IV

Passarono altri anni, ma questa volta senza orsi. Il cavaliere non si fermava mai, giorno e notte continuava a costruire, a tagliar legna, a far mattoni, batteva il ferro a suon di testate.
Una sera prima di andare a dormire, Serena chiese al cavaliere attorcigliato.
- Squinchh, crrr, crrrr, crrrr? Crrr, squinch!
Che voleva dire: Anche se ormai non sono più piccolina, mi racconteresti una favola? Quella dell'oca trottola!
Allora lui si sedette li accanto e cominciò a raccontare.
Mosse prima un braccio lentamente, per emettere un leggero e prolungato squiiiiiiiiiiinch, poi chiuse e riaprì il guanto veloce per due volte crrrr, crrrr.
Serena rise, la favola era appena cominciata.

Buonanotte.


V

Ancora qualche mattone e la casa sarebbe stata finita, erano passati nove lunghi anni dalla notte in cui era giunto il cavaliere all'incontrario. Tutto era pronto, Serenella e Serena stavano sul viottolo fatto di mattoni, con il cuore che batteva all'impazzata in gola e nelle tempie.
Il messere se ne stava sulla punta del tetto a finir di posizionare quei tre mattoni.
Tre, due, uno… finita!
Dove un tempo sorgeva una baracca di assi marce e senza chiodi, ora c'era una casa di mattoni che pareva un castello, con stanze grandi, finestre, porte solide e scale che portavano al piano di sopra, dove anche lì c'erano stanze, porte e finestre.
Fu tutta una seria di abbracci, baci e cigolii, i tre festeggiarono per tre giorni e tre notti, poi prese dalla stanchezza, Serenella e Serena caddero in un sonno profondo.
Il cavaliere arzigogolato le portò nei letti che aveva fatto per loro, come sempre accarezzò il viso di Serenella e rimboccò le coperte di Serena.
Poi in lontananza sentì un nitrito: un altro cavaliere era venuto per lui.
Scese al piano di sotto, prese gli unici due mattoni che gli erano avanzati e li mise in una bisaccia, uscì dalla porta principale e mentre si allontanava nella notte, la porta chiudendosi lentamente emise un leggero e prolungato squiiiiiiiiiiinch.

Il cavaliere schiacciato non tornò mai più.


VI

Ti odio con tutta me stessa, odio questa casa, ogni suo mattone.
Odio ogni tuo cigolio, odio quella porta quando si chiude.
Odio le finestre che gracchiano quando le apri, il legno che si impasta in un suono sordo.
Volevo tu non smettessi mai di raccontarmi le favole.
Me ne vado!
Anch'io.


VII

Passarono davvero tanti anni.
Serena era ormai diventata donna e in quella casa non c'era mai più tornata, Serenella al contrario vi rimase fino al suo ultimo giorno.
Per una vita intera, la figlia si era sempre chiesta la ragione per cui la madre non avesse mai odiato quei mattoni. Per lei forse era stato meno doloroso l'abbandono del cavaliere? Ci si può abituare alla dipartita?
Quando Serenella morì lasciò in eredità la casa di mattoni alla figlia, e quando Serena ricevette la lettera di successione decise che quella storia sarebbe finita lì per sempre.
Portò con sé decine di uomini, li armò di martelli, asce e corde. Avrebbero fatto piegare su se stessa quella casa, così come era stato per quella di legno, seppellendo una volta per tutte il ricordo del messere.
- Lasciatemi entrare per un ultima volta in quella casa maledetta, poi potrete tirarla giù.
L'interno della casa era buio, gli scuri non lasciavano entrare neanche un filo di luce. Serena volle vedere per l'ultima volta il suo nemico negli occhi, così decise di lasciar entrare la luce.
Si avvicinò agli scuri e li aprì.
Squiiiiiiinch.
Un lungo lamentoso cigolio.
Poi diede forza alle braccia per aprire le altre finestre.
Crrrrrrrr, crrrrr, crrrrrrrrr.
Cadde un bel pò di polvere, che finì dritta nel naso di Serena, la quale emise il più forte starnuto della sua vita.
Ecco entrare la luce! Un forte sole illuminò tutta la stanza.
Serena si guardò intorno.
A dire il vero, non aveva mai notato che l'orologio a cucù sopra il caminetto avevo solo la metà dei numeri, da uno a sei.
- So bene che può sembrare sciocca codesta condizione, ma quando ho sellato il mio cavallo devo aver lasciato troppo largo il cuoio, così che in marcia da posizione a mezzogiorno, mi son trovato alle sei.
Sul pavimento era stesa un pelle d'orso e sopra un cesto di rametti intrecciati che conteneva foglie di bosco.
- Dalla finestra entrò come una furia un ammasso di foglie, rametti e cigolii, che l'orso neanche sommando le sue tre vite precedenti e le dodici successive, aveva mai assistito ad un simile trabiccolo infernale.
Ogni cosa in quella casa parlava della loro personale favola.
Poi Serena cominciò a girare per le altre stanze, aprì la prima porta, squiniiiiiicccchhhh, poi la seconda crrrrrrr, poi un'altra ed un'altra ancora, squincchhh, crrrr, squinchhh squiiiiiiinch.
- Anche se ormai non sono più piccolina, mi racconteresti una favola? Quella dell'oca trottola!
Ogni porta, finestra, anta d'armadio o cassettiera era una parola in sequenza nella strana lingua del cavaliere maciullato, compresso, distrutto e schiacciato.
L'intera casa, con i suoi cigolii cominciò così a raccontare una favola a Serena.


Epilogo

C'era una volta un ragazzo che faceva vita da monaco eremita, che un giorno si innamorò di un'imperatrice povera di nome Serenella.
Egli l'amava così tanto che avrebbe voluto costruirle un intero castello di solidi mattoni, in un posto dove un giorno un forte sole avrebbe illuminato la loro vita.
Ma sapendo di non esser un buon carpentiere, cominciò ad edificare una piccola casetta di legno, contravvenendo a ciò che gli imponeva il suo ordine monastico: non c'è spazio per l'amore carnale in un corpo che è stato donato a Dio.
Certo non era un vero e proprio castello, le assi che aveva usato erano marce a causa delle molte piogge, ma quando Serenella aprì gli occhi che il suo amato le teneva al riparo con le mani, vide la più bella delle reggie.
Tra quelle quattro mura si amarono e dopo nove mesi nacque un sole, una nuova vita a cui diedero il nome di Serena, perché ella oltre alla sua, era la parte meravigliosa della madre.
Giunto il pianto della bimba all'orecchio del superiore del ragazzo, fece grande scandalo, tant'è che fu inviato subito un cavaliere per riportare il ribaldo al monastero.
L'uomo d'armi dopo aver messo in catene il giovine, si mise a prendere a calci la casetta di legno, fino a far schizzare fuori da ogni foro i chiodi.
- Vedremo sporca signora se avrai ancora l'ardire di giacere sotto a quel tetto traballante, tu e il frutto maledetto di questo monaco corrotto dal vizio.
Il cavaliere si portò via il ragazzo che finì dritto nelle celle del monastero.
Passarono tre mesi e finalmente una notte, non vi dico come, il ragazzo riuscì a fuggire. Trovò il cavaliere addormentato e gli rubò così l'armatura indossandola in tutta fretta, pronto a tornare dalla sua signora.
Cavalcò una notte e un giorno intero, ma sventura volle che non essendo cavaliere, sellò il cavallo nel peggiore dei modi, andando a scivolare gambe all'aria in un istante. Con la testa che sbatté per tutta notte sulla dura pietra, rischiò di perdere il senno, ma tenne duro fino a che non giunse alla casetta di legno marcio.
Prossimo così alla sua dama, ebbe subito le idee un pò confuse, tant'è che gli venne in mente la vera ragione per cui era lì soltanto la mattina dopo, quando con suo stupore si ritrovò sveglio nella sua vecchia catapecchia di legno marcio.
Doveva avvertire le donne, portarle via da quel luogo, un cavaliere prima o poi sarebbe tornato per portarli tutti via.
Ma poi peccato che quel sole che tanto aveva sperato di trovare, gli giocò un brutto scherzo asciugando appena le assi sulle punte, quel tanto che bastò per fargli calar sul naso un pò di polvere.
Eeeeetciùùùùù.
Sbadadranghete!

Ma tutte le sventure non vengono per nuocere, quando ormai definitivamente fuor di senno, si accorse che poteva anche senza voce, raccontare a chi amava tutta la sua storia.

Squinch, squiiiiinchhh, crrrrr, squinch.

venerdì 3 febbraio 2012

La foglia presuntuosissima - (carte estratte: 12 14 21 - tiraggio di Silvia M.)



Le foglie non muoiono, compiono atti di presunzione.
Lo sapeva bene il castagno che ogni autunno si ritrovava a far gli stessi discorsi.
- Se non volete morire, dovete restare verdi!
I suoi rami, carichi di foglie smeraldine si protendevano in ogni direzione sotto al sole velato di settembre, quando ormai l'autunno era alle porte.
Ed era sempre una a cominciare.
- Ah! Ci manca solo questa. Cosa ne capisce lui che ha cent'anni ed è rincitrullito.
Seguiva un'altra foglia.
- Noi siamo giovani e facciamo come ci pare.
Partiva la terza.
- Il castagno è marrone, noi foglie siamo verdi. Tutta invidia la sua, può dirsi verde solo grazie a noi.
Continuava qualcun'altra.
- E sarà vero che ad esser marrone mica si muore. Anzi! Si campa cent'anni come gli è capitato a lui.
E come ogni anno cominciava così, prima una poi l'altra, tutte quelle facendo un gran baccano pian piano diventavano marroni.
La madre terra le richiamava a se una ad una, come quando per il gran ballo del re vieni annunciato per nome.
Era solo presunzione, pensava sconsolato il castagno, che ormai da cent'anni e più se le vedeva sfilare via solo per trovare la fine ai suoi piedi, e quando anche l'ultima foglia ormai tutta marrone, con un flebile "tic" si spezzò dal ramo, il castagno scosse il capo sconsolato.
- Io sono la foglia più presuntuosa di tutte e non mi basta esser stata verde e poi marrone.
Sbirciò l'ultima con gli occhi all'insù come a volerci pensare un pò e vedendo il cielo sopra di se disse:
- Ho deciso: sarò azzurra!
E con immenso sforzo strinse gli occhi sino a sentir pulsare le tempie e quando volse di nuovo lo sguardo al cielo, quello era diventato marrone.
- Ma non è possibile! Non ha funzionato! Tutto là fuori è cambiato tranne me.
Niente di più errato, perché benché la foglia continuasse a cadere, lo stava facendo verso l'alto allontanandosi a testa in giù dalla bruna madre terra.
Azzurra e leggera, se ne andava verso l'alto che per affinità cromatica il cielo la richiamava a sé.
Cadde per giorni trasportata dal vento, senza sapere bene dove andasse, non poteva deciderlo lei sino a che il soffio dell'aria la spostava come voleva.
- E allora io voglio essere ancora più presuntuosa e imparerò dal vento a soffiare.
E spingi spingi gonfiando le guance, la nostra foglia apprese a cambiar direzione, approfittandosene subito per soffiare in capriole, risucchi e planate.
- Oh che bello essere presuntuosi.
Ma quanto volò? Direi per tanto, perché se la terra finisce tra le radici dell'albero, sul suo cappello c'è troppo spazio: il cielo è sempre un passo davanti all'occhio.
Cadere per così tanto tempo ti fa pensare fino a farti rimanere solo, perché quando anche l'ultima parola prende il volo dal tuo cervello, non resta altro.
Adesso non ho più parole, non ho più soffi, non ho più colori: sono alla fine del cielo.
C'è un castagno verde alla fine del cielo, con più di cento foglie azzurre sui suoi rami, una per ogni anno di quel rincitrullito, una più presuntuosa dell'altra.

sabato 21 gennaio 2012

Il palcoscenico - (carte estratte: 11 20 14 - tiraggio di Roberto P.)



In platea il buio, il palco è illuminato, e mentre io son qui a suonare il clavicembalo, mi viene da pensare: ma il pubblico e lì davvero?
Lo so è un pensiero sciocco, così lo caccio indietro e le mie dita scorrono sicure sui tasti, e non li guardo. Ormai conosco bene la tastiera, non leggo lo spartito, ce l'ho già tutto in testa.
Guardo nella bocca di mia moglie. Apri bene mentre canti! Ma oltre l'ugola non riesco ad andare, lì finisce la luce e cominciano le viscere.
Nel buio non un sussurro, un mormorio, un colpo di tosse, niente.
Il pubblico non c'è, però è lì e suono bene, poiché e lì.
Ancora qualche giro è avremo finito, torneran le luci in tutto il teatro e arriverà puntuale l'applauso.
Ed è così che accade, chiudo il concerto dopo l'acuto della mia dama.
Un successo, tutto questo è una magia! Tornan vive le persone, si alzano ed applaudono, le vedo e le sento. Guardo mia moglie e mi sorride, poi ci sporgiamo per l'inchino.
Una, due e tre volte. Grazie.
Tutto adesso è pieno di luce, così anche voi mi vedete. Perché mi vedete vero?
Guardate la mia mano che si solleva. Vi saluto, mi tocco i capelli, vedete che bel colore? I miei vestiti. Questa stoffa è del colore dei miei occhi. Lo avevate notato?
Certo, è impossibile che non mi vediate, poiché adesso è tutto illuminato.

venerdì 6 gennaio 2012

La guerra di Ferrobambù e Roccaimburrato - (carte estratte: 0 19 14 - tiraggio di Mauro B.)



Ferrobambù e Roccaimburrato eran borghi edificati su due colline dirimpetto, ed ogni santo giorno si radevano al suolo l'un l'altro. Salvo ovviamente nei festivi.
Era specialità di entrambi di esser così in arme con le catapulte del vicino, che nessuno di quelli voleva cederne il primato al dirimpettaio e da questo ne conseguiva il fatto che tra un colpo e un altro si rimaneva senza muri, case, chiese, capanne, pozzi e caciottine.
Così ogni domenica ci si riuniva per ricostruir dal basso tutti gli edifici, e i due borghi alla sera eran di nuovo in piedi pronti per crollar di nuovo.
In guerra ci si adatta a far economia, ed era perciò vantaggio e buona norma in quel giorno di ricostruzione, tener da parte i pezzi più grossi rimasti tra le macerie, per avere nuovi colpi da caricar sui legni in tensione del giorno dopo.
Perché quei due borghi si combattevano, nessuno più ormai lo sapeva e se ve la devo dire proprio tutta, io più che gradire un primato per chi rompe meglio l'altro avrei preferito un palio per il borgo dal peggio nome.
Ferrobambù crollava sotto i colpi di Roccaimburrato, che a sua volta veniva giù poco dopo per reazione dei Ferrobambuesi che non volevano esser da meno rispetto ai Roccaimburravioli.
Un giorno in città arrivò un costruttore, che era in viaggio diretto al borgo di Semedisemediseme dove avrebbe dovuto salvare una donna non ancora nata, tenuta prigioniera da un leone dalla camiciola troppo stretta. Ma quella poi è un altra questione e non voglio perdere il filo del discorso.
Dicevo! Arrivò tra Roccaimburrato e Ferrobambù questo geniale costruttore, pieno di belle idee, di felici intuizioni, con in tasca persino un ditale schiacciato, che gli sarebbe servito per salvare la donna mai nata, tenuta prigioniera dal leone con la camiciola troppo stretta; un ditale schiacciato è così strambo che nessuno mai si sarebbe inventato una simile soluzione. Che però adesso non vi voglio raccontare, perché per sentito dire, non è buona cosa perdersi in troppi giri quando si narra un'altra storia.
Partì da un lato un colpo fatto ad L che era mezza finestra, fischiando in aria tracciò una parabola fin dall'altra parte, colpì il campanile che andò a crollare sulla bottega del panettiere.
La riposta non tardò ed un intero caminetto fece il viaggio inverso, squarciando in due la statua nella piazza degli altri.
E così per tutto il giorno, mentre Roccaimburrato cedeva a valle sul costone destro e Ferrobambù invece si piegava sull'interno.
- Che spreco! - Pensò il costruttore.
Girò il cavallo in quella direzione, pronto a trovare un'astuta e definitiva soluzione.
Apprese così dai Roccaimburravioli e dai Ferrobambuesi che ogni domenica veniva il giorno di ricostruzione.
- Perfetto! Allora domenica sarà l'ultima volta che metterete una pietra sull'altra.
Entrambi i borghi in quella settimana, si accanirono più del solito e far la lotta, perché volevano proprio vedere cosa quello si sarebbe inventato, e giunto il sabato mattina trovarono una bella sorpresa: il costruttore era sparito da entrambe le colline e tutte le scarpe se ne erano andate via con lui.
- Bella roba quella! Non era mica una soluzione!
- Cosa ci vuole a caricare altri colpi anche senza le scarpe?
- Tanto non ci si spaventa, siamo gente che non ha case ogni settimana, quindi può far a meno pure delle suole.
Ve lo immaginate voi? Il costruttore pensava di salvare una donna non ancora nata, tenuta prigioniera da un leone dalla camiciola troppo stretta, usando un ditale schiacciato. Del tutto fuor di logica! Come dar credito ad un uomo del genere.
E fu proprio in quel preciso momento che arrivò la domenica.
Nel giorno della ricostruzione, tutti ritrovarono le scarpe dove le avevano lasciate la sera del venerdì, e guardando giù a valle, tra Roccaimburrato e Ferrobambù vi era il costruttore, che aveva accatastato così tanti mattoni da permetter di ricostruire due volte e tre quarti ogni borgo.
I Ferrobambuesi si accalcarono in tutta fretta per arrivare subito ai mattoni, poco dopo anche i Roccaimburravioli erano lì che sgomitavano per sentir la soluzione.
- Cari amici di questi due bei borghi. - Iniziò il costruttore a spiegare - prendete tutti i mattoni che volete per rimettere in piedi i vostri muri, case, chiese, capanne, pozzi e caciottine. Così che sia questa l'ultima volta che vi colpirete l'un l'altro, perché da oggi vi mancheranno tutte le vostre buone intenzioni.
Tutti si caricarono i mattoni, e cominciarono a riedificare i borghi. I mattoni erano raffinati, solidi e leggeri, e ce n'erano in abbondanza, così che chi volesse ampliar le proprie stanze potesse farlo, e a chi volesse metter su un altro mestiere gli fosse concesso.
Quella sera i due borghi erano di nuovo in piedi, splendidi più che mai, così il costruttore concluse il suo discorso.
- In questi mattoni, miei cari nuovi amici, ho messo qualcosa di speciale: nel centro di ognuno di essi è stata impressa l'orma del vostro piede, sia destro che sinistro.
Tutti si guardarono intorno non sapendo bene dove quello volesse andare a mettere il segno.
- Così che le fondamenta di questi due borghi, da oggi in poi saranno fatte delle vostra stesse fondamenta. E con questo, monto sul mio cavallo e vi saluto! Che devo andare a salvare una donna non ancora nata, tenuta prigioniera da un leone dalla camiciola troppo stretta, usando solo un ditale schiacciato.
I Roccaimburravioli tornati il lunedì alle catapulte, prepararono i colpi, ma a dire il vero poi, non è che il primo soldato pronto al lancio se la sentì di far partire l'ingranaggio, che se avesse colpito i suoi due mattoni finiti chissà dove di qua o di là, gli sarebbe sembrato di far torto a se stesso. Lo stesso, pensarono tutti i soldati Ferrobambuesi.
Così da quel giorno, nessuno lanciò più alcun colpo ad L o camino verso il borgo dirimpetto.
Perché diciamolo davvero, chi è che vuol metter mano pesante quando in gioco ci sono i propri piedi?

venerdì 2 dicembre 2011

Achiropita e l'amore scritto sull'acqua - (carte estratte: 17 4 19 - tiraggio di Antonella D. G.)



Tirare un sasso in acqua genera dei bei tondi, che crescon sino a perdersi all'orizzonte, e se avete la pazienza di attendere il giusto, trovata l'altra sponda quel medesimo tondo ancor più grande torna indietro a raccontarvi di altri luoghi.
C'era una lavandaia che poverina, amava un uomo che viveva molto lontano. A dire il vero né l'aveva mai visto né sapeva se esistesse, ma sentiva di amarlo per tutte le cose che ella gli aveva scritto.
Lei non aveva monete tali da potergli mandare lettere, né tantomeno vi erano messaggeri disposti a farsi carico delle sue parole, ma si sa che l'ingegno di chi ha poco può smuovere il mondo.
Così Achiropita, tale era il nome della donna, costretta a stare china buona parte del giorno sulla riva del fiume, gli venne in mente di affidar le sue lettere d'amore all'acqua e immergendovi un dito scriveva sulla superficie.
"A m o r e".
Amore prendeva il largo, lasciandosi dietro di se la punta del dito. Si allungava un pochino e cominciava a spumare, si gonfiava così tanto in un'ansa che la "o" diventava "O". Scendeva per rapide cascatelle, dove perdeva la "a" mentre si infrangeva su una roccia che divideva il fiume.
Le mOre galleggiavano perché erano leggere, finivano in un mulinello che le girava tutte e ne uscivano delle Orme che rincorrevano la "a" che avevan perso. Veloce quella le raggiungeva, vi si scontrava, le mandava tutte in diverse direzioni "O r a m e" e le recuperava lentamente, dove il fiume diventava calmo, un pò rimescolate.
"r e m a" si avvicinavano. Rema nelle acque calme.
Ma dov'era finita quella grande O?
Larga là intorno. Le lettere vi erano finite nel mezzo, come se quel cerchietto adesso così largo fosse il bordo della loro imbarcazione.
Un pesce vi saltava dentro a mò di bersaglio e di nuovo gambe all'aria si riperdevano, si rimescolavano, prendevano le rapide di fretta; perché a rincorrer di nuovo quella "O" gli veniva voglia di vedere il "m a r e".
Il mare era oltre la foce, e prima della foce c'era il suo amato, e prima del suo amato c'era il castello con il suo fossato.
Sotto al castello le acque si raccoglievano. Si raccoglieva l'intero "m a r e", e quella grande "O" tornava ad esser piccola, contenuta: amero'.
Una fogliolina vicina alla "o" diede ancora speranza di avercela quasi fatta a quella parola, di aver finalmente percorso tutta quella distanza senza aver perso niente di se, mantenendo il suo senso.
Un ultimo sforzo!
"A m o r e" si raccolse infine in amore, e i due fratelli sulla riva della foce, la raccolsero bevendo un sorso di acqua fresca a testa.
Com'è buono l'amore.

Achiropita viveva così, affidando al fiume tutti i suoi sentimenti, lasciando che le parole navigassero e non chiedendo mai nulla in cambio, perché la corrente va per un verso solo.
Ma arrivò il giorno in cui una "R" tornò indietro.
La lavandaia quel dì ne aveva scritte tante di parole dolci sul pelo dell'acqua, e come ogni sera si preparava con il cestino in testa a ripercorrere la via che la riportava a casa. Ma fatti pochi passi e dato un ultimo sguardo al "b a c i o" che prendeva il largo, si accorse di quella R che ripercorreva il fiume per verso inverso.
Il suo amato le stava rispondendo! Si chinò in fretta vicino al bordo, e mise le mani a conca per raccogliere quella R. Se le portò alla bocca e la bevve.
La R per sua natura pizzicava sulla lingua. Achiropita cercò di scorgere altre parole, ma non ne vide anche perché il buio avanzava.
In quella risposta in forma di singola lettera, c'eran tutte le sue speranze e decise così di rimanere al fiume; ma vuoi per la stanchezza, vuoi per il non scorger nient'altro in quel buio, la lavandaia cadde presto addormentata in riva al fiume, con una mano in ammollo nell'acqua.

La mattina successiva, con gli occhi ancora chiusi, Achiropita sentì qualcosa tirargli un dito. Si destò e quando aprì gli occhi, vide che alla mano che era rimasta a bagno si era impigliata una M.
Subito si levò in piedi, rendendosi conto solo allora di essersi addormentata e quando guardò il fiume nella sua interezza, si accorse che molte erano le lettere che risalivano la corrente.
Era una partitura di vocali e consonanti, che le riempirono il cuore di gioia e dicevano "t b o a r r m i" ma anche "e O g A m n o o". Tutte parole straordinarie, piene di amore e sentimento.
Forse il suo amato era un poeta. Forse un matematico che le rivelava le geometrie dell'amore. O forse un indovino che non indovinava le lettere giuste.
E lettera per lettera Achiropita cominciò a seguire il fiume verso valle.
Passò così anche lei, come la parola "a m o r e" a fare quel percorso verso la foce, camminò vicino all'ansa, poi oltrepassò le rapide cascatelle, giù fin dove la roccia in mezzo al fiume solitamente divideva le parole.
"G i v G d U s s s" e poi i mulinelli, arrivò dove il fiume diventava calmo e bisognava remare per uscirne. Poi le rapide e le lettere aumentavano, si raddoppiavano, si decuplicavano in "s U e v F h s H S v d V f" schiumando.
Giunta nei pressi del castello, vi eran più lettere che acqua che si accumulavano e rimbalzavano tornando indietro, e tutto cominciò ad avere un senso, quando Achiropita vide che canali e piccole dighe, deviavano parte delle acque del fiume verso i campi coltivati del castello.
Le lettere che non finivano nei canali perché ve ne erano troppe, rimbalzavano su quelle costruzioni e cominciavano a percorrere il fiume all'inverso, risalendo la corrente.
Ecco chi le aveva risposto.

I due fratelli che vivevano alla foce del fiume erano due giganti, che da molti anni trattenevano aperto quello sbocco sul mare.
Uno a destra e uno a sinistra tenevano spalancata la foce, che era come una bocca di pietre e fango, puntando i loro piedi a bagno e spingendo con le schiene. Se avessero lasciato il loro posto la foce si sarebbe richiusa, e per tutto quel tempo tenuti fermi dal loro mestiere, avevano ad un certo punto cominciato a ricevere tutte le parole di Achiropita.
Ah! Come divenne a quel tempo pieno il loro cuore, così gonfio da non sentir più la fatica, e vi sarà di sicuro chiaro anche a voi, che andarono in allarme, dopo più di una giornata, senza ricevere attenzioni. Cominciarono così a chiedersi cosa fosse successo alle loro beneamate parole.
Non staccarono mai gli occhi dalle acque e le schiene dalla roccia, ma nel fiume non vi era più né "amore", né "bacio", né "carezze".
Era ormai da tempo che avevan cominciato a ricevere le parole e questo li faceva sentire ben voluti e meno soli. Lì sulla foce avevano tenuto per loro tutti quei pensieri venuti da lontano, senza lasciare che neanche uno riuscisse a raggiungere mai il mare.
Quello dei due che era un pò più verso la foce cominciò a pensare che se fosse arrivata una nuova parola, l'avrebbe però scorta prima quello più a monte, e in questo momento di carestia forse gliel'avrebbe rubata. Era per questo che a lui non giungevano? Così si andò a spostare appena un pò più in su, facendo diventare l'altro quello più a valle.
Ma adesso per posizioni invertite, fu il secondo fratello a sentirsi più distante e pensando che le parole le ricevesse l'altro, si spostò un pò più in alto, lasciando il fratello più in basso.
E prima l'uno e poi l'altro a fare il gioco della cavallina, cominciarono così a risalire il fiume, mentre la foce cominciò a chiudersi piano, man mano che ve ne si allontanavano.

La sala principale del castello aveva due entrate, e se quella alle spalle del trono dava su un frutteto, da quella principale entrò Achiropita.
L'imperatore appena la vide così bella se ne innamorò.
La lavandaia giunta al centro del salone chiese la parola.
- Io sto cercando colui a cui le mie parole d'amore son rivolte. - disse inginocchiandosi - Egli mi ha risposto, ma non ne capisco le intenzioni tra tutte quelle lettere alla rinfusa.
L'imperatore, capendo che era lei la fautrice delle parole d'amore che navigavano sul fiume, si levò in piedi e scendendo i tre scalini che separavano il trono dalla lavandaia, vi si inginocchiò di fronte e disse.
- Vorrei Potervi dire di essere io quella singola persona. Vorrei pensare che quelle parole le abbiate rivolte a noi. Ma anche se son state catturate per errore, il vostro innamorato qui ora è tutto il popolo. - poi la prese per mano e alzandosi le disse - Venite con me e vi spiegherò tutto.
L'imperatore portò Achiropita nel frutteto e staccata una mela dal ramo, la porse alla lavandaia. Lei incuriosita e senza esitazione se la portò alla bocca e ne staccò un pezzo con un morso.
La mela aveva il gusto di "amore", le pesche di "bacio", le arance di "carezze", perché l'acqua del fiume deviata dal suo corso per irrigare i campi, aveva portato il trasporto amoroso di Acheropita in tutti quei frutti.
L'imperatore disse:
- Due giorni fa abbiamo completato le chiuse e le dighe sul fiume, e appena le acque deviate nei canali hanno bagnato i nostri alberi da frutto, che pativan per la siccità, questi hanno ripreso vita grazie alle vostre parole. Il vostro amore è così tanto, che non tutto riesce ad entrare nei canali, alcune lettere hanno ripreso il loro viaggio a ritroso sul fiume, dopo esser state respinte dalle nostre costruzioni. La gente ora mangia questi frutti dai sapori deliziosi e cibandosi d'amore amano anche voi. Si sentono toccate dal vostro sentimento puro, e oggi non trovate un solo amante ma un intero popolo.
Bel problema pensò Achiropita, con tutti questi pretendenti chi avrebbe dovuto scegliere?
E se in quel castello non dimorava il suo amante a cui per tanto tempo ella aveva dedicato i suoi versi, dov'era adesso quel gentiluomo?

Rrrrrrrrr… Boom!
Il castello tremò tutto d'un tratto, e gli alberi da frutto si piegarono per poi tornare al loro posto.
Rrrrrrr…rrrrr… Boom!
Le mura erano scosse da enormi macigni, e le dighe cominciarono a cedere, i due giganti trovato il motivo della cessazione delle parole volevano riprendersele e sollevando e scagliando enormi massi facevano grandi brecce nelle difese del palazzo.
Le loro parole erano tenute in ostaggio da questo popolo ostile, e a loro interessavano solo quelle. Se le sarebbero riprese senza chiedere a nessuno.
L'imperatore corse per proteggere Achiropita e la cinse a se proprio nello stesso istante in cui le dighe cedettero e dal fiume si riversarono tutte le parole d'amore che si erano accumulate, andando per furia a spazzar via ogni cosa, portandosi via i due giganti, che ricevettero tutto quell'amore in un sol colpo.
Abbracciati a tutte quelle L, b, A, s, t, E ed R, ridevano mentre venivano portati via dalla corrente, non preoccupandosi di chi quelle le avesse scritte.
La foce del fiume, che ormai era chiusa senza il mestiere di quei due, non riuscì a restituire al mare tutte quelle acque, finendo così per far da tappo.
Tutta la pianura fu inondata, ogni cosa fu sommersa tra vocali e consonanti che si spargevano ovunque.
L'onda di riflesso stava tornando gonfia al castello, minacciando di farlo sparire insieme all'imperatore e al suo popolo, e ad Achiropita venne lo stimolo di poter salvare la situazione.
E di stimolo vero e proprio si trattò.
Vi ricordate che la dolce lavandaia, quando gli ritornò indietro la prima "R" la bevve facendosi pizzicare la lingua?
Bene, quella "R" per tutto questo tempo, dalla lingua alle viscere aveva percorso l'interno di Achiropita, come se lei stessa fosse un fiume tortuoso. Ora dopo tanta strada, anche quella "R" poverina era giunta alla sua foce, diventando sempre più grande e sempre più forte dentro di lei.
Acheropita sollevata la gonna fece pipì con la "R", che dopo tutti quei giri uscì fuori come un "RRRRuggito", così forte e sicura di sé che squarciò le acque che non toccarono nè il popolo nè il castello. Anzi le rimandò indietro sino ad aprire nuovamente la foce, che non ebbe più bisogno di esser tenuta dai due giganti, che aggrappati alle lettere giunsero finalmente al mare.

Il mare, al di là della foce è uno spettacolo meraviglioso. Sterminato a tal punto che pare poter contenere tutte le parole, quelle vecchie e quelle nuove, quelle vere e quelle inventate.
Il mare può esser calmo o agitato, e anch'esso se si ha molta e molta pazienza, può ingigantire tutto e restituirvi un'avventura straordinaria raccontandovi di altri luoghi.

sabato 26 novembre 2011

Il dilemma delle tre gabbie - (carte estratte: 13 4 15 - tiraggio di Stefano M.)



- Cip cip!
Il barone aveva un vizio: spremeva i canarini come fossero limoni.
Non che in questa cosa vi fosse un fine discernimento, ma egli per comprovare che teneva il pugno di ferro, li strizzava per benino in fronte a chi gli veniva a chiedere qualche concessione su questioni di moneta.
Aveva una bella gabbia d'argento nel suo studiolo, con dentro tutte quelle ali che frullavano, e man mano che ne strizzava uno, questi veniva rimpiazzato con un altro, così che il numero fosse sempre uguale.
Saverio era piccolino e sapeva bene l'abitudine del padre, e sensibile com'era ogni volta che un canarino veniva strizzato, sentiva come se il barone stringesse tra le dita il medesimo suo cuore. Così un giorno il figliuolo decise che avrebbe salvato da compressione se stesso e tutti quelli.
Ora per farvi capire nel profondo quanto per lui la cosa fosse urgente, vi dovrei raccontar per bene la procedura di stritolamento, così da farvi patire il dolore che provava il piccolo nel vederla. Ma mi riservo dal fare ciò solo perché le parole non renderebbero bene tutti i crick e crack, degli ossicini tra le dita.
Saverio che ci perdeva le giornate ad osservare l'allegro volo dei limoni in gabbia, si chiese come poter fare a salvar ben tredici canarini senza perderne la grazia?
E se per ogni volta che il padre aveva stretto tra le dite uno di quelli, il suo cuore vi si era stretto assieme, pensò che gli allegri potessero al contrario gonfiargli il petto. Così uno per volta li raccattò dalla gabbia e se lo infilò nella camicia, curandosi di chiudere per bene l'ultimo bottone una volta che il tredicesimo fu dentro.
Fu una strana quanto piacevole sensazione, perché quelli frullando tra maniche, schiena e petto, gonfiavano e sgonfiavan la camicia manco fosse un mantice.
- Cip, cip… cip… cip, cip, cip.
Per nascondere al padre il suo gesto, Saverio cominciò a parlare così, aprendo e chiudendo la bocca senza dar fiato, ogni qualvolta un canarino cantava.
Di fronte alla gabbia vuota, il barone rimase piegato ad angolo a pensare per giorni, non riuscendo a capire quale fosse la soluzione al dilemma della gabbia.
Prese a controllare le sbarre, la porticina, il fondo. Passò alla finestra, alla porta, e alle tasche dei servitori.
Niente! Non comprese mai che fine avessero fatto i suoi amati limoni.
Passarono ben dieci anni, e tutti nel paese avevano meraviglia di Saverio, il giovane che aveva il dono del canto tanto soave che pareva un usignolo. Io avrei detto un carino avendo l'orecchio più fino, ma la gente diceva così.
- Cip, cip, ciiip… cip… ciiiiiip…
Cantava Saverio alla messa, per rendere grazie al signore, mentre gli frullava la camicia che pareva avesse in corpo un così gran cuore da scoppiargli da un momento all'altro, e non passò molto tempo che gli venne chiesto di intraprendere il mestiere di cantore nei più grandi teatri dell'europa.
Saverio oltre a cantar come un usignolo - Pardon! - un canarino, passava anche per eccentrico. Per anni per non far scoprire i limoni che gli svolazzavan nella camicia, commentava firmando contratti con dei bei…
- Cip… cip… ciiiiip, cip…
- Sono artisti, hanno in corpo qualcosa che li rende speciali.
Dicevano intorno a lui, aumentandone ancor di più il prestigio.
E dall'ambasciatore, tra le cosce della bella prosperosa, e addirittura davanti al papa, Saverio cinguettava che era una gioia sentirlo. Mai neanche una parola per non farsi scoprire, ma tanto i discorsi dell'arte li capivano oltremodo tutti.
Non vi fu giorno che Saverio non ringraziasse i suoi tredici compagni di viaggio, facendo scendere semi, bacche, acqua e quant'altro giù per le maniche. Aveva preso pur l'abitudine di salire sui rami più bassi degli alberi per far balzi giù, sperando che forse quei tredici lo avrebbero persino portato in volo, ma ogni volta tornava per terra e andava in teatro.
Il giovane cantante fece una carriera strepitosa, senza che gli mancasse niente, né a lui né ai suoi compagni, e quando divenne curvo come il padre tornò a vivere nella casa dove c'era la gabbia d'argento. Tornò dove suo padre era rimasto per anni piegato a fissare la gabbia senza risolverne mai il dilemma fino a che la morte non gli aprì la finestra.
Un giorno mentre stava al davanzale, Saverio scorse su un albero lì di fronte, proprio sulla cima, un enorme nido vuoto che sarà stato di una cicogna o di un qualche uccello bello grande.
I canarini, nonostante l'improbabile età frullavano cinguettando più che mai, come se volessero dirgli qualcosa. Così Saverio, che intendeva ormai il linguaggio degli uccelli, decise di fare a loro il più grande dono: il nido più bello e spazioso che egli avesse mai scorto in vita sua.
Cominciò così la scalata verso la cima e ramo dopo ramo, passato un pomeriggio intero, fu sulla punta. Uno per uno Saverio adagiò i vecchietti nel nido e appena il tredicesimo fu giù, tutti insieme senza né un cip né un cip cip se ne volarono via.
Saverio, rimase li appeso in bilico, senza poter neanche fargli un saluto con la mano, non capendo bene dove quelli fossero andati.
Rimase in bilico li sopra per anni non afferrando quella scortesia.
E a volte mi ritrovo a pensare, che solo un canarino può comprender bene quale sia la soluzione al dilemma delle tre gabbie.