domenica 10 marzo 2013

La fisarmonica - (carte estratte: 0 19 14 - tiraggio di Pamela L.)



Se Perla guardava fuori dalla finestra in una mite giornata di sole, vedeva sia la tempesta che la siccità più nera.
Da sempre aveva visto le cose in questo modo per una strana malformazione ai suoi cristallini e se teneva stretto l'occhio destro, col sinistro vedeva ogni aspetto bello che c'è nelle cose, mentre con l'altro occhio solo il brutto le rimaneva impresso.

Molti medici si erano avvicendati per cercare di venirne a capo, ma a nessuno era mai stato concesso di essere agli occhi degli altri, il più furbo; così che se Perla guardava il professor Terlizi con l'occhio sinistro mentre era chino su di lei per visitarla, gli si presentava davanti un uomo che aveva dedicato tutti gli studi della sua giovinezza agli altri, ma appena lei strizzava l'altro occhio, quel che aveva davanti era un uomo ormai mosso solo dal denaro.

Quella sua particolare condizione, non le aveva mai permesso di vedere le cose come lei avrebbe desiderato, i suoi occhi sempre tesi tra due opposti le svelavano un mondo fatto di contrasti, dove anche i bambini non erano solo esseri puri, ma capaci altresì di odiare, imporre e godere; dove chiunque era in grado di mostrare senza inibizioni al suo sguardo, il massimo bene che aveva realizzato, così come la peggior sozzura.
Negli anni aveva imparato a ponderare una media per capire chi avesse di fronte.

Fu un giorno di marzo che accadde qualcosa che non aveva visto mai.
Ai bordi di un marciapiede vi era un suonatore di fisarmonica, con tanto di cappello al rovescio appoggiato sull'asfalto per le offerte.
Le sue dita scorrevano veloci sui tasti e per ogni persona che passava lì davanti, quell'uomo riusciva ad improvvisare una melodia che catturava.
Ad occhi chiusi continuava a suonare con il capo chino sullo strumento, veloce ed adagio a seconda del momento e in lui non c'era niente di opposto: agli occhi di Perla aveva un solo aspetto.

Fu un esperienza completamente nuova per la ragazza, di fronte al suonatore non era costretta a strizzare un'occhio dopo l'altro, finalmente in lui vedeva esattamente ciò che tutti normalmente vedono.
Incuriosita, Perla gli si parò davanti, come a voler entrare con decisione nel suo campo visivo, nonostante quello tenesse gli occhi chiusi.
La musica si fermò.
L'uomo alzò il capo.
Aprì gli occhi e la guardò.
Poi sorrise.

Di monete nel cappello non ce n'erano molte, di pezzi nella fisarmonica un'infinità.
- Sai che la tua melodia è fatta di silenzi?
Le disse l'uomo.
Perla continuava ad osservarlo, spostando la testa come si fa quando si guarda qualcosa per la prima volta, scrutandolo con un misto di meraviglia e sospetto, mantenendone una certa distanza.
- Riesco a vederti come se fossi uno solo.
L'uomo si guardò oltre le spalle, come se la volesse bonariamente prendere in giro.
- E quanti altri dovrei essere?

Spiegare se stessi al prossimo è un'impresa tra le più ardue, e Perla questo lo sapeva bene, abituata a fare di ognuno l'incontro tra gli opposti.
Il suonatore però aveva compreso tutto di lei poiché lei non generava neanche una singola nota.
- Anch'io sono come te, vedi! Le mie mani adesso non si muovono, tu sei al centro e fatta di silenzio. Anche per me è la prima volta che ho di fronte qualcuno che percepisce gli opposti. Tu attraverso gli occhi, io con le mani.

Il suonatore di fisarmonica cominciò a suonare nuovamente, al passaggio di altre persone, melodie sempre differenti, alcune allegre e altre struggenti; erano le sue mani a percepire gli opposti di quelle persone ed ogni minima variazione tra il meglio ed il peggio, quando gli sfilavano dinnanzi, producevano la loro canzone.
Così un semplice impiegato diventava pura musica, poiché è nel rapporto di distanza tra i suoi estremi che veniva generata quella melodia.
La fisarmonica è strumento degli opposti, che in una danza si avvicinano ed allontanano generando al centro del mantice il suono.

Perla comprese in quel momento, che ciò che aveva visto nelle persone fino a quel giorno era la loro totalità e non poteva né doveva cadere nel tranello di pensare che fossero la media tra due opposti.
Bene e male li vide per la prima volta come una danza.

Mise una moneta nel cappello del suonatore e poi se ne andò via, sapendo che più si allontanava da quell'uomo più avrebbe allontanato il "cantabile" dalla "bottoniera".
Un giorno si sarebbero riavvicinati, per produrre ancora una volta, il suono del silenzio.

domenica 24 febbraio 2013

C'era una volta… ma una volta sola - (carte estratte: 17 12 9 - tiraggio di Agata S.)



C'era una volta Alba che voleva solo cominciare, intrigata così tanto dagli inizi pensava che nulla avesse senso nei finali.
Come biasimarla del resto, finire fa paura un po' a tutti; e rese chiare da subito le sue intenzioni per il peso del suo stesso nome, tutto iniziava e mai nulla finiva.

C'era una volta Alba che per lei era sempre lunedì, si svegliava la mattina quando il sole sbucava appena oltre l'orizzonte, si lavava nel catino e poi apriva la bottega, andandosene via a mezzogiorno e non chiudendo mai la porta.
Chi comprava le sue mercanzie ormai si era abituato a tutto questo e sapendo bene che non avrebbe ricevuto resto, pagava il prezzo giusto del pane, della carne e delle noci.

C'era una volta solo la primavera, perché per Alba era inutile che arrivasse l'estate. Che senso aveva? Si stava così bene quando il giorno scaldava abbastanza e non troppo poco.

C'era una volta sua padre, che non poteva morire in pace, stanco di un'intera vita al mulino, si ritrovava ogni lunedì a pestare il frumento sotto alla macina. Non dimentichiamoci che c'era anche una volta di Alba la madre, che lavava al fiume i panni sporchi, senza potersi mai alzare, china a sfregar vestiti in quell'eterna primavera.

C'era una volta un villaggio che si cominciava a stancare, che aveva perso la speranza di vedere un martedì, di pensare anche solamente che un bel giorno potesse nascer storto.

C'erano una volta decine di madri, con le lunghe gravidanze sulla pancia, che si lasciavano però alle spalle almeno diciotto mesi di gestazione e il loro unico svago era quello di stare in piazza, a raccontarsi da quanto tempo i loro mariti erano partiti per andar nei campi. Del resto era quasi mezzogiorno, forse li avrebbero rivisti da lì a poco. Le minestre erano sul fuoco, caldo almeno da far quasi fondere il ferro.

C'erano una volta dei c'era una volta, che si erano stufati di leggersi i c'era una volta e tutti quei c'era una volta si resero conto che dovevano trovare una soluzione per arrivare ad una fine.
Di fare un'assemblea cittadina al calar della sera, per decidere come uscire da quella bizzarra situazione, era cosa assai improbabile, per cui tutti insieme a metà mattina andarono a chiedere al saggio del villaggio, come far finire quell'assurdo ritornello senza mai strofa.
Il vecchio che viveva al centro del bosco, li accolse a braccia aperte e nella sua casetta scalcinata, sembrò trovare subito un rimedio.
-Voi domani che è lunedì, con i soldi giusti in mano per non dover ricevere alcun resto, andate da Alba, comprate pane, carne e noci come sempre, pagatela, ma questa volta chiedetele di consegnare la merce qui a me. Vi assicuro che non ci sarà bisogno di nessun altro "c'era una volta".

Il giorno dopo, c'era una volta Alba che aveva un negozio nella piazza del villaggio, che ricevette a metà mattina la visita di tutti gli abitanti di quel borgo.
Questi avevano fatto una colletta per comprar da lei pane, carne e noci, pagarono il giusto prezzo senza aver bisogno di resto e le diedero il compito di consegnare la merce al vecchio saggio, nella sua casettina in mezzo al bosco.
Alba controllò che non fosse ancora mezzogiorno e messi sulle spalle i tre sacchi con la merce, si incamminò verso il centro del bosco, ma quando arrivò a un terzo del percorso, la ragazza posò i sacchi in terra pronta a tornare indietro senza finire.
Si allontanò.

Alle sue spalle un allegro cinguettare, attrasse la sua attenzione, al che si voltò in tempo per vedere un gruppo di passerotti che si erano lanciati sul sacco del pane, festosi banchettavano con quel ben di Dio, senza farsi troppe domande su quale grazia gli fosse capitata.
Ad Alba quella per un attimo sembrò vagamente una giusta conclusione, che le riempì per un pochino di gioia il cuore, ma poi tornata in sé si affrettò indispettita a togliere dalla strada i tre sacchi: non poteva né voleva generare alcun tipo di conclusione, così con nuovamente il carico in spalla riprese a muoversi verso la casa in mezzo al bosco.

Percorso un altro terzo del cammino, si guardò intorno, lì non c'era proprio nessuno, poteva star tranquilla e dopo aver scaricato nuovamente i tre sacchi in mezzo al sentiero, voltò le spalle per tornare al villaggio.
Di uccellini non se ne sentivano i cinguettii, ma ormai quell'idea di un finale che non voleva accadesse, le si era così radicata nelle meningi che tornò indietro a vedere che fosse tutto a posto, che il suo gesto fosse anche questa volta inutile come tutti i lunedì.
Si sbagliava di grosso, perché la volpe silenziosa era scesa a valle per mangiarsi la carne che era nel secondo sacco.
- Maledetta togliti di lì! Non vorrai farmi finire qualcosa a mia insaputa!
E con un bel sasso e una discreta mira, Alba riuscì ad allontanare quel fulmine rosso.
Riprese i sacchi in spalla e si rimise in cammino.

Al terzo tentativo voleva non avere dubbi, così posò i sacchi in mezzo al sentiero e li ricoprì di foglie e rami, sperando che nessuno li trovasse.

Eviterò di farvela troppo lunga, poiché così come a voi vi è balzato in capo il sospetto che un terzo animale potesse entrare per concludere forzatamente questa storia, anche ad Alba venne lo stesso sospetto, e non passò troppo tempo che un gruppo di castori, in cerca di rami secchi e foglie per edificare una diga, si ritrovarono a sgranocchiare tante buone noci.
- E no! Allora me lo fate apposta!
S'infuriò Alba, che scacciati a suon di "Sciò!" tutti i castori, si rimise in spalla la mercanzia andandosene a gambe levate il più lontano possibile, verso il centro del bosco.

Inutile dire che ad aspettarla alla fine del sentiero, seduto comodo su un ceppo, c'era il vecchio saggio, che la accolse a braccia aperte prendendosi la merce e ringraziandola della consegna.
Alba rimase con un palmo di naso, dovendosene tornare a casa all'una di quel bel martedì d'estate.

sabato 16 febbraio 2013

Le tre storie dell'orologio - (carte estratte: 12 7 19 - tiraggio di Patrizia G.)



Avete mai sentito parlare delle tre storie dell'orologio?
Probabilmente no, perché si svolsero tutte al di fuori del tempo e quindi non accaddero mai.

La prima storia racconta di un impiegato, che fino alle sei e mezza del pomeriggio andava di fretta e dalle sei a mezzanotte si muoveva piano piano, poi fino alle sei e mezza del mattino dormiva poco, ma per arrivare al mezzogiorno gli ci voleva un eternità.
Ciò vi potrà sembrare davvero strano, ma se aveste avuto sott'occhio il suo orologio avreste capito il perché.
Era un orologio a muro, di quelli che si guardano in continuazione quando è ora di tornare a casa, ma quello lì aveva un difetto di fabbricazione: le lancette erano pesanti a tal punto che nel mezzo giro che andava dall'alto in basso - dal 12 al 6 - crollavano per la forza di gravità, poi per tornare entrambe a puntare verso l'alto - dal 6 al 12 - si trascinavano a fatica per risalire.
Certo non era per niente facile vivere in questo modo.
Pensateci bene, la notte passa in un lampo e con gli occhi ancora carichi di sonno dovete alzarvi per andare a lavorare. La mattina diventa infinita tanto che perdete almeno dieci chili prima di arrivare a pranzo e poter mangiare. La stessa regola vale per il pomeriggio che passa così in fretta che non ve lo potete neanche godere e infine per coricarvi a letto e come se passasse una settimana.

La seconda storia racconta di un altro uomo al quale non cresceva pelo, i capelli li aveva, ma di barba e baffi non se ne parlava, stufo di sentirsi considerato da tutti un ragazzino, decise di mettersi due bei baffi posticci per riempire il vuoto sotto al naso.
Ci appiccicò due lancette, spesse e nere, una per le ore che puntava verso destra e una per i minuti che virava a sinistra.
Sicuramente avrebbe fatto palpitare molti cuori con quei bei baffoni, ma appena provò a spostarsi di pochi passi si rese conto che le lancette cominciavano a girare; così se andava avanti, anche il tempo andava avanti - storcendogli dolorosamente il naso - se si fermava tutto si congelava e se provava a camminare come un gambero, tornava indietro insieme al tempo!
Andò male con le ragazze, poiché da quel momento fu sempre impegnato a non spostarsi troppo, per evitare di farsi scaccolare dalle lancette.

La terza storia racconta di un orologiaio distratto, che quando costruì per sé un orologio, si dimentico di posizionare sul quadrante il 12.
Bel guaio quello! Da quel giorno la sua mezzanotte e il suo mezzogiorno divennero solo un pallido ricordo.
Quelle due ore cominciarono a mancargli così tanto che per rimediare a questo divenne un ladro e cominciò a rubare a chi gli venisse a tiro il mezzogiorno e la mezzanotte.
Non era cosa insolita ritrovarselo in casa, che con aria furtiva ti portava via l'appetito o un ora di sonno.

La gente stufa di farsi rubare il tempo e che a differenza di voi aveva già sentito narrare delle tre storie dell'orologio, decise di mettere in atto un piano che poteva liberarli da quei tre impiastri.
Fecero così far conoscenza tra l'orologiaio, l'impiegato e lo sbarbato baffuto, ma lo fecero di mattina così che per arrivare a pranzo sarebbe passata un'eternità.
Beh! Ve lo dico senza tanto girarci intorno, ma quando fu mezzogiorno avevano tutti e tre il budello così tanto lungo che non pensarono proprio all'ora che stavano per perdere, si preoccuparono solo di mangiare.
Il primo giorno però non fu facile, perché tra che non avevano il mezzogiorno dell'orologiaio, ma neanche il pomeriggio per la pesantezza delle lancette dell'impiegato, si ritrovarono a sera senza aver mangiato.
Meno male che con loro c'era lo sbarbato, che a costo di farsi cadere il naso a forza di lancettate, camminò indietro fino alle dodici, si fermò e finalmente poterono pranzare.

E da quel giorno in poi, quei tre impiastri come in un perfetto orologio, trovarono il giusto ritmo per vivere la vita come la vivevano gli altri.
Strani meccanismi però crea la coscienza umana, io avrei rotto i tre orologi.

sabato 2 febbraio 2013

Piccolino - (carte estratte: 14 3 1 - tiraggio di Angela S.)



Quando il re morì, fu il principe a divenire a sua volta re, aveva solo tre anni e la regina lo chiamava Piccolino.
Per un sovrano è un controsenso esser chiamato Piccolino, data la vastità del suo regno, ma in quel nome era nascosto un segreto che la regina conosceva bene.

Ella aveva amato con tutto il cuore quel re morto di vecchiaia e benché le loro età fossero così distanti, per la giovane regina ciò aveva rappresentato soltanto una benedizione.
Quell'assenza le aveva svuotato il cuore e da quando nessuno la chiamava più "la mia piccolina", l'incantesimo si era infranto e "la regina in miniatura" era diventata "la regina madre", ritrovandosi da giovane a vecchia in poche ore.
Il potere dei nomi è un potere da non sottovalutare.

Piccolino non sarebbe mai morto, non avrebbe mai lasciato sola la regina madre, fintanto che lei lo avesse chiamato così.
Da quel giorno le guerre si fecero per capriccio, le udienze per farlo divertire e le esecuzioni per scoprire come le persone fossero fatte dentro, in una continua avanzata che espandeva il regno di Piccolino e restringeva quelli degli altri sovrani.
L'esercito di Piccolino resisteva, nonostante le sue fila ad ogni capriccio fossero sempre più esigue.
Con il nuovo re non era possibile essere diplomatici, le regole non valevano e quel sovrano che dopo quattordici anni di regno ne dimostrava ancora tre, venne riconosciuto come uno tra i più spietati tiranni della storia.
Tutti i regni lì intorno decisero allora di unirsi, per dichiarare guerra al più grande conquistatore di sempre.

- Non vinceremo mai contro tutti quegli uomini messi insieme.
Disse il consigliere alla regina.
- Vi prego mia sovrana, dovete rompere l'incantesimo che tiene il re in questa condizione, a nulla sarà valso chiamarlo Piccolino per tenere lontana la morte, poiché essa ora ha deciso di allearsi con il nemico.
La regina salì su tutte le furie per l'arroganza del consigliere.
- Voi siete solo uno stupido omino, piccolo e insignificante.
E così fu, il consigliere divenne un bimbo di tre anni.
Ecco la soluzione!
In quel momento capì che avrebbero vinto la guerra e quando gli eserciti si affacciarono all'orizzonte, la regina era già pronta sulle mura, per trattare quei guerrieri come pargoli.

Bambini ovunque, sui cavalli, con gli archi in mano, sulle scale che violavano le mura, bambini che invece di assediare il castello di Piccolino e portare la morte, ora se ne stavano senza capire bene dove fossero, frignando perché volevano soltanto tornare a casa.

Fu molto facile per l'ormai esiguo esercito di Piccolino eliminarli uno ad uno, come si fa con gli insetti che ci danno fastidio.
Fu molto più difficile invero, comprendere il senso di questa vittoria.

domenica 27 gennaio 2013

La storia dei se - (carte estratte: 0 10 14 - tiraggio di Arianna L.)






Di fronte all'esattore c'era poco da fare, niente storie, niente sotterfugi, si era solo costretti a pagare.

Lo sapeva bene Agenore, umile contadino, che in quella situazione proprio non ci si sarebbe voluto trovare.
- …e non accetteremo un fiorino in meno di quelli che sono nostri di diritto.
Fece eco una guardia alle parole del funzionario.
Il povero contadino si guardò intorno, viveva in una catapecchia con moglie e dieci figli, sul paiolo una brodaglia a scaldare e niente più.
Probabilmente se fosse stato un ricco possidente, un tal sopruso non lo avrebbe di sicuro subito.
Tirò fuori tutti i fiorini richiesti e pagò.
Fortunatamente nascosto sotto le assi della stanza, aveva un forziere pieno di ori e pietre preziose: Agenore non era un vero contadino a dirla tutta.

Nessuno in famiglia conosceva la verità sull'uomo, perché egli si era guardato bene dal farla sapere. Il forziere lo aveva messo lì sotto quando ancora non era sposato, quando neanche aveva la benché minima intenzione di avere tutti quei figli.
Il lavoro nei campi era duro, ma di sicuro era sempre stato qualcosa che nella sua vita da ricco signore aveva voluto provare, così si era finto un poveraccio, avevo conosciuto una donna semplice e si erano trasferiti in quella catapecchia.
Agenore in realtà era un ricco possidente, con tanto di castello, valletti e cavalieri al suo ordine.

Il giorno dopo aver pagato la gabella, si rese conto che forse nascondere il forziere proprio in casa non era stata una buona idea, lì chiunque lo avrebbe potuto trovare. Se quelle assi su cui avevan camminato funzionario e cavalieri, lo avessero tradito cedendo sotto al peso delle armature, la sua bella storia sarebbe finita in quel preciso istante: gli avrebbero confiscato tutti gli ori.

Agenore decise così di portare quel tesoro, in un luogo più sicuro.
Caso vuole che il giorno prima portando al pascolo le pecore, aveva trovato un campo in cui c'era un pozzo naturale che il tempo aveva scavato nella roccia.
Ottima idea!
Con lo scrigno in spalla, si mise in cammino.

Poco dopo essersi allontanato dalla strada maestra per tagliare in mezzo al bosco, gli si pararono davanti due individui che sembrava proprio avessero scritto sulla faccia "noi siamo farabutti".
E proprio quello erano, del tutto intenzionati a portarsi via l'intero bottino.
- Contadino! Cosa proteggi in quello scrigno?

Che brutta situazione! Se non fosse stato un riccone, tutto quel putiferio non avrebbe proprio avuto inizio.
Fortunatamente, anche se voi farete fatica a crederci, il ricco Agenore non era mai stato un facoltoso possidente.
Agenore era un ladro, uno dei migliori, tanto che aveva messo in piedi una banda di briganti organizzati.
Passò anni in quei boschi, terrorizzando chiunque passasse da quelle parti e collezionando un vero e proprio tesoro.
Poi come spesso accade, quella vita all'addiaccio gli era diventata troppo stretta e disponendo allora di un considerevole tesoro, pensò bene di comprarsi una vita da signore.
Aveva quindi acquistato dei terreni, fatto costruire un castello, assoldato cavalieri e dato vita ad una vera e propria corte, lasciandosi alle spalle la sua vita criminale.

- Imbecilli ma non mi riconoscete!
Disse Agenore ai suoi due briganti.
Il più scaltro, si strofinò gli occhi e guardò meglio.
- Capo? Con quei lunghi baffi non mi parevi proprio tu.
Così i due da assalitori divennero quelli assaliti dalla furia di Agenore, che li prese a bastonate per non averlo riconosciuto.
Con lo scrigno in spalle proseguirono verso il cuore del bosco, dove avevano una grotta con tutti i loro tesori.

Quella notte fecero baldoria, scolandosi otri di vino e mangiando salsiccie e salami fino a ruzzolare addormentati sotto ai tavoli.
La mattina dopo, ancora con le teste martellanti a causa della sbornia, furono risvegliati da una carica di trombe.
I cavalieri del re avevano circondato la grotta, dando l'assalto alla banda che per anni aveva terrorizzato tutta la regione.
Il grande e temuto brigante Agenore sentitosi braccato, si arrese quasi subito come se fosse una donnicciola, cosa che fece dubitare tutti quanti sull'aver scelto a suo tempo un buon capo.

A dirla tutta però, Agenore o forse dovrei dire Angelica, una donniciola lo era per davvero.
La principessa Angelica, che non voleva sposare il principe Augusto, aveva messo in scena il suo rapimento proprio la sera del gran ballo,
così facendosi dei gonfi e lunghi baffi con il crine del suo cavallo, era diventata quel lestofante di Agenore, dandosi alla macchia verso i boschi, con tutta l'intenzione di mettere in piedi una banda di briganti.
Basta con le buone maniere!

Ma torniamo alla grotta dei briganti, dove caduti i baffi di crine dal viso di Angelica, il cavaliere con il cavallo nero riconobbe la principessa.
La voce si diffuse immediatamente tra le fila dei guerrieri, finalmente dopo così tanto tempo, al re avrebbero potuto recare la più felice tra le notizie.
- Angelica è stata ritrovata!

E fu proprio così.

Al castello venne preparato tutto per il rientro della principessa rapita dai briganti, tenuta prigioniera in quella grotta per così tanti anni che il re e la regina ormai erano entrambi bianchi e gobbi.
In tutta la regione si dichiarò festa con la promessa che nessuno avrebbe pagato gabelle per almeno due mesi.

Ma la povera Angelica si ritrovò suo malgrado, nella situazione da cui con tanta scaltrezza era riuscita a fuggire.
Il principe Augusto era ancora il suo promesso sposo, un gran peccato a dire il vero, visto che Angelica tra i suoi salvatori aveva scorto un uomo che le rapì il cuore dal primo istante.
Le era bastato un semplice sguardo per venire colta dall'amore.
Adolfo era un cacciatore, che conosceva così bene quei boschi da far da guida ai cavalieri.
Con il suo muoversi veloce tra gli alberi, senza perdere mai il senso del dove fosse, portò i salvatori dritti alla caverna dei briganti e sé stesso al centro del cuore della principessa.

Al castello la principessa rimuginava sulla sua situazione.
Come avrebbe potuto farla franca questa volta?
Forse invece di mentire avrebbe dovuto dire il vero.
Anche se voi adesso state pensando che il vero non l'avrebbe salvata, perché sostenere di non amar davvero un principe è di poco conto di fronte alla volontà di un vecchio padre, vi dico che vi state sbagliando, perché a dirla proprio tutta, Angelica non era una principessa e non era neanche una donna, ma bensì un cane.

Quel cane aveva girato il mondo.
Era un artista nel suo genere, viveva al circo e grazie ad esso mangiava tutti i giorni.
La sua specialità da sempre era stata quella di muoversi aggraziato sulle sole zampe posteriori, tanto da essersi guadagnato il nome di Principessa.
Lo spettacolo andava in scena di piazza in piazza, scatenando le risa dei bambini, che si divertivano come matti a vedere Principessa, vestito di tutto punto da damina, fare il giro tra la gente a raccogliere le offerte nel  piccolo paiolo che reggeva in bilico sul muso.
Quando un giorno i saltimbanchi furono chiamati a far divertire il re, la regina e la principessa, successe proprio un grosso guaio: la principessa per le troppe risate, si sentì male e morì seduta stante.
Quei poveri commedianti per non finire dritti sulla forca avevano pensato bene di lasciare lì Principessa, sperando che nessuno si accorgesse di quell'insano scambio.

Il piano funzionò e da quel giorno, se i saltimbanchi ebbero salva la vita lo dovettero al sacrificio di Principessa, che continuò a recitare per anni quella parte.

Ecco come la verità l'avrebbe potuta salvare, poiché Adolfo che era un cacciatore, di sicuro aveva bisogno di un cane e al contrario di quello che ci possiamo immaginare, fu proprio l'uomo ad "innamorarsi" dell'animale.
Così senza che nessuno chiedesse alcuna spiegazione ad entrambi, Adolfo ed il suo cane lasciarono il castello.
I festeggiamenti continuarono anche se non si riusciva più a trovare la principessa.

Che bella la vita all'aria aperta, correre con tutte e quattro le zampe, rinunciando finalmente a quella scomoda postura da essere umano, senza fingere più ed essere davvero sé stessi.
Con il naso teso a terra Artù seguiva la pista, scovava le lepri e recuperava i fagiani, Adolfo finalmente non era più solo.
Poi però uno stupido sasso fu tradì il cacciatore, che scivolando finì dritto in fondo ad una scarpata, si ruppe il collo e terminò così la sua storia.
Artù rimase solo.
Solo come un cane.

Se ne andò vagando senza una vera e propria meta per i boschi, con la fame nello stomaco e Adolfo nella testa, nei pensieri semplici e senza finzione del migliore amico dell'uomo.
Camminò tanto sulle sue quattro zampe, fino a che non si spinse così lontano da non riconoscere più i luoghi intorno a sé.
Giunse ad una catapecchia malferma e fu allora che la vide.

Una donna stava zappando la terra, facendo fin troppa fatica in quel lavoro da uomo.
Fosse stato solo quello, sarebbe andato tutto bene, ma per far andare avanti un campo non solo bisogna zappare, ma anche seminare, irrigare, tagliare, raccogliere e riprendere tutto da capo.
Troppo lavoro per una donna così minuta.

Se Artù fosse stato un cane, probabilmente non ci avrebbe neanche fatto caso, gli sarebbero bastate due coccole per tirare avanti, ma anche se voi non ci crederete, Artù in realtà non era un cane ma un contadino che si chiamava Agenore, che tanto tempo prima aveva un bel gregge di pecore.
Le pecore di Agenore, penso si possa sostenere, erano le più indisciplinate di tutta la regione, tanto che il povero contadino si dovette ingegnare per tenerle tutte insieme.
Così gli venne in mente di buttarsi addosso una vecchia pelle di cane, di rannicchiassi a quattro zampe e di mettere un po' d'ordine tra quelle indisciplinate.
Fino al giorno in cui non arrivò il circo in città.

Agenore quando vide la donna nel campo si levò la pelle del cane di dosso e la raggiunse scendendo la collina.
Si parlarono, si conobbero, si fidanzarono.

L'uomo sentì da subito di amarla così tanto che di sicuro ci avrebbe fatto almeno dieci figli, e nulla gli sarebbe importato se un giorno con l'esattore alla porta, avrebbero dovuto sborsare quei fiorini guadagnati con il sudore di entrambi.

sabato 19 gennaio 2013

I dieci fagioli - (carte estratte: 13 11 17 - tiraggio di Selena B.)




Era ormai buio e si lasciò cadere nel campo incolto di qualcun altro, con la schiena all'indietro.
Fece un suono molle quando batté di piatto nel fango: mai giocare al gioco della fiducia da solo, perché nessuno poi ti raccoglie.
Era un'idea sciocca ma Taddeo aveva voluto provarci lo stesso e mentre colava a picco nella melma, pensò a quanto fosse buffo lasciarsi morire così: non avrebbero dovuto neanche seppellirlo.
Affondò completamente nel fango.
Solo le dita dei piedi ne rimasero fuori.
Quelle non sarebbero mai andate sottoterra.

Sofia non si dava per vinta, si perché anche se quel campo incolto non le aveva mai dato nessun frutto da mettere sotto i denti, lei ci lavorava ogni giorno.
- Fanghiglia!
La definivano i più.
Al campo mi riferisco - ovviamente - anche se a pensarci bene, lei il dubbio di non essere molto amata dagli altri contadini dei dintorni un po' lo aveva.
Sofia era quella stralunata, quella che forse le regole di come si coltiva non le sapeva bene.
- Sono cose da uomini.
Dicevano i contadini.
- Ma sono pur sempre una donna! - ribatteva lei. - E' nella mia natura che prima o poi qualcosa riuscirò a far nascere.
Il campo fangoso era lì ad aspettarla come sempre.
La donna le vide subito quelle piantine che ieri non c'erano, perché sbucavano pallide dalla scura terra melmosa.
Finalmente aveva di fronte a sé la prova che tutto quel lavorare non era stato solo tempo perso, come sostenevano i soliti quattro bifolchi. Con il cuore che batteva in petto, Sofia si precipitò al centro del campo per ammirare da più vicino quella meraviglia.

A guardarli bene sembravano dieci piccoli fagioli in fila, e fagioli di tutto rispetto: avevano persino le unghie.
Era arrivato il momento di agire con la massima cura dopo tutta la fatica che c'era voluta per far germogliare qualcosa, ora tutte le sue attenzioni si sarebbero concentrate su quel fazzoletto intorno ai suoi fagioli.
Quella pianta era davvero strana, cinque fagioli a destra e cinque a sinistra, speculari per dimensioni e posizione, in ordine d'altezza andavano dai due centrali più alti e cicciotti, sino ai due esterni più piccoli e ricurvi a gancio.
La donna con le dita ne tastò la consistenza, si piegavano avanti e indietro senza fare troppa fatica, mentre non c'era verso di spostarli di lato senza portarsene dietro almeno altri quattro.
- Chissà che pianta sarà? Tra tutti i semi che ho lanciato a casaccio nel campo, proprio non mi ricordo di averci buttato dei fagioli.

Da adesso in poi avrebbe dovuto procedere usando il buon senso.
Innaffiarli abbondantemente non gli avrebbe fatto di sicuro male, ma appena versò dal secchio tutta quell'acqua, le piantine cominciarono ad andare a fondo.
- Diamine!
Questo era un bel problema, dopo tutto il tempo che aveva atteso che almeno una pianta sbucasse da qualche parte, rischiava ora di perderla il primo giorno.
Forse il terreno era troppo fangoso, forse tutta quell'acqua era stato un errore sin dall'inizio, avrebbe dovuto evitare di bagnare in continuazione.
Senza perdersi d'animo cominciò a portar via dal campo l'acqua in eccesso, togliendone coi secchi lo strato superficiale, il sole fece il resto e nel giro di pochi giorni il campo era umido al punto giusto, né troppo né poco.
Ma nonostante tutto, quei dieci fagioli non crescevano.

Mentre Sofia se ne stava lì accosciata vicino alle piantine, pensando a quale sarebbe potuta essere la sua prossima mossa, successe l'impensabile: le piantine si scossero come se soffrissero il solletico.
Lei cascò sul sedere, spaventata dall'improvviso animarsi di quei germogli e appena si riebbe, tornò ad osservarli da vicino.
Ecco cosa li faceva tanto ridacchiare, un nugolo di formiche camminavano su quelle piantine cicciotte, mordicchiandole di tanto in tanto.
Avrebbe dovuto trovarvi un rimedio, per farle andare via da lì.
- Care formiche! Perché vi accanite con le poche piantine che ho nel mio campo?

In effetti le venne in mente un bello scherzo.
A differenza del suo, nei campi di quegli antipatici dei contadini che la prendevano sempre in giro c'era molto più ben di Dio, così si mise a cercare la regina delle formiche per farle "un certo discorsetto".
Era quella con il turbante rosso, non fu difficile trovarla.
La prese con delicatezza sul palmo della mano e sollevandola da terra le fece vedere che al di là della collina c'erano dei campi molto più invitanti per banchettare.
La regina delle formiche la trovò una cosa giusta e dopo aver ordinato alle altre di mettersi tutte in fila, si allontanarono dalle piantine di Sofia.
Ma quei dieci fagioli non crescevano.

Così per la rabbia si mise a dar pugni tutt'intorno, dandone di così forti da far girar la terra a gambe all'aria e quello le fece venire in mente che una volta qualcuno, le aveva detto che i campi si devono arare prima di coltivare.
Arò il campo, ma i fagioli non crescevano.

Allora Sofia penso che ora che il campo era umido al punto giusto e che non c'erano più parassiti a minacciarlo e che aveva smosso tutta quella terra, forse un po' di compagnia a quelle piantine non avrebbe di sicuro guastato.
Però doveva essere compagnia di un certo tipo. Lei era solita raccogliere semi qua e là a casaccio nel bosco, senza troppo preoccuparsi di che piante avrebbero dato, mentre i dieci fagioli erano così belli che come vicini di casa si meritavano dei semi comprati al mercato.

Piantò quindi questi altri, i quali cominciarono a germogliare in quel terreno ormai fertile e bonificato.
Ma solo i dieci fagioli non crescevano, allora cominciò a rispettare il ciclo delle stagioni e a piantare al momento giusto sperando che cambiasse qualcosa.
Eppure non crescevano, allora pulì il terreno dalle erbacce.
Ancora non crescevano, mentre tutto il resto era una gioia di colori e sapori, di ottime verdure e frutti succosi; poi concimò, rigirò la terra di nuovo, la accudì, imparò chiedendo agli altri contadini, ascoltò il vento, seguì le lune, diventando infine una vera contadina con un campo straordinario.

Verdura, frutta, fiori, tutto rendeva quel terreno il più bello.
Ora era lei ad essere un punto di riferimento per tutti gli altri contadini, vincendo ogni singola gara di paese, da quella per i più grandi ortaggi a quella per i frutti più succosi.
Eppure i dieci fagioli si ostinavano a non crescere.
- Testardi!

Certo di sicuro stavano bene, si stiracchiavano, si flettevano e se li solleticavi ridevano, ma niente più.
Poi un giorno le venne in mente che forse non crescevano perché erano sempre stati maturi.
Che sciocca! Perché non ci aveva pensato prima?
Così Sofia ci si mise d'impegno e cominciò a tirare tutti insieme i dieci fagioli via dal campo e più tirava, più le lunghe radici si sfilavano dalla terra. Non aveva mai visto radici così grandi in confronto a piante così basse.

Con grande fatica finalmente estrasse tutto Taddeo, che tanti mesi fa era triste perché lanciandosi di schiena nessuno lo aveva raccolto.
Non gli sembrò vero di rivedere il sole, con il cuore colmo per trovarsi di fronte a lei, che in quei mesi lo aveva accudito dimostrandogli un incondizionato amore.

Coltivare qualsiasi campo è cosa dura, che non può essere lasciata all'improvvisazione, forse a volte c'è bisogno di avere una piccola speranza, di vedere con i propri occhi che seppur piccoli, alcuni frutti possono nascere anche dal fango e dal dolore.

Sofia appena lo vide si sentì svenire dalla gioia di aver raccolto l'intera pianta dei dieci fagioli, e portandosi le mani al viso, cadde di schiena.
Non raggiunse il suolo.

domenica 6 gennaio 2013

Le insignificanti avventure di Giovanna Cappotto - (carte estratte: 20 21 11 - tiraggio di Lavinia G.)



- Io da grande voglio essere un dottore!
Di rimando un altro bambino rispose.
- Io invece sarò un cuoco e con il mio coltello infilzerò chi mi pare e piace! Così poi tu li puoi curare.
- Ma che cavolo vuol dire? - Chiese un terzo bambino, per poi proseguire. - Il cuoco mica infilza le persone, io allora sarò un attore che viaggerà per tutto il mondo, così potrò raccontare nei teatri quanto sono scemi i miei amici! Ahahahah.
Poi tutti si voltarono verso Giovanna, mancava solo lei nel gioco del "da grande sarò".
La bimba non ci pensò troppo su e disse a gran voce.
- Io sarò un cappotto!

Quel giorno la vita di Giovanna prese una piega estremamente prevedibile come accade solo a chi ha idee che gli altri non comprendono, tanto che la piccola stralunata che voleva diventare un cappotto, divenne sul momento la prima canzonatura di Diego il bimbo attore, che cominciò a cantilenare "Giovanna Cappotto, con occhi da cerbiatta, esprime desideri, proprio da bimba matta".
Marco il bimbo cuoco, la punzecchio con un rametto.
- Io qui non vedo stoffa da cappotto, ma solo delle magre braccine, una testa e due codini.
Ogni parte del corpo che citava, il cuoco la cerchiava nei contorni col rametto, come in quei disegni che si vedono dal macellaio, dove la mucca o il maiale hanno il corpo diviso da linee tratteggiate.
- Gambe, piedi, spalle… ma! Che dire! Non vedo asole e bottoni.
- Su dai andiamo, è una femmina! Cosa vuoi che capisca?
Con questa arringa l'avvocato scaldò definitivamente gli animi dei tre maschietti, che se ne andarono verso casa ridendo della povera Giovanna, che rimase lì da sola; l'unica che a dire il vero non era ancora diventata quello che voleva diventare.

Probabilmente è davvero facile far qualsiasi mestiere, perché basta seguire la via che già in tanti hanno percorso. Tutto si impara, tutto può essere spiegato, appreso o cucito addosso, tutto tranne voler diventare un cappotto, il che presuppone un certo tipo di allenamento che nessuno ti può di sicuro insegnare, si deve procedere per tentativi.
Poi ci sono le malelingue, che magari non approvano quel tuo bislacco desiderio.
Ma da quel giorno Giovanna cominciò ad intraprendere il difficile cammino di essere un cappotto, senza farlo notare troppo a chi le stava intorno.

I primi timidi tentativi furono quelli che avrebbe potuto improvvisare chiunque, come il nascondersi nell'armadio per una notte intera, ciondolarsi sullo schienale di una sedia, e più difficile tra tutti, cogliere di sorpresa un adulto lanciandosi sulle sue spalle.
Qualcuno aveva pazienza e lo prendeva per un gioco, altri la cacciavano in malo modo, come se quelli fossero solo i capricci di una bimba.
Non sarebbe stato facile diventare un cappotto senza destare troppi sospetti.
Un cappotto tiene caldo quando fa freddo! Per cui bisognava familiarizzare con certe temperature; in inverno Giovanna se ne stava piazzata su un qualche marciapiede, giocando alla campana vicino ad un incrocio, così da poter trovare una bella corrente ancor più fredda che la spingesse più in alto ad ogni saltello.
D'estate la questione si faceva ben diversa. Nonostante la sua incrollabile volontà, sua mamma l'avrebbe spinta di sicuro fuori in giardino, se l'avesse vista starsene per un intera stagione chiusa nel ripostiglio.
- Ma che fai, non sei mica un calzino vecchio!
Così per farla franca si ingegnò anche lì per passare inosservata.
Chi mai avrebbe sospettato di una bimba che mangiava in continuazione gelato o che si lanciava nell'acqua fredda di una qualche fontana?
Imparò a tenere a bada il freddo.
Giorno dopo giorno l'allenamento diede i suoi frutti e senza dover dispensare troppe spiegazioni in giro, Giovanna ormai grande divenne finalmente un cappotto, il giorno che incontrò "Leone il barbone".

Quel disperato se la portò via ai primi freddi, la incontrò che sventolava appesa ad un cancello. Lassù c'era finita mentre stava facendo uno dei suoi soliti allenamenti da cappotto, ma quel giorno il vento era così forte, che era volata via, trascinata per un paio di isolati prima di aggrovigliarsi su quelle creste.
Leone incredulo davanti alla fortuna che gli era capitata, se la caricò sulle spalle e lei subito si accoccolò lì intrecciandogli le braccia intorno al collo, come si fa con le sciarpe.
- Ah! Che fortuna! Sembra nuovo, mai indossato.
Disse Leone mentre se la lisciava addosso per vedere come gli stava Giovanna.
Lei avrebbe voluto rispondergli, ringraziandolo per quella frase così carina, ma dove si era mai sentito dire che un cappotto potesse parlare?
Rimase in silenzio.

Essere il cappotto di Leone era uno spasso, andavano in giro tutto il giorno e non c'era da preoccuparsi troppo, lui sapeva fare un sacco di cose.
Sapeva dormire arrotolato nei giornali, sapeva che quando si bagnava gli conveniva asciugarsi nudo al sole, sapeva addirittura fare cerchi con il fiato quando in inverno c'era davvero tanto freddo.
Ma tutte queste cose, che per i più erano solo "tipiche occupazioni da barbone" per Giovanna erano ben altro.
Lei lo aveva capito. Leone non era un barbone, si stava allenando anche lui per diventare quello che voleva diventare davvero: fragrante tabacco.

L'uomo si dannava perché nonostante fossero anni che portava avanti i suoi allenamenti, mancava ancora qualcosa affinché potesse diventare dalla testa ai piedi completamente tabaccoso.
Giorno dopo giorno con addosso il suo cappotto, si arrotolava nei giornali, faceva i cerchi di fumo con la bocca e soltanto quando si essiccava al sole, rimaneva nudo.
Giovanna lì piegata in un angolo, un po' arrossiva a vederlo spaparanzato senza nulla addosso e poi quando pensava "come è bello Leone", con la manica si ripiegava ancor di più su se stessa, per non farsi scoprire a sbirciare.
- Si sta alzando un forte vento!
Disse il barbone al cappotto, che non rispose per rimanere nella parte.
- Guarda che con me ci puoi parlare… Non lo sai che i barboni sentono le voci e parlano con le cose?
Aggiunse dandogli le spalle mentre si cominciò a rivestire.
- Non lo sapevo… beh allora… anche io ti rivelerò un segreto… so come fare in modo che tu sia davvero fragrante tabacco.
Disse lei timidamente.
- Ah interessante!
Leone si girò guardandola, mentre la sua testa sbucò dalla maglietta stropicciata.
- E come si fa?
Giovanna sorrise.
- Beh come prima cosa, infilami…

Il vento si fece più deciso, Leone si infilò il cappotto che si gonfiò come una vela.
Giovanna aveva imparato a farlo nei suoi tanti allenamenti, quando saltava sulla campana o quando volò via e si andò a fermare sul cancello.
Il cappotto si strinse così forte al collo di Leone che questa volta entrambi presero il volo.
- Wow! Ma questo cosa c'entra con il diventare tabacco?
- Me l'hai insegnato tu, non si può essere cappotto da soli, bisogna trovare chi ha bisogno di indossarti.
- Continuo a non capire, ma va bene lo stesso… e' divertente starsene quassù.
Il mondo là sotto sembrava così piccolo, i ricordi di una vita da esseri umani si facevano sempre più lontani.
Le gambe di Giovanna sventolavano al vento, mentre continuava a tenere le braccia incrociate al collo di Leone, senza lasciarlo neanche per un solo istante, poi gli disse:
- Senza aria che filtra, il tabacco non può bruciare da solo!
- E adesso che c'è aria, come gli diamo fuoco?

Chi fosse passato la sotto in quel momento, probabilmente non avrebbe compreso davvero quella scena, nemmeno se fosse stato un cuoco, un attore o un avvocato di esperienza, che con il naso all'insù avrebbe visto solo un cappotto e del tabacco trasportati dal vento, una scena curiosa ma di sicuro per loro tre, un evento insignificante.
Giovanna lo baciò, come quando tiri una lunga ed intensa boccata di fumo, infine lo aspirò e Leone prese fuoco.