giovedì 30 agosto 2012

Il vestito di Cornelia - (carte estratte: 0 2 6 - tiraggio di Cristina L.)



Chi ha mai tenuto in considerazione la miglior parola che possa cingere il proprio seno?
O quella che si adatta meglio ad un braccio, un polpaccio o alla pancia?
Sono pensieri bizzarri che non ci si fa caso, poiché ogni cosa che non ci è accaduta parrebbe destinata al non esistere... ed invece c'è.
Tutto se lo si guarda bene è bizzarro, e quello che accadde a Cornelia vi voglio di sicuro raccontare.

La nostra bella paesana, in una calda estate, scese al fiume per trovar del buon sollievo, tanto che lì tolti tutti i suoi panni e disposti vicino ad un bel libro che recava con sé, si immerse nelle acque a farsi un bagno.
Chi ben conosce certe storie, sa da sé che c'era un pazzo che già in passato avea creato scompiglio per questioni di indumenti e fiumi, e neanche a farselo dire due volte rubò i vestiti alla povera Cornelia, lasciandola fresca e ignara di ciò che le stava accadendo alle spalle.
Benché sia interessante ciò che poi accadde al pazzo, vestito con quegli indumenti femminili, dovrà in questa storia rimanere un mistero, poiché fu lui e questo evento ad esser la scintilla che portarono Cornelia a riconsiderar se stessa.

Uscita dal fiume, la ragazza ci mise poco a capire il dramma in cui suo malgrado si era andata a cacciare, perché senza vestiti in paese non ci poteva proprio tornare.
- Cosa potrebbero dire di me quelle malelingue, se con le grazie fuori mi vedessero fuor di grazia?

Quante volte le parole degli altri risultan essere i confini delle nostre azioni, tanto che come tante belle figurine stiamo attenti a non andar oltre una "a" o una "s" o qualsivoglia lettera che mette un punto alle nostre azioni.
- Devo in qualche modo poter rimediare, per lo meno per riuscir ad arrivare a casa e metterci una pezza.

Quel che le venne in mente in quell'istante di sicuro rivelò il suo spirito intraprendente e appena si rese conto che il pazzo, tutto gli avea tolto tranne quel solo libro, decise di vestirsi con le sue pagine.
Ad un pazzo mica serve un libro, poiché le parole così ordinate quello mai potrà comprendere, così Cornelia fece quel che non si augura mai nessun autore come fine per il proprio testo: lo aprì per strapparne ad una ad una tutte le pagine.
La pelle ancora bagnata, fu una perfetta base per far aderire quei fogli, tanto che uno sull'altro intrecciati per bene, tutti quei capitoli le fecero da seconda pelle.

Tra un prick ed un frack, i fruscii e gli sfregamenti di carta accompagnarono Cornelia sino al paese, in quel candido vestito color del foglio con tante parole, con frasi e punti che le facevano da rifiniture.
Il seno di Cornelia così bello e generoso fu cinto dalla parola "uovo", il braccio fu un "monastero", in vita tenne "il matto", sulle gambe uscirono "piume d'oca", poi "voce e canto" sui polsi.

Barba e Rufus si son sposati.
Sette uova per fare una frittata.
Parlar con l'oca, perdere la voce e rispondere alle domande delle monache.

Cornelia tornò in paese passando attraverso gli occhi di tutti. I suoi confini cominciarono così a stringersi, poiché tutte le parole che ora le cingevano il corpo, ridefinirono le parti della ragazza.
La ragazza per tutti perse il seno prima ancora di perdere il senno, tanto che i suoi compaesani, guardandole il petto lessero due uova.
Era diventata come un atlante medico vivente, con tutte quelle paroline a corredo delle figure.
Più la gente la guardava, più il sole però asciugava quella carta e tutte le parole che si raggrinzivano, fino a che cominciò persino a far fatica a camminare.
Cornelia via via fu un corpo ancora pulsante dentro ad una statua di cartapesta, rigida, fissa e immobile, fatta di parole che la ridefinivano.
Pian piano anche il senno fece spazio ai soli vocaboli letti da tutti e Cornelia dentro a quelli cominciò a pensar altro di sé.
-  Le mie uova sono dure, non le riesco più a toccare e queste bende mi fan prudere il monastero e le oche… tutte e due le oche.

La gente scorreva il dito su Cornelia, vedendo solo le frasi che si erano abituati a leggere, seguendo la logica sconclusionata senza un ordine preciso e la carta stringeva così tanto che pian piano il respiro della ragazza si fece strozzato.
Maledetti libri!
Maledette parole e pensieri!
Maledetti tutti che un po' per volta vi siete mangiati Cornelia, e quando qualcuno pronunciava a voce alta quelle frasi, la carta si stringeva prima.

Poi verso sera giunse al paese il matto, che gridando e sbracciando veniva giù per la via facendoli scappare tutti.
- Ahi ahua auu uau uaiiuuu…
- Stategli alla larga! quello è il matto contagioso, non fatevi toccare!
Così chi a destra e chi a sinistra gli fecero spazio.
Ad un pazzo mica serve un libro, poiché le parole così ordinate quello mai potrà comprendere, e con le mani sporche e lorde dell'albume di tutte le storie che aveva fino a quel momento vissuto, fece a pezzi quella prigione di buone intenzioni, con tutta la rabbia che aveva in corpo.

Cornelia gridò forte e respirò a pieni polmoni, come fa un pargolo sculacciato per la prima volta dalla levatrice; per terra caddero mille uova che si frantumarono, monache e mattoni, le oche si rincorsero per tutto il paese lasciandosi dietro nuvole di piume color della carta.
Barbe, alberi, acqua di fiume; sonagli, inchiostri e bicchieri vuoti, vomitati dalle pagine strappate come dagli armadi delle signore.
- CORNELIA!
Fu l'unica voce.

Lei spalancò gli occhi a veder lì in mezzo, tra tutte quelle cose che le erano schizzate fuori, il pazzo con indosso i suoi vestiti, come fosse un'altra sé ma con la barba e le mani lorde.
Non più libri per Cornelia al fiume, ma solo una piuma d'oca e un po' d'inchiostro.
La piuma era l'unica cosa che le era rimasta appiccicata addosso, storta su una gamba, e da quel giorno la ragazza usò proprio quella per definire i suoi confini, per tracciare sulla sua pelle tutte le parole che le veniva invero voglia di scrivere.

sabato 25 agosto 2012

L'altalena del marinaio - (carte estratte: 21 10 8 - tiraggio di Simone C.)



Se io fossi un vero scrittore, vi narrerei di come le assi del vascello gridavano piegandosi, vi terrorizzerei parlandovi del mare buio che aggrediva il nostro nero veliero, vi inchioderei alle panche per evitarvi il destino crudele di chi viene inghiottito in mare aperto dai venti della tempesta; ma poiché io sono un qualsivoglia mozzo, vi racconterò invece cosa ci stava a fare un ragazzo solo, sull'albero maestro, in bilico tra i vortici.
Quello era come me un mozzo (ma tutto intero) che ogni cosa aveva a cuore, perché la marineria era la sua più gran passione.
Non gli importava di doversi spaccar la schiena a pulire i ponti, né tantomeno si tirava indietro quando si doveva montar la guardia tutta notte.
Il mare è luogo misterioso e pieno di pericoli, sotto la cui superficie si raccolgono creature, morte e storie.

Ogni notte il vascello solcava la pece, nel cuore dei Caraibi per conquistar tesori, e il mozzo se ne stava aggrappato all'albero maestro, senza che alcuna corda lo reggesse in quella scomoda posizione; del resto cosa può valere l'ultimo dei valorosi? Un ragazzo che per tanta magrezza le sue cosce insieme potevano entrare in competizione con la sola gamba di legno del capitano.
Quel capitano che con un solo occhio, lo spediva a faticare in ogni dove.
La ciurma era formata di maledetti tagliagole, uomini che di mare ne avevano persino l'odore, che come barracuda si muovevano anche sulla terra ferma, non fermandosi di fronte a niente, pagando tutti con la sola moneta che sapevano contare: il pretendere.
Tutti forti e possenti, tanto che la loro nave era la più temuta: come fosse invisibile, perché il terrore che induceva era così profondo che che anche chi l'avesse vista sulla propria rotta avrebbe fatto finta di non esser attaccato e più di ogni altra cosa, avrebbe fatto finta di non esser mai morto sotto i colpi delle sciabole, convincendosi anche nel momento dell'ultimo respiro, di essere ancora lì in mare aperto, tra le onde quiete.
Non vi è più morto di chi non vuol morire!

Il mozzo era l'unica virgola in mezzo a tutti quei punti fermi.
Magro come un chiodo, senza forza e malmesso, l'unico che aveva davvero l'onere di tenere bene a mente che tra tutti quei terribili era l'unico che poteva morire.
Ma un giorno si scatenò la tempesta.
Arrivò di notte all'improvviso, come un ospite inatteso, cogliendo nell'ultimo istante della veglia sia la ciurma che il capitano.
Io vi ho già raccontato di quanto fossero solidi quegli uomini, di quanto pesante fosse il valore della leggenda che li circondava; tanto che quella, che era la tempesta peggiore di sempre, per loro fu solo una delicata ninna nanna.
Il vento sibilava, spostando l'asse del veliero da babordo a tribordo, come se fossero in un enorme culla a dondolo, così soave che il sonno li raccolse tutti, facendoli cadere addormentati.
Per un bimbo è sufficiente la delicata mano di una madre, che dondolando piano da un lato all'altro il suo bambino, lo lascia un poco tra le braccia di Morfeo; ma qui trattandosi di indicibili e spietati tagliagole, fu questa peggior tempesta ad esser per loro soporifera.

Anche l'uomo più forte nel sonno muore, stroncato da quel dondolio che lo porta così vicino al bordo della nave da farlo rotolare in mare; e come tante botti, tutti quelli, continuavano a rotolare da babordo a tribordo addormentati.
Il mozzo, così debole da esser come noi, che di fronte ad una tempesta non ci addormentiamo ma tremiamo, da quella posizione aggrappato alla cima dell'albero maestro, vedeva i marinai persi tra i dondolii e in un estremo gesto disperato, per salvarli tutti dal mare aperto, si mise in piedi sul pennone sfidando il vento.
Tira e spingi mozzo, come un equilibrista in mezzo alla tempesta, cominciò a controbilanciare da solo col suo misero peso tutta la nave, che ad ogni piegamento ad est, faceva corrispondere un suo tendere il collo ad ovest, per riportare tutti quei corpi addormentati al centro del veliero, lontano dai bordi.
Coma il contrappeso di una lunga bilancia tra la chiglia ed il suo corpo, compì l'impresa più eroica che quegli uomini avrebbero mai potuto vedere.

Ma per loro fu come un sogno nel dormiveglia, lavato via presto dagli occhi la mattina successiva, quando ormai il mare calmo aveva dimenticato la pece e la tempesta.
- Mozzo! cosa fai ancora lì aggrappato al palo? Scendi presto che un nuovo giorno è pronto a raccontar di noi solo, una nuova storia.

E quello, gracile, scese scivolando giù per il legno stringendo le cosce, con tutta la consapevolezza di chi in quella leggenda non aveva messo un punto ma solo una piccola virgola,

giovedì 16 agosto 2012

La minchia del parroco - (carte estratte: 5 21 13 - tiraggio di Alessandro S.)



Quando Don Angelo chiudeva gli occhi danzava.
Danzava allegro, compiendo ampi circoli senza l'abito talare, nudo, libero e fresco; a volte apriva un solo occhio per vedere un po' di fedeli e un po' di danza.
La musica lo aveva da sempre ispirato, tanto che nel punto più alto della sua predica domenicale, con slancio cercava sempre parole nuove per intonare qualche canzone; ed era ormai pratica comune tra i fedeli, seguire le melodie di Don Angelo, senza troppo preoccuparsi di regger in mano alcun librello.
Ma un grosso problema per il parroco venne a galla, il giorno che lui stesso si rese conto di aver “la minchia” in bocca.
Ora non vorrei che da ciò voi intendeste male, perché non si trattava affatto di cosa blasfema: “la minchia” di cui io parlo non è di sicuro ciò che ora voi state pensando, ma bensì la sola parola.
Si perché un giorno, di punto in bianco, senza sapere neppure da dove quella fosse giunta, Don Angelo si ritrovò a dir soltanto: - La minchia!
Come se quella avesse sostituito tutte le sue parole.
Oh Diavolo di un destino birbante!
Così se un fedele si mostrava devoto al padre, cercando una qualche sorta di assoluzione, rischiava di sentirsi dire “la minchia!” dopo aver vuotato il sacco davanti al suo confessore.
Che tragedia!
Don Angelo benché fosse pastore del signore, abituato ad aver confidenza con questioni “da pescatore”, a quel punto non seppe più che pesci prendere e rispondeva solo con un sorriso ed il gesto della croce, dispensando a destra e a manca più benedizioni di quante non ne fossero necessarie.
Ma nella sua testa, la risposta ad ogni domanda continuò a rimanere insistente “la minchia!”.
Potrei scriverlo di continuo: la minchia, la minchia, la minchia...
Più di cento o mille volte non basterebbe purtroppo a  farvi capire, quanto fosse il disagio del pover'uomo.
Ripercorrendo all'inverso il momento in cui si era ritrovato a ripetere per la prima volta quel mezzo mantra ed anatema, si accorse che accadde al terzo giro di danza della domenica precedente.
Lì con gli occhi chiusi, nel bel mezzo della predica ai fedeli, mentre ballava nudo nella testa per trovare parole sincere, si immaginò di far tre belle piroette ed alla terza si volse verso tutto l'imbarazzo che aveva in mezzo alle gambe: la minchia!
Se quando immagini qualcosa tieni gli occhi ben stretti, quella fantasia rimane tua per sempre, ma ad aprir anche solo di poco mezzo occhio piccolino, ogni tua idea si affaccia al mondo.
In quel preciso istante, con un occhio chiuso nell'estasi fantastica e l'altro mezzo aperto per ritrovare il concreto dei fedeli che ascoltavano la messa; quell'immagine fin troppo forte e che fa a pugni con la santità del Cristo, saltò fuori dall'occhio semiaperto per aggrapparsi alla bocca di Don Angelo.
“La minchia!” come conclusione della funzione, benché potesse esser piena di poesia, fu prontamente ingoiata dal prete per non deludere i suoi fedeli.
Ma da quel preciso istante lei cominciò a farsi strada dallo stomaco alla gola, fino a prendere dimora stabile sulla lingua del sant'uomo.
“La minchia” per un uomo di chiesa è un grave problema, che non poteva ancor per troppo tempo stazionare lì senza uno scopo ben preciso e anche se virtuosamente Don Angelo era uscito da quell'impiccio per tutta la settimana, alla predica della domenica, il popolo di Dio avrebbe voluto sentir da lui sante parole.
Giunse così il giorno benedetto e com l'abito talare indosso il prete fece il suo ingresso di fronte ai fedeli.
Sforzandosi così di nulla immaginare, tenendo gli occhi ben aperti per non doversi ritrovar nuovamente troppo libero a danzare; Don Angelo decise che fosse giunto il momento tanto atteso della predica: così cominciò com'era suo solito a cantare.
- Laaaaaa… Laaaaaa... Laaaaaaaa... Miiiiiiiiiinnnn... chiiiiiiiiiii... aaaaaaaaa...
e tutti in coro giù a cantar ancor più forte.
- Laaaaaaa… Miiiiiiiii... nnnnnnn... chiiiiiiiii... aaaaaaaa...
e poi ancora con più vigore, sino a far vibrare per suono pieno i vetri ornati della chiesa.
Così forte che noi tutti, presi dal canto non si bada alle singole strofe, rapiti dalla melodia che armonizza con lo spirito.
Tanto più grande è qualcosa, che si fa fatica a distinguerla, poiché gli occhi son troppo piccoli per trattenerla nel suo insieme.
Così da quel giorno, per Don Angelo e i suoi fedeli “la minchia” divenne della chiesa la più bella canzone.